L’obiettivo del giornalismo non è solo raccontare delle storie, ma anche farle arrivare ai propri lettori, telespettatori o ascoltatori in un mondo in cui la distrazione è a portata di click. Per questo motivo sempre più testate fanno ricorso a webdoc e documentari interattivi per coinvolgere il pubblico.
Abbiamo parlato di interattività e di i-doc con Sandra Gaudenzi, senior lecturer alla Westminster University e head of research di !FLab, un’iniziativa a livello europeo che aiuta storytellers a produrre narrazioni interattive.
Che cosa si intende per i-doc o webdoc?
Il termine i-doc è l’abbreviazione di “interactive documentary” e webdoc di “web documentary”. Entrambi si riferiscono all’evoluzione del documentario nei media digitali ma hanno enfasi diverse.
Il webdoc è creato per il web, mentre l’i-doc include tutte le piattaforme interattive - comprende progetti sui tablet, sui telefonini, storie auditive e geolocalizzate, giochi educativi, ed ultimamente realtà virtuale ed aumentata.
In poche parole: l’i-doc comprende il webdoc, ed entrambi utilizzano il supporto digitale per incorporare una livello di non linearità e partecipazione nella storia stessa.
Qual è il valore aggiunto di questo tipo di narrazione?
Una narrativa interattiva mette l’utente al centro della storia. Se l’utente non è attivo, la storia non continua. Il contrasto attivo/passivo (lean forward/lean back) si basa su una nuova sorta di contratto tacito tra l’autore e lo spettatore-utente: è un invito ad esplorare in prima persona, a prendere la responsabilità per le proprie decisioni ed, a volte, a partecipare e trovare soluzioni.
C'è il rischio di fare più attenzione alla forma che al contenuto con questo tipo di racconto?
Voglio sperare che il contenuto - e soprattutto l’esperienza dell’utente - sia più importante della forma! Ciò detto, visto che l’i-doc è relativamente nuovo, in questo momento c’è sicuramente un’attenzione particolare alla potenzialità della forma, visto che tutti cercano di creare una nuova grammatica per la narrativa interattiva. Credo che questo sia un fenomeno temporaneo legato all’attuale fase di sperimentazione.
Pensa che media di servizio pubblico trarrebbero un vantaggio dall'adottare questo tipo di narrazione sulle loro piattaforme online?
Mettiamola così: i giovani non guardano più la televisione. Sono cresciuti in un mondo in cui sono abituati a scegliere e sentirsi partecipi. Se i media pubblici non colgono l’occasione per preparare il loro futuro, sono fuori. Sembrerà un po’ radicale, ma l’industria musicale ha imparato la lezione alcuni anni fa.
Mio figlio di 14 anni preferisce guardare YouTube che la RAI. Non è la voglia di guardare contenuto che diminuisce; cambiano le modalità’ di consumo e le aspettative rispetto al contenuto. Il top-down non funziona più. Dobbiamo imparare a mantener a la qualità televisiva ed adattarla ai nuovi formati interattivi. È sicuramente una sfida, ma è una mossa strategica indispensabile.
Nel corso dei tuoi studi ha rilevato che il pubblico risponde meglio a storie raccontate in questo modo?
Dipende. Essendo una nuova forma è difficile parlarne in modo generale, perché ogni progetto è molto diverso.
Il recente
“Generation What” di Upian e Yami2 - un’indagine francese sui valori della "generazione millennial" - poteva essere realizzato solo via internet ed è stato un successo incredibile. Per la prima volta un’intera fascia di giovani tra i 15 e i 25 anni ha risposto a domande che nessuno aveva mai avuto il coraggio di porre. Lo hanno fatto perché si sono sentiti presi sul serio attraverso un mezzo che considerano loro. Ed il risultato è che per la prima volta un i-doc parla di una generazione attraverso una logica collaborativa, e riesce ad andare più in profondità.