“La rivoluzione non sarà trasformata in podcast” di Olivier Minot, è il vincitore per la categoria Radio documentario e reportage al Prix Italia di quest’anno. Il programma è nato dalla combinazione di svariato materiale di archivio, registrato durante marce e proteste nel corso di 20 anni, dal 1995 al 2015.
Secondo la giuria, “l’opera riflette – attraverso un uso fantasioso del materiale d'archivio– sulla contemporaneità dell’azione politica e sul ruolo del giornalista in modo personale e sincero”.
Abbiamo parlato con Minot del significato di questo lavoro.
Da dove è nata l’idea per questo programma?
È venuta da un altro progetto, quello di realizzare una sorta di diario delle proteste, seguendo l’attualità attraverso le dimostrazioni. È andato in onda due volte su France Culture all’interno del programma “Piedi sulla terra” (
1,
2).
Quando ho parlato di questo progetto ad Arte Radio, Silvain Gire, il responsabile editoriale, mi ha suggerito di lavorare a un arrangiamento di materiale d’archivio, raccontato in prima persona, una sorta di sequel di un altro documentario con una struttura simile,
“Là-bas si j'y suis plus”.
In aggiunta, sono ossessionato dagli archivi; conservo tutte le mie registrazioni organizzandole secondo un sistema di classificazione specifico in modo tale da poterle recuperare ogni volta che ne ho bisogno. Utilizzare questa classificazione e gettarmi negli archivi è sempre un piacere.
Quale filo conduttore ha scelto per questo documentario? Quali difficoltà ha incontrato?
Il filo conduttore è l’evoluzione di una persona che scopre il mondo delle manifestazioni quando è un adolescente, con il vero desiderio di cambiare le cose, e realizza come funziona la contestazione, con le sue contraddizioni e le sue disillusioni. Quella persona sono io, ma credo che molte altre persone della mia generazione abbiano avuto un percorso simile.
All’interno del pezzo, ci sono tre diversi livelli di lettura: il mio rapporto con le manifestazioni, cosa sono queste proteste e la cronologia di 20 anni di contestazione in Francia.
La vera sfida è stata non essere ripetitivo, cercare di cambiare stile in ogni sequenza, rispettando i limiti imposti dall’ordine cronologico degli eventi.
Secondo lei, qual è la forza del mezzo radiofonico? Perché la radio è lo strumento migliore per raccontare queste proteste?
La radio è lo strumento che meglio consente di ristabilire una sorta di equilibrio mediatico. Quando il panorama dei media è monopolizzato dai comunicatori e dai professionisti della parola, la voce dal basso, quella che viene dalla strada, si sente di meno. Oppure, quando riesce a farsi sentire, è distorta, caricaturale. Grazie al lavoro di produzione, al montaggio e ai tempi precisi, è possibile dare valore a una singola parola dal basso e renderla chiara anche se è complessa.
Nella produzione radiofonica, la parola di un operaio può avere lo stesso valore di quella del suo capo, quella di un disoccupato può ottenere più forza di quella di un ministro.
Il montaggio audio è più immediato di quello per immagini e il suono è più forte della parola scritta.
Secondo lei, qual è il ruolo del giornalista, tenendo presente i mutamenti subiti dalla professione negli ultimi anni?
Non penso che il ruolo del giornalismo sia diventato qualcosa di nuovo. Ho paura di rispondere con cliché, citando “infilare la penna nella ferita” di Albert Londres, ma questa frase è in effetti vera anche oggi.
Gli strumenti evolvono, alcuni danno l’impressione di inventare nuovi modi di narrazione, ma la questione resta sempre la stessa: bisogna sapere di cosa si sta parlando. Molti giornalisti sono intrinsecamente vicini all’élite, al potere, alle alte sfere, e tuttavia fanno finta di essere oggettivi.
Io non nascondo la mia opinione o la mia posizione quando racconto quello che vedo. Credo che gli ascoltatori siano intelligenti e in grado di formarsi la propria opinione.
Infine, un suo commento alla vittoria al Prix Italia di quest’anno.
In generale non mi piacciono molto concorsi e premi. Si parla di “documentario dell’anno”, ma è tutto molto soggettivo e non tutti ascoltano tutti i tipi di documentari.
Mi hanno informato della vittoria mentre ero a una festa a Triéve per il lancio di una radio libera rurale (Radio Dragon), una situazione in cui l’attenzione non era sui premi, ma sul dare una voce alle persone.
Detto questo, sono orgoglioso e felice del riconoscimento. Vorrei ringraziare tutte le persone che hanno sostenuto questo programma al premio e il team di Arte Radio che ha lavorato alla sua produzione.