In che modo i dati ci aiutano a capire il fenomeno della migrazione


Il data journalism ha visto crescere la sua importanza negli ultimi anni, mentre i dati sono stati riconosciuti come validi strumenti per portare alla luce storie, contestualizzare notizie ed aumentare la loro credibilità.

Quando si parla di migrazione, i dati possono giocare un ruolo fondamentale. Il Prix Italia ha esplorato questa tematica con Jacopo Ottaviani – giornalista freelance che collabora con il Guardian, Internazionale e altre testate e ha preso parte al progetto Migrant Files – e Andrea Menapace, direttore di Open Migration, un progetto lanciato dalla Coalizione Italiana Libertà e Diritti Civili nel 2014.

Alcuni sostengono che un uso eccessivo dei dati rischi di de-umanizzare le storie. Qual è la sua opinione?

Ottaviani: I dati rischiano di de-umanizzare solo quando vengono utilizzati come qualcosa di separato e distinto dalla storia stessa; è quello che accade quando si legge un comunicato stampa di un istituto di statistica. Il giornalista ha il compito di raccontare storie e renderle umane. Coloro che praticano il giornalismo dei dati correttamente lo sanno bene.

Il giornalismo tradizionale può accogliere i dati e presentarli in vari modi, per esempio combinandoli con testo, foto o video.

Menapace: I dati sono la materia prima con cui ci confrontiamo noi di Open Migration. Partiamo dai dati perché aiutano a concentrare il discorso su aspetti concreti.
Tuttavia, i dati possono anche essere manipolati – per esempio inserendone troppi o contestualizzandoli in maniera errata. Ogni volta che un giornalista maneggia dei dati dovrebbe esserci un’etichetta con scritto “maneggiare con cura”.

Ci sforziamo sempre di contestualizzare e di far emergere le storie umane, ma senza dati non sarebbe possibile sfatare i miti e i pregiudizi.

Qual è il valore aggiunto dei dati quando si tratta di raccontare il fenomeno della migrazione?

Ottaviani: L’assenza di dati quando si parla di migrazione può portare al sensazionalismo. È una questione di etica; facendo un uso scorretto dei dati si ottengono disinformazione e propaganda, dal momento che i numeri possono facilmente essere manipolati. È soprattutto una questione di credibilità e solidità delle notizie che riportiamo.

Menapace: Lavorare con i dati quando si parla di migrazione significa mostrare rispetto nei confronti della complessità di questo fenomeno.

In aggiunta, grazie a un solido giornalismo dei dati possiamo costruire un tipo di storytelling che sia in grado di cambiare le politiche esistenti, superando la logica dell’emergenza che ha prevalso finora. Possiamo contestualizzare la migrazione, in modo tale da contrastare paure irrazionali e in ultima istanza salvare vite umane.

Infine, anche il modo in cui si presentano i dati ai lettori è rilevante. Una visualizzazione efficace rende più chiari i dati e aumenta la trasparenza della storia. Le grafiche di Open Migration possono anche essere uno strumento per altri giornalisti, che magari non sono esperti di migrazione ma devono scrivere o parlare di questo argomento.

Cosa suggerirebbe a una redazione che voglia implementare l’uso dei dati nel proprio flusso di lavoro?

Ottaviani: In Italia abbiamo una situazione anomala, dal momento che siamo più indietro anche rispetto ad altri paesi dell’Europa meridionale. In Spagna, per esempio, molte redazioni hanno già iniziato ad includere al proprio interno team che si occupano di dati. Normalmente sono formati da tre persone: un data journalist, un designer e un programmatore.

Generalmente questi esperimenti hanno un buon effetto e attraggono il pubblico; quindi, il team in genere si espande e inizia ad interagire in modo fruttuoso con il resto della redazione.

In Italia, le redazioni dovrebbero provare ad investire in piccoli team e poi vedere quello che succede.

Menapace: Le redazioni dovrebbero aprirsi al giornalismo dei dati, magari anche cercando supporto esterno se non dispongono di sufficienti competenze al loro interno. È più una questione di approccio culturale; per esempio, i contenuti di Open Migration sono tutti in creative commons, il che significa che tutti possono utilizzarli. Questo tipo di approccio è necessario in termini di innovazione del giornalismo.

In aggiunta, gran parte del pubblico cosiddetto “Millennial” è interessata a questo tipo di informazione, accessibile in digitale e interattiva. È nata nuova generazione di giornalisti e le redazioni dovrebbero investire su questi talenti.

Cosa possiamo aspettarci per il futuro?

Ottaviani: C’è stato un deciso aumento della quantità di dati a disposizione e ci si può aspettare ancora di più in futuro.  Quindi, ci sarà un bisogno crescente di persone che siano in grado di interpretare questi dati.

Per lavorare correttamente con i dati, è necessaria una prospettiva scientifica, insieme alla capacità divulgativa di argomenti complessi e una certa familiarità con l’informatica e la statistica. Queste discipline dovrebbero essere integrate nella formazione giornalistica.

Quanto è rilevante la collaborazione nell’ambito del data journalism?

Ottaviani: Migrant Files è nato proprio dalla collaborazione di un tema di data journalists provenienti da tutta Europa, a partire dalla consapevolezza che non c’erano dati globali ed affidabili sulla migrazione, sia per quanto riguardava le morti sia circa i soldi investiti dagli stati nella sicurezza dei confini e quelli spesi dai migranti per i loro viaggi.
Progetti di giornalismo collaborativo transnazionale saranno sempre più rilevanti. In un mondo che è sempre più globalizzato c’è un bisogno crescente di globalizzare il dibattito pubblico.