Parlare di persone, non solo di numeri


Lucia Goracci a Homs, aprile 2016

Lo slogan di questa edizione del Prix Italia* è “Historytelling, Now”. I giornalisti di tutto il mondo raccontato le storie di un esodo di massa di migranti, in fuga da conflitti e povertà verso l’Europa, in tempo reale.

Abbiamo parlato con Lucia Goracci, inviata speciale di RAI News, della sua esperienza in Siria, per concentrarci sul conflitto che continua ad alimentare un sostenuto flusso di migranti verso l’Europa.

Che peculiarità ha la Siria rispetto ad altri luoghi di conflitto in cui ha lavorato?

Uso una frase che mi ha colpito di David Ignatius, “come in un libro di Agatha Christie, tutti gli attori hanno dato almeno una pugnalata”. Il problema della Siria è che ci sono tanti conflitti sovrapposti, tante agende. Combattere lo Stato Islamico è forse se va bene il secondo obbiettivo, non è il primo obbiettivo di nessuno.

Dal punto di vista di giornalista la novità di questo conflitto è l’inaccessibilità di alcune aree per noi giornalisti. Oggi in Siria si va con il visto di Damasco, con i curdi nelle parti che loro controllano e si vede poco o niente. Con l’inizio dell’industria dei rapimenti nella seconda metà del 2012, è estremamente rischioso.

Uno si vede costretto a raccontare Aleppo da alcune parti di Aleppo senza potersi spingere in altre parti. Idlib è in mano a una coalizione che comprende Jabat al Nusra, costola