Dalla parte dei rifugiati


I media non sono gli unici a informarci sulle storie dei rifugiati, che parlano loro e raccontano le loro storie nel miglior modo possibile. Anche organizzazioni come l’UNHCR aiutano il pubblico a capire la profondità e la risonanza di quanto sta accadendo.

Warda Al-Jawahiry lavora come video producer per l’UNHCR nell’aerea del Medio Oriente e viaggia per coprire storie di rifugiati in Europa e fuori. Ha lavorato in Siria, Libano, Giordania e poi Italia, Grecia, Croazia, Macedonia, Serbia e Ungheria.

Inoltre accompagnerà la squadra di rifugiati che quest’anno prenderà parte alle Olimpiadi 2016.

Quali sono le sfide che un giornalista/producer si trova ad affrontare quando si raccontano queste storie di migrazione al grande pubblico?

Ogni paese e contesto presenta le proprie sfide.

Sul campo, la difficoltà maggiore che ho avuto in Italia, per esempio, è stata individuare le persone che dovevamo filmare o su cui dovevamo scrivere. Il mio lavoro è raccontare la storia dei rifugiati che stanno fuggendo da guerre e persecuzioni, quindi quando una nave attracca o le persone vengono portate a riva, parlo con siriani, iracheni, afghani, somali ed eritrei.

Adesso la circolazione non è più così libera ma prima i rifugiati tendevano a spostarsi molto velocemente dalla Sicilia, diretti a nord verso il resto d’Europa. Di conseguenza era difficile parlare con loro e riuscire a raccontare le loro storie.

Dall’anno scorso la migrazione è diventata una priorità nell’agenda dei media e così non siamo più gli unici a parlare di questo tema. Far sentire la nostra voce è difficile. E allo stesso modo è difficile trovare nuovi modi di raccontare una storia che ormai va avanti da anni.

Lei ha raccontato molte storie e ha conosciuto le vite di molte persone, quali sono quelle che le sono rimaste più impresse?

Eravamo in un centro di accoglienza a Madrid per incontrare una famiglia la cui figlia diabetica era morta a bordo del gommone che avevano preso dall’Egitto all’Italia. Mentre percorrevamo il viale alberato che portava alla struttura, ho intravisto la madre, vestita di nero, seduta sotto un albero circondata dalla sua famiglia.

Prima che potessimo avvicinarci, il padre ci è venuto incontro velocemente e in un tono di voce adirato mi ha raccontato la loro storia e messo in chiaro che non volevano né noi né nessun’altro lì.

Era un dottore e mi ha raccontato di come la vita in Egitto fosse diventata insopportabile per loro, di come non potessero più permettersi le medicine per la figlia più piccola, e quindi avessero deciso di partire. Mentre stavano salendo sulla barca, i loro bagagli sono stati gettati in mare dagli scafisti, che volevano avere il maggior numero di persone possibile a bordo. In una di quelle borse c’erano le medicine per la figlia diabetica. La ragazzina che aveva circa 14 anni, è morta lentamente nelle braccia di sua madre durante il viaggio di dieci ore. Lui era arrabbiato con me, con te, e con il mondo per averli abbandonati.

Prima di andarmene, sono rientrata per recuperare la mia borsa. In un cortile ho visto la madre seduta su una panchina. Guardava le figlie mentre giocavano a basket, ma era come se non le vedesse.

Ogni tanto sollevava lo sguardo e mormorava qualcosa. Forse stava parlando con sua figlia, con Dio, non lo so, ma il suo viso rimarrà per sempre impresso nella mia mente. Ancora oggi porto con me una fotografia della figlia, è un selfie di una ragazzina di 14 anni con suo padre, lei fa il broncio come farebbe qualsiasi adolescente, suo padre la abbraccia come ogni padre farebbe. Questa è la ragazza che il mondo ha abbandonato.

Su cosa si concentra quando racconta una di queste storie? A che cosa presta maggiore attenzione?

L’obiettivo del mio team è raccontare la storia dei rifugiati, la storia umana, per creare un collegamento tra i rifugiati e il resto del mondo. Se vi dicessi che ci sono 65,3 milioni di rifugiati nel mondo, trovereste il numero difficile da processare e vi sentireste impotenti.

