L’informazione non è una prerogativa esclusiva del pubblico occidentale che vuole essere a conoscenza di ciò che accade nel mondo, dovrebbe anche essere diretta ai rifugiati e ai migranti. Con tutto ciò che devono affrontare – trafficanti, attraversate del mare, leggi interne e trattati internazionali – informazioni affidabili si rivelano vitali quanto il cibo e il riparo.
L’approccio di
Internews alla questione si basa sul concetto di informazione come forma di assistenza.
News That Moves è un sito web che fornisce informazioni aggiornate in più lingue sulla sicurezza, le rotte di viaggio, assistenza umanitaria disponibile, status dei confini e anche condizioni delle traversate in mare.
Un’altra componente dell’iniziativa consiste nel fornire piattaforme dove le voci delle comunità possano essere ascoltate. Per questo motivo Internews ha implementato
Rumour Tracker per il Mediterraneo, in collaborazione con Traduttori senza frontiere e Action Aid. Si tratta di un bollettino settimanale che riporta le ultime informazioni false in circolazione raccolte dallo staff e dagli operatori umanitari che hanno parlato con rifugiati e migranti sul campo.
Prix Italia ha intervistato Stijn Aelbers, consigliere umanitario per Internews.
Quanto è rilevante una buona comunicazione in situazioni come la cosiddetta “crisi migratoria”?
Questa è una crisi umanitaria e in quanto agenzia umanitaria la nostra attenzione si concentra su questo aspetto. Per noi i media sono un mezzo non il fine; vogliamo raggiungere al meglio i rifugiati per consentire loro di prendere delle decisioni informate.
L’informazione acquisisce un grande valore in situazioni di crisi, a maggior ragione perché i normali canali di comunicazione posso essere sotto pressione o non affidabili. Quindi la nostra attenzione va sempre alle informazioni pratiche, a quelle notizie che possono utilizzare.
Come è nato News That Moves?
Solitamente impieghiamo membri della cosiddetta popolazione effettiva, dal momento che preferiamo lavorare con le persone direttamente coinvolte. Ma nel caso della situazione in Europa, queste persone erano lontane tra loro, si stavano spostando, non volevano essere coinvolti perché cercavano di non avere troppa visibilità.
In un primo momento, il nostro obiettivo era quello di raccogliere e fornire informazioni lungo l’intera rotta, inclusi i paesi di partenza e di arrivo. Ma i donatori hanno avuto la sensazione che questo in qualche modo potesse incoraggiare le persone a intraprendere il viaggio, quindi abbiamo dovuto limitare il nostro lavoro ai paesi europei di transito.
Eravamo consapevoli di non poter utilizzare solo i social media come facciamo solitamente, poiché molti rifugiati non li utilizzavano. Per questo motivo abbiamo aggiunto un sito web tradotto in diverse lingue (inglese, farsi, arabo, greco) in cui fornivamo informazioni relative a tutti i paesi tra la Grecia e quello di arrivo. Ci siamo affidati a un piccolo team e a fixer, solitamente giornalisti locali, lungo i Balcani.
Abbiamo anche deciso di avere una squadra a Lesbo, dal momento che molte persone stavano passando per l’isola greca. Volevamo informare chi era appena arrivato in Europa su quali fossero i prossimi passi.
E per quanto riguarda il Rumour Tracker per il Mediterraneo?
Molti rifugiati e migranti arrivano con telefoni e mappe ma i trafficanti lungo il percorso spesso forniscono informazioni false per il proprio tornaconto. In aggiunta solo perché queste persone arrivano con degli smartphones non significa che allora abbiano a disposizione tutte le informazioni di cui hanno bisogno. Sono concentrati sul paese di arrivo e non sul percorso da fare per raggiungerlo. Ascoltano le persone intorno a loro, le seguono, ma spesso ignorano il fatto che alcune delle informazioni potrebbero essere false.
Internews aveva già sperimentato dei sistemi di Rumour Tracking nelle Filippine e a Gaza e poi con l’epidemia di ebola in Liberia e dopo il terremoto in Nepal. Tuttavia, con i migranti che intraprendevano il percorso attraverso l’Europa si trattava di una sfida più impegnativa, dal momento che la popolazione effettiva era per l’appunto in movimento.
Come funziona il processo di raccolta delle informazioni?
Abbiamo impiegato degli ex migranti come
refugees liaison officers, e hanno iniziato a parlare con migranti e rifugiati, cercando di dar loro le informazioni rilevanti. Hanno anche prestato ascolto a tutte le preoccupazioni e alle varie congetture, le hanno documentate e da lì hanno preso forma i
rumours, le dicerie.
Per esempio nei primi tempi era stata messa in circolo un’orribile diceria: avevano detto alle persone di bucare i loro gommoni perché solo se in estrema difficoltà sarebbero state soccorse.
Il compito quindi era cercare di capire perché le persone credevano che queste informazioni potessero essere vere, per poi spiegare loro gli aspetti poco chiari, fornendo o una fonte o il nome di un’organizzazione che potesse fornire loro ulteriori informazioni in merito.
Se si vogliono sfatare queste dicerie occorre avere delle fonti affidabili. Per noi la fonte principale è stata ed è la rete in prima linea, soprattutto i volontari.
Poi occorre diffondere le informazioni pratiche rilevanti il più possibile su internet, social media ma anche offline.
Ora che molti dei confini sono stati chiusi, come vi siete adattati?
Ora che le persone sono bloccate, la situazione è più complessa, ma da un certo punto di vista riusciamo anche ad ottenere risultati migliori.
Da un lato le informazioni sulle fasi successive del viaggio sono molto incerte e volatili. In aggiunta le ricollocazioni procedono molto lentamente, tanto che molti sono convinti che non siano nemmeno reali. Ovviamente questo rappresenta un problema per noi; i rifugiati e i migranti sono molto frustrati ed è difficile raccogliere informazioni.
Dall’altro lato, abbiamo più tempo a disposizione per lavorare con loro. Abbiamo adattato il nostro programma e adesso ci stiamo concentrando di più sul produrre materiale con i rifugiati, che psicologicamente devono anche accettare che potrebbe passare del tempo prima che riescano nuovamente a spostarsi.
Qual è la sua opinione sul lavoro fatto dai media finora nel coprire la cosiddetta “crisi migratoria”?
Sinceramente rispetto ciò che stanno facendo i mezzi di informazione, un lavoro che ovviamente è diverso da ciò che facciamo noi. Se si è nel bel mezzo di una tempesta, non si è necessariamente interessati a leggere storie sui sopravvissuti o sul perché ci sono più tempeste. Se si è nel mezzo di una tempesta, ciò che si vuole sapere è dove trovare riparo e cibo oppure cosa bisognerebbe fare appena passata. Tutto questo in sé per sé non è molto interessante per un giornalista, ma i media hanno un ruolo importante da giocare per quanto riguarda la responsabilizzazione – l’Europa si sta veramente impegnando nel lanciare i progetti, come per esempio le ricollocazioni? I servizi funzionano? Questo è un ruolo che penso i media possano assolutamente giocare.