Le storie trascurate delle donne rifugiate


Foto: UNHCR/Achilleas Zavallis
 
Secondo la Women’s Refugee Commission, una ONG che si concentra sulle necessità delle donne e delle ragazze che si trovano in situazioni di crisi umanitaria, la maggior parte delle donne rifugiate ha subito violenze sessuali, estorsione, sfruttamento e altre violazioni di diritti nel corso del viaggio.

Le donne che fuggono dai propri paesi e si muovono lungo la rotta percorsa dai migranti possono essere donne sole, donne a capo di nuclei familiari, donne incinte, ragazze adolescenti, minori non accompagnate o donne con disabilità.

“Pensiamo che sia estremamente importante raccontare le storie di queste donne sfollate, che spesso vengono lasciate in secondo piano”, dice Katharina Obser, una dei ricercatori di WRC che ha condotto delle ricerche sul campo in Europa.

A partire dalla sua ultima analisi del maggio e giugno 2016, WRC ha in effetti denunciato “preoccupanti carenze di protezione e servizi specifici per donne e ragazze rifugiate”. A seguito della firma dell’accordo tra Unione Europea e Turchia nel marzo 2016, ora si stima che più di 50,000 rifugiati si trovino bloccati in Grecia.

“Sappiamo che una elevata percentuale delle persone arrivate in Grecia, con l’obiettivo di riunirsi con i propri familiari in altri paesi europei, sono donne e bambini,” – sostiene Obser – “che ora sono intrappolati in situazioni decisamente poco sicure”. Molte di queste donne e ragazze sono già state vittime di violenze di genere, ma in siti informali e centri di detenzione spesso non hanno a disposizioni spazi sicuri, o la possibilità di accedere a supporto medico e psicologico.

Secondo Ugochi Daniels, capo del dipartimento per i contesti umanitari e sensibili del Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione (UNFPA), “almeno 1 su 5 donne rifugiate o sfollate interne in paesi in cui sono in corso conflitti sono vittime di violenza sessuale”. In aggiunta, le donne incinte potrebbero avere difficoltà ad accedere a servizi medici e a una nutrizione adeguata. “Il 60 per cento delle morti materne avvengono in contesti fragili di crisi umanitaria”, spiega.

Sul campo, l’UNFPA fornisce, tra le varie attività, servizi di salute riproduttiva e di risposta a violenze di genere e lavora con governi e organizzazioni partner, sia locali sia internazionali, per assicurare nascite in condizioni sicure, cure prenatali e post parto e servizi per le sopravvissute a violenze di genere, tra cui terapie psicosociali e gestione clinica dei casi di stupro. Costruiscono anche spazi sicuri per donne e giovani all’interno dei campi.

Da uno studio congiunto di UNFPA, UNHCR e WRC in Grecia e nell’ex repubblica iugoslava di Macedonia, è emerso che “molte donne e ragazze rifugiate o migranti sono già state esposte a varie forme di violenza di genere, o nel proprio paese di origine, o nel corso del viaggio e anche in Europa”. Tuttavia, secondo Daniels, spesso le dirette interessate non denunciano i crimini e non cercano cure mediche perché temono che farlo possa ritardare ulteriormente il raggiungimento del loro paese di destinazione.
Lo staff dell’UNFPA ha raccolto numerose storie sul campo. “Il nostro staff ascolta spesso storie terribili di giovani donne che viaggiano da sole perché i loro familiari sono morti o dispersi, delle loro paure e della violenza a cui sono soggette, costrette ad avere rapporti sessuali per salire a bordo di una barca o per ottenere un passaporto falso, e dovendo dormire all’aperto, spesso senza privacy, riparo o assistenza”, spiega Daniels.

In particolare, fa riferimento alla storia di una ragazza siriana di 14 anni che vive nel campo di Domiz, nel Kurdistan iracheno. È fuggita dall’ISIS, da un matrimonio, e poi violenza domestica, un tentativo di suicidio, il divorzio e traumi quotidiani. Ha vissuto tutte queste esperienze ancora prima del suo quindicesimo compleanno.
“Ci sono così tante storie che rimangono con te”, dice Obser, che ha parlato con numerose donne e ragazze in Grecia, Macedonia e Turchia. “Da tutte le loro storie è chiaro che le persone hanno scelto di partire solo quando hanno capito di non avere nessun’altra scelta”, aggiunge. Ora si trovano spesso a vivere in situazioni disperate, senza informazioni sulle tappe successive.

“C’era una donna che aveva lasciato la Siria dopo che suo figlio era stato ucciso,” – racconta Obser – “era di nuovo incinta ed era così preoccupata per la sua gravidanza. Era una sofferenza vederla così disperata dopo aver già subito così tanto”.

Tuttavia, lo staff sul campo ha modo di ascoltare anche storie di donne, ragazze e giovani che sono speranzosi e lavorano per rincollare i pezzi delle loro vite. “È davvero incredibile incontrare rifugiati che hanno conosciuto conflitti e traumi, che stanno ricostruendo la propria autostima, facendo amici, acquisendo nuove capacità, e guardano al futuro”, dice Daniels.

Per quanto riguarda il ruolo giocato dai media, secondo Daniels “le donne sono spesso trascurate, mentre è importante che le loro voci vengano ascoltate, allo stesso tempo assicurando loro protezione e sicurezza”. Come dichiarato dal direttore esecutivo dell’UNFPA, “i media mondiali aprono una finestra su quello che accade nel mondo. Il modo in cui presentano questioni fondamentali influenza l’opinione della gente”.

Per vedere come alcuni giornalisti hanno affrontato il tema della migrazione e delle donne, il Prix Italia ha parlato con la giornalista de la Repubblica Francesca Caferri, il cui lavoro si è concentrato su entrambe le tematiche.

Secondo lei, in che modo i giornalisti dovrebbero approcciarsi a queste storie di migrazione?

Ci sono molti pregiudizi intorno al tema della migrazione, e credo che i giornalisti dovrebbero puntare dritti al cuore della questione, dando ai protagonisti la possibilità di raccontare le proprie storie. In questo senso, i social media possono essere molto utili, perché ci danno la possibilità di seguire persone che altrimenti sarebbe difficile raggiungere, come nel caso della storia del pianista di Yarmouk.

E per quanto riguarda la necessità di parlare di integrazione?

È qualcosa a cui i media prestano minore attenzione, il che è un grosso limite; non parliamo abbastanza di ciò che accade una volta che queste persone sono arrivate. Di nuovo, i social media possono essere uno strumento importante, visto che migranti e rifugiati condividono le loro testimonianze sia del viaggio sia di quello che trovano nei pasi che li ospitano.

Dobbiamo lasciar parlare queste persone e spiegare perché sono arrivate, quali difficoltà hanno incontrato, cosa hanno travato una volta arrivati qui.

Quanto è importante raccontare le storie delle donne e ragazze rifugiate?

È molto importante parlare della questione delle donne rifugiate, prima di tutto perché rappresentano il 50 per cento delle persone arrivate in Europa. Molte di loro viaggiano con i bambini; quasi tutte le ragazze e donne che sono passate per la Libia sono state violentate.

Raccontare le loro storie può creare una grande empatia, non solo in altre donne.

Come si è relazionata con loro e che storie hanno condiviso con lei?

È fondamentale guardare alle ragioni dietro i loro viaggi e poi occorre essere attente e flessibili, rispettare i loro silenzi e capire ciò che non viene detto.

Molto spesso le loro storie sono incomplete, dal momento che non sempre sono disposte a condividere i dettagli. Ma sono sempre racconti drammatici e carichi di forza.

Qual è la sua opinione sul modo in cui i media hanno coperto queste storie finora?

Sono stati realizzati dei reportage eccellenti sulle donne; alcuni colleghi hanno svolto un lavoro prezioso, spiegando da cosa fuggono le persone, cosa sono i barili bomba, o dando voice all’uomo che ha visto suo fratello venir ucciso davanti ai suoi occhi in Afghanistan.  

La pietà non è abbastanza, senza contestualizzazione si corre il rischio di alimentare i pregiudizi.

Queste sono crisi che arrivano in casa. Se prima si leggeva di Siria, ma rimaneva qualcosa di lontano, ora la Siria è il centro di accoglienza in via XX settembre a Genova.
Spiegare perché la crisi ti è arrivata sotto casa è fondamentale.