Il mio lavoro è non solo mostrare al pubblico le persone dietro i numeri, ma anche le persone meravigliose e le varie iniziative che stanno aiutando i rifugiati in tutto il mondo. Spero che guardando queste storie il pubblico potrà imparare qualcosa della loro vita, potrebbe essere spinto ad aiutare o comunque sentirsi ispirato dalla loro tenacia. Il filo conduttore è l’aspetto umano della storia.

L’UNHCR è prima di tutto un’agenzia di protezione; hanno come obiettivo quello di prendersi cura delle persone vulnerabili e bisognose. Lavoriamo con i colleghi per non compromettere questo risultato. Il nostro team è composto per la maggior parte da giornalisti che sanno come riconoscere una buona storia, ma anche che in fin dei conti lavorano a vantaggio dei rifugiati, quindi non possiamo esporli ad alcun tipo di pericolo a causa delle nostre storie.

Per esempio, alle persone di cui vogliamo parlare spieghiamo con chiarezza di cosa tratterà la storia e dove finirà il girato. Oltre che pubblicare sulle nostre piattaforme, distribuiamo a molti broadcaster e ad agenzie di stampa. Quindi se gli interessati non vogliono apparire su canali di lingua araba, per esempio, potrebbero decidere di non voler essere filmati.

Parlando di fare attenzione a non esporre le persone a rischi, nella tua esperienza quali sono le cose da fare e da non fare quando si tratta di minori rifugiati?

È molto bello realizzare delle storie sui bambini, le persone connettono con loro, ma filmarli richiede il consenso dei genitori, quindi per esempio non possiamo intervistare minori non accompagnati.

Quando abbiamo lavorato a storie sui bambini come le due sorelle che costruiscono bambole in Libano, è perché li abbiamo incontrati e ci siamo subito trovati.
Le cose da fare a mio parere sono spiegare tutto ai genitori ed essere sicuri che tutte le persone coinvolte siano contente di partecipare. Per quanto riguarda le cose da non fare, non si devono costringere le persone a fare qualcosa che non li fa sentire a proprio agio o a cui non vogliono prendere parte.

Ho vissuto sulla pelle la guerra tra Iraq e Kuwait, ero in Iraq all’epoca. Mi ricordo i bombardamenti molto bene ma a quel tempo non pensavo fossero nulla di eccezionale. Pensavo che anche tutto il resto del mondo si trovasse nella stessa situazione. Quando parlo con questi bambini, soprattutto i più piccoli, mi accorgo che condividono quella mia prospettiva di allora. Alcuni di loro sono terrorizzati da quello che hanno visto ovviamente, ma per loro è quella la realtà.

La loro innocenza è bellissima, ma l’età e il tempo presto fanno sentire il loro peso e cominciano a vedere le cose differentemente.

In che modo l’UNHCR sta cercando di raggiungere un pubblico più ampio e più giovane?

Cerchiamo di raggiungere le nuove generazioni soprattutto tramite i social media. Abbiamo un team che si occupa di social sparpagliato in vari fusi orari che lavora 24 ore al giorno per alimentare le nostre piattaforme in crescita.

Lavoro per l’UNHCR da tre anni ormai e il numero dei nostri spettatori e la nostra base di followers è cresciuta. La sfida che dobbiamo affrontare come  molti altri in questo settore è come mantenere vivi l’interesse e l’attenzione delle persone in un’epoca in cui sono bombardate dall’informazione, e anche come raggiungere chi non ci segue attivamente o non sa come contattarci.

Per quanto riguarda la squadra di rifugiati che parteciperà alle Olimpiadi, quale pensa che sia il significato di questo evento e come pensate di coprire questa storia?

Per la prima volta nella storia una squadra di rifugiati gareggerà alle Olimpiadi. È una splendida storia di cui far parte. Gli atleti sono entusiasti di partecipare, così come noi di raccontare questo viaggio.

Ci sono molti modi di coprire questa storia e le stiamo esplorando tutte, di sicuro alimenteremo costantemente il nostro account Twitter con foto, video e interviste.