Persone che arrivano a bordo di barche sovraffollate, disidratate e stanche; uomini, donne e bambini in ginocchio sulla sabbia delle spiagge di Lesbo dopo essere sopravvissuti alla traversata.
Abbiamo visto tutti queste immagini alla televisione, o sugli schermi dei nostri computer e cellulari. Ma una volta che arrivano, molte di queste persone rimangono bloccate in campi profughi sparpagliati per l’Europa, spesso in condizioni tutt'altro che soddisfacenti.
Patrick Strickland lavora come online producer per Al Jazeera English e ha raccontato molte di queste situazioni, soprattutto in Grecia, dove si è concentrato anche su come le comunità progressiste locali stanno assistendo i rifugiati.
Su cosa si è concentrato principalmente nel raccontare vari momenti della recente crisi migratoria?
Ho iniziato a lavorare su questa storia quando ero di base in Libano e dopo mi sono spostato in Grecia, Macedonia, Ungheria e Germania. Il focus è cambiato nel corso del tempo, dal momento che si tratta di una situazione fluida e che per molte persone sta peggiorando.
Ho raccontato le storie di diversi gruppi etnici; per esempio la Macedonia ha chiuso i suoi confini ai non-siriani e quello è stato l’inizio di questo processo di dividere le persone sulla base della loro nazionalità. Al tempo scrissi anche un pezzo sul perché i marocchini e gli iraniani stavano lasciando il proprio paese, perché avevo realizzato che molte persone rimanevano confuse da questa tendenza.
In Grecia, mi sono anche concentrato sul modo in cui le comunità progressiste locali hanno tentato di trovare un modo significativo di offrire solidarietà e fare concretamente la differenza.
Le iniziative dal basso di questo tipo sono importanti da evidenziare, anche per mostrare che la situazione nei campi è tutt’altro che ideale. E a dispetto dei problemi economici che la Grecia deve fronteggiare, non stiamo parlando di numeri enormi, è piuttosto una questione di come gestirli – si potrebbe dire che si tratta più che altro di una crisi della gestione europea, non una "crisi migratoria".
Come è cambiata la situazione sul campo dopo che alcuni paesi hanno chiuso i propri confini?
All’inizio, quando le persone avevano modo di proseguire il proprio viaggio, avevano molta meno paura di parlare; non rimanevano mai nello stesso posto per più di due o tre giorni.
Ora la situazione è cambiata, i confini sono chiusi da marzo e molte persone sono ormai bloccate da mesi. È una questione di prestare attenzione al fatto che queste persone sono stanche, frustrate, affamate e talvolta malate – le condizioni di vita sono tutt’altro che ideali. Ma personalmente ho vissuto in Libano e a Gaza, parlo arabo, il che ha reso le cose un poco più semplici per me; le persone o vogliono parlarti oppure no.
Quali sono le storie che le sono rimaste più impresse?
Ad Atene le storie che mi sono rimaste più impresse sono quelle di iniziative come quella dell’hotel
City Plaza e di altri spazi occupati. È interessante vedere come un certo settore della comunità ha risposto a questa crisi. Alcuni attivisti hanno fatto un lavoro di gran lunga migliore rispetto a quello del governo. In alcuni campi alle persone viene addirittura dato da mangiare cibo scaduto.
Un’altra storia a cui mi viene da pensare perché non se ne è parlato molto, è quella dei rifugiati che hanno seguito la rotta via terra attraverso la Bulgaria. A dicembre ho incontrato alcuni rifugiati afghani a Belgrado, che mi hanno detto di essere stati derubati, picchiati e imprigionati (abusi documentati anche da
Human Rights Watch). Ho scritto solo un pezzo su questa storia, e non ha avuto grosso seguito.
Pensa che i media stiano riuscendo a far comprendere al pubblico cosa sta accadendo?
In generale, non credo che i media abbiano fatto un buon lavoro nel coprire questa storia, ma ci sono stati numerosi singoli giornalisti che hanno fatto e fanno un lavoro incredibile – per esempio, alcuni giornalisti hanno fatto il viaggio con i migranti più di una volta, compresa la traversata in barca.
In generale, non credo sia stata data sufficiente attenzione al perché queste persone stanno fuggendo da alcuni paesi. Ovviamente ci si è concentrati molto sulla Siria, e giustamente, ma meno su Iraq e Afghanistan e ancora di meno su luoghi dove non sono in corso vere e proprie guerra, come l’Eritrea e la Somalia.
Non credo che le persone siano più o meno disperate a seconda del paese da cui fuggono. Sono comunque disposte a salire a bordo di un barcone. Mi ricordo di aver intervistato un ragazzino una volta, che mi ha detto “o muori di fame o a causa di una bomba, ma in ogni caso sei morto”.
Vorrebbe occuparsi di questa vicenda da nuovi punti di vista?
Sto pianificando di tornare in Iraq e parlare con chi è arrivato in Europa, ma poi è tornato indietro. Penso sia una storia interessante anche se triste, fare un viaggio potenzialmente letale solo per poi realizzare che non era quello che ci si era immaginati oppure essere costretti a tornare indietro.