Informare sulla crisi dei rifugiati significa raccontare una delle storie più importanti dei nostri tempi


I media di servizio pubblico hanno il dovere di coprire la cosiddetta crisi dei rifugiati, una delle storie più importanti del nostri tempi. Hanno anche il dovere di continuare a prestare attenzione a questa vicenda, informando il pubblico sulle ragioni per cui queste persone fuggono dai propri paesi, ma anche sulle risposte date dai governi e dalle istituzioni europee.

Ne abbiamo parlato con Lyse Doucet, Chief International Correspondent della BBC.

Può spiegarci che tipo di strategia e prospettiva ha mantenuto finora la BBC nella copertura della crisi dei rifugiati in diverse parti d’Europa?

In generale, l’approccio editoriale della BBC a storie di grande portata consiste nel coprirle da più punti di vista possibile, per garantirne una comprensione più profonda e completa.

Per quanto riguarda la crisi dei rifugiati, abbiamo avuto corrispondenti sul campo ad ogni passaggio del viaggio intrapreso da rifugiati e migranti – dalla Siria, ai paesi confinanti, alla Turchia, all’Europa.

Abbiamo costantemente ruotato i corrispondenti per molti mesi e spesso abbiamo mandato gli stessi giornalisti più e più volte per seguire il percorso di singole famiglie, oltre che la questione in senso ampio. Abbiamo cercato di coprire svariati aspetti della crisi: umanitario, politico, della sicurezza e molti altri.

Questa è una delle storie più importanti dei nostri tempi, una storia d’Europa ma che va anche oltre; una storia della Siria e dei suoi vicini e di molti altri paesi segnati da conflitti e turbolenze interne, dove milioni di persone credono che la loro unica scelta per avere un futuro migliore sia partire. È una delle più importanti sfide politiche ed umanitarie dei nostri tempi, una grave crisi di rifugiati, che è anche una crisi europea.

La BBC, in quanto emittente pubblica e globale, sapeva di avere la responsabilità di raccontarla, e di continuare a seguirla.

Quale pensa siano le cose da fare e da non fare quando si copre una storia del genere? Cosa occorre tenere a mente quando si inviano giornalisti sul campo?

Non sono direttamente coinvolta nella distribuzione delle troupe. Però, in generale, credo che sia meglio inviare sul campo corrispondenti esperti, che conoscono i paesi e le popolazioni in questione, incluse le lingue.

Sarebbe anche meglio avere un mix di giornalisti con background differenti, che possano fare domande diverse e contribuire con tipi diversi di storytelling.

Per quanto riguarda la sua esperienza sul campo, su cosa si è maggiormente concentrata?

Ho lavorato come corrispondente dalla Siria per molti anni. Raccontare la crisi dei rifugiati è stato parte del mio lavoro su questa storia.

Come molti altri giornalisti, ho cercato di dare nomi, volti e storie a questo grande esodo di persone in modo tale che diventasse una storia di individui, famiglie, persone. Chi stava partendo, e perché, e da quali aree della Siria?

Ho incontrato persone che fuggivano dagli scontri in aree come Aleppo oppur le campagne intorno a Damasco, ma anche Siriani facoltosi che lasciavano quartieri relativamente sicuri a Damasco o lungo la costa mediterranea. Quest’ultima era sostanzialmente la fuga della classe media, dei professionisti.

Mi sono anche sforzata di concentrarmi su altre nazionalità, soprattutto sugli afghani e sugli iracheni.

Come altri, ho cercato di parlare con il maggior numero di persone possibile quanto mi trovavo lungo il percorso che facevano verso l’Europa o in Turchia. Per esempio, ho anche incontrato molte persone provenienti da paesi come il Pakistan oppure dalle nazioni dell’Africa Occidentale, che fuggivano la povertà in cerca di una vita migliore, ma non stavano fuggendo dallo stesso tipo di guerra e persecuzione da cui fuggivano i siriani.

La crisi dei rifugiati adesso è la questione politica più delicata in Europa. È anche una questione di sicurezza, dal momento che alcuni credono che un numero molto ridotto di persone in fuga verso l’Europa comporti un rischio di violenza.

Questo significa che il pubblico deve essere a conoscenza della crisi dei rifugiati in modo tale da non guardare ogni persona come una minaccia, e in modo tale che ci sia una comprensione delle difficoltà incontrate dai rifugiati. Il linguaggio che utilizziamo gioca un ruolo cruciale nel dare forma alla percezione di questa crisi.

Ho passato del tempo anche in Libano e in Giordania. Una grande percentuale di sfollati siriani vive ancora nella regione. Questo impone una forte pressione sulle risorse già limitate dei paesi confinanti. È importante sottolineare questo aspetto della crisi, perché c’è un bisogno sempre più urgente di dividere il peso, che ha origine da guerre il cui impatto non è più limitato alla regione.

Ci sono alcune storie di cui si ricorda in particolare?

Ci sono molte storie che non è possibile dimenticare, soprattutto quelle dei giovani, della generazione che sta perdendo la possibilità di istruirsi, che si sente come se il futuro le fosse stato rubato.

Abbiamo raccontato la storia di quattro ragazzi di Aleppo che viaggiavano insieme e che durante il percorso hanno perso il più grande di loro, l’organizzatore del viaggio. Un giorno nuotò attraverso un fiume, senza sapere che pochi metri più avanti c’era un ponte. Abbiamo incontrato i tre ragazzini disperati mentre cercavano da giorni il suo corpo nel fiume. Non se ne sono andati fino a che non l’hanno trovato.

Non dimenticherò nemmeno i giovani adolescenti afghani che abbiamo incontrato a Calais, mentre viaggiavano da soli e cercavano ogni notte di raggiungere il Regno Unito in ogni modo possibile. Lo si vede nel loro sguardo assente. Sono esausti e traumatizzati, ma non si arrenderanno.

Quale ruolo pensa che i media di servizio pubblico debbano giocare una volta che si trovano davanti il compito di raccontare al pubblico cosa sta accadendo in Iraq, Siria, il Mediterraneo e oltre?

Raccontare questa storia nel modo più completo e accurato possibile è un nostro dovere. Dobbiamo coprire la crisi dei rifugiati e questo significa anche informare sulle ragioni per cui queste persone fuggono da guerre in posti come la Siria, l’Afghanistan e l’Iraq, ma anche la repressione in Eritrea. Tuttavia, dobbiamo anche concentrarci sulle risposte dei governi e delle società europei.

Il nostro lavoro gioca un ruolo fondamentale nell’influenzare e formare la narrazione pubblica su un tema così sensibile a livello politico. Riportare in modo troppo emotivo o negativo aiuta ad alimentare paura e ostilità.

Guardando in generale al ruolo del corrispondente, è cambiato rispetto al passato? E i social media hanno cambiato il modo di fare questo lavoro?

Dico sempre che nel giornalismo, tutto è cambiato e niente è cambiato.

I social media, insieme alle altre evoluzioni tecnologiche, hanno completamente cambiato il nostro panorama. Ci sono più fonti di informazioni e molti modi diversi di informare velocemente da molti più luoghi.

In quanto giornalisti, tutti dobbiamo fronteggiare una crescente competizione per l’attenzione del pubblico in un mondo mediatico molto frammentato. Ma gli elementi fondamentali sono sempre gli stessi: il “chi, cosa, quando, dove, perché” del giornalismo; il bisogno di verificare i fatti e contestualizzarli.

A fronte di tutti i cambiamenti, credo che la storia e chi la racconta abbiano ancora importanza. E possiamo essere degli informatori responsabili se raccontiamo le storie importanti e lo facciamo bene.