“Hello Syria”, prodotto dall’emittente pubblica danese DR, è il vincitore del premio speciale SIGNIS di quest’anno.
Questo documentario televisivo segue alcuni rifugiati siriani dalla Grecia alla Germania, con un’enfasi particolare sull’importanza della comunicazione con i familiari rimasti in Siria.
Secondo la giuria, è una produzione che “aiuta a vedere i rifugiati come esseri umani esattamente come coloro che guardano il documentario.”
Il produttore della DR Bjarke Ahlstrand ci ha raccontato il lavoro dietro le quinte.
Come è nata questa idea?
L’idea è nata dopo un incontro con Natasha, la presentatrice di “Hello Syria”. Mi ha raccontato di aver incontrato un rifugiato che non aveva caricato il suo cellulare per tre settimane e che quando lo aveva caricato una volta arrivato in Grecia aveva 3,000 chiamate perse e messaggi. Era disperato.
Ho pensato che fosse una storia di grande impatto e che avremmo potuto dare un telefono ai rifugiati appena arrivati per dare loro la possibilità di chiamare le loro famiglie rimaste in Siria. I telefoni sono il loro bene più prezioso e purtroppo molti di loro li perdono lungo il percorso o ne vengono privati dai trafficanti. Se accade, non hanno modo di mantenere i contatti con i propri familiari che spesso vivono in luoghi terribili come Aleppo. Se fossi al posto loro anche io mi sentirei così, e anche tu.
In che modo avete prodotto il documentario?
Una volta che la mia idea è stata accettata, abbiamo messo insieme un piccolo team: Natasha, la presentatrice, due giornalisti e un fotografo. Siamo partiti da Lesbo e poi abbiamo filmato in vari campi dell’isola e lungo la rotta attraverso la Serbia e la Croazia, l’ultima tappa è stato uno dei principali centri di accoglienza in Germania. È a questo punto del viaggio che le persone erano maggiormente disorientate perché ormai hanno passato tanto tempo lontano da casa.
Quali sono state le maggiori difficoltà?
Dal punto di vista di un producer, la sfida principale è stata la differenza di linguaggio. Abbiamo scelto di filmare nella lingua madre dei rifugiati, perché altrimenti parte della prospettiva va persa quando si parla in una lingua che non è la propria. La maggioranza dei rifugiati siriani sono persone con un’istruzione elevata, con standard molto alti per quello che si aspettano dal proprio futuro; io li chiamo rifugiati 2.0. Volevo riuscire ad ottenere questa prospettiva ed è per quello che ho pensato fosse importante farli parlare in arabo. Si sono anche sentiti vicini all’esperienza di Natasha, che non solo parla arabo ma che è stata una rifugiata quando era bambina.
A parte questo, abbiamo anche dovuto fronteggiare un’altra grande difficoltà. Nei nostri documentari o reportage, siamo tutti abituati a raffigurare persone sotto pressione, persone che soffrono. Tuttavia, molte delle persone che abbiamo incontrato lungo il percorso avevano paura di perdere la propria dignità e non volevano mostrarsi vulnerabili. Ovviamente, non è che volessimo che piangessero di fronte alla telecamera, ma volevamo che fossero naturali. Questo è stato decisamente uno degli ostacoli più importanti.
Un’altra discussione la abbiamo avuta in fase di editing, quando abbiamo dovuto decidere se includere o meno una discussione che avevamo filmato, in cui alcuni rifugiati siriani si lamentavano del fatto che altri migranti facessero finta di essere siriani per aver accesso a un percorso facilitato. La nostra intenzione non era mostrarli come insensibili, ma ho pensato che fosse un elemento importante per raffigurarli come naturali e umani, come tutti noi.
Come hanno reagito i rifugiati?
Alcuni di loro non volevano essere filmati, e ovviamente, li abbiamo lasciati chiamare i propri familiari senza riprenderli. Altri avevano paura di ritorsioni sulle loro famiglie in Siria ed è per questo che abbiamo deciso di usare solo i loro nomi e per proteggerli alcuni li abbiamo anche cambiati.
In generale, la maggior parte di loro era riconoscente, sia per la possibilità di telefonare sia per l’opportunità di condividere le loro storie.
Qual è stata la risposta del pubblico in Danimarca?
Prima che il documentario andasse in onda, abbiamo pubblicato alcuni estratti sui social media e quelli hanno ricevuto molta attenzione. Le persone hanno anche avuto modo di capire che avevamo utilizzato un approccio piuttosto particolare. È per questo che anche se è andato in onda su un piccolo canale, molte persone lo sapevano e l’hanno guardato. Lo abbiamo anche proiettato per alcuni rifugiati e loro hanno risposto in maniera molto forte, dal momento che hanno rivisto se stessi nei protagonisti del documentario.
Infine, un commento sull’aver vinto il premio speciale SIGNIS.
È un grande onore e sono felice di vedere che la giuria ha riflettuto sull’approccio umano che abbiamo adottato e lo ha tenuto in considerazione.