“Un viaggio visivo verso Lesbo, la porta d’Europa”, è così che il Washington Post descrive “
The Waypoint”. Questo webdoc, pensato per essere visto sullo schermo del computer con le cuffie nelle orecchie, permette agli utenti di provare a sperimentare quello che i migranti vedono e sentono mentre attraversano il mare su una barca e arrivano a Lesbo.
Basato su una narrazione interattiva, “The Waypoint” guida il lettore/spettatore lungo il percorso del Mediterraneo, coniugando precisione giornalistica e coinvolgimento emotivo.
Qual è il ragionamento dietro questo tipo di lavoro e come può aiutare a raccontare una storia ampia e che cambia costantemente come la crisi dei migranti? Lo abbiamo chiesto al giornalista del Washington Post Samuel Granados.
Perché avete scelto questo mezzo per raccontare questa storia?
Mentre raccoglievamo materiale, siamo rimasti sull’isola di Lesbo per due settimane. In quel periodo abbiamo trascorso molte ore con i rifugiati, girando una gran quantità di immagini. Video di luoghi ed interviste, gallerie fotografiche focalizzati su alcuni elementi specifici che avevano attirato la nostra attenzione, immagini scattate dai rifugiati con i loro telefoni, mappe, ecc.. Una volta tornati in redazione, abbiamo ideato una soluzione che ci permettesse di strutturare questi contenuti, mantenendo il dettaglio, la freschezza e la forza delle immagini, allo stesso tempo mettendo in piedi una struttura narrativa solida che articolasse tutto il contenuto. In questo modo, abbiamo deciso che la soluzione migliore sarebbe stata creare un percorso narrativo centrale, dando però all’utente la possibilità di visitare anche altre diramazioni e contenuti estesi.
In che cosa “The Waypoint” si distingue dalle sue esperienze di lavoro precedenti?
Questo progetto è stato concepito nel cuore del nostro reparto grafico, dove tradizionalmente si lavora di più con strumenti come la visualizzazione dei dati, illustrazioni, mappe, piuttosto che con il produrre notizie o con lo storytelling. Con “The Waypoint”, come con molti altri progetti, stiamo spingendo la nostra squadra in una direzione nuova, cercando di raccogliere e raccontare storie molto più da vicino.
Come si fa a costruire un lavoro così complesso ed interattivo?
Ci sono volute molte settimane per trovare la soluzione più adeguata al tipo di materiale che avevamo raccolto. Una volta definita la storia che volevamo raccontare e le immagini che l’avrebbero accompagnata, è stato molto più facile per noi pensare al tipo di sviluppo tecnologico di cui avevamo bisogno. In ogni caso, abbiamo provato diversi percorsi prima di dedicarci all’ultima versione. Una team multidisciplinare che includeva giornalisti con un forte background in ingegneria e in design è stata fondamentale per strutturare la narrazione ed inquadrare le immagini e i video che avevamo raccolto.
Quale pensa che sarà il futuro dei cosiddetti webdoc?
La tecnologia ci permette di creare esperienze più sofisticate ed adeguate a ciascun progetto. Ci sono anche esperienze di immersione, nelle quali l’utente può entrare in contatto con i personaggi e vivere un’esperienza più soggettiva, diretta ed emotiva. Ultimamente si sperimenta con la realtà virtuale, i video a 360 gradi ecc, ma in alcuni casi questo tipo di sviluppo ancora implica una barriera interrompe il flusso narrativo. Personalmente mi immagino il futuro come un posto in cui la tecnologia gioca un ruolo speciale, ma è del tutto trasparente rispetto all’esperienza dell’utente, per cui la storia prevale.
Su cosa si è concentrato maggiormente nel raccontare momenti della recente crisi dei rifugiati?
Questa crisi ha attraversato varie fasi e abbiamo cercato concentrarci su vari elementi tenendo presente la fluidità della situazione. Nelle fasi precedenti, abbiamo utilizzato un approccio più focalizzato sull’analisi dei dati cercando di comprendere la portata di questa crisi. Una volta che ci siamo resi conto di quanto fosse speciale questo momento, abbiamo cominciato a considerare la narrazione visiva come il percorso migliore per chiedere, capire e comunicare ai nostri lettori perché ora, perché là, e quel senso di urgenza che può essere compreso solo ascoltando le testimonianze di chi certe cose le vive.
Qual è il rischio maggiore quando ci si occupa di una storia simile?
Il rischio principale sta nel perdere la coscienza di quanto la situazione sia difficile per queste famiglie in questo specifico momento. In un contesto in cui milioni di rifugiati di guerra fuggono dalle loro case e vediamo queste scene quotidianamente in televisione, è troppo facile pensare a loro come una massa, quando la realtà è che sono individui con le loro perdite personali, esigenze specifiche e paure.
C’è decisamente una situazione di emergenza e il bisogno che i media raccolgano e comunicano le difficili condizioni in cui si trovano queste famiglie, anche in Europa.
Pensa che i media riescano a fare comprendere al pubblico quello che sta accadendo?
Penso che i media se la stiano cavando bene nel coprire i posti più accessibili, in particolare a documentare quale sia la situazione, ma vorrei che ci fossero più sforzi nel fare un passo indietro e guardare alle cause e a quali sono le ragioni che rendono questo momento così critico. C’è anche un’analisi più approfondita da fare sul ruolo che dovrebbero giocare i paesi più ricchi in questa crisi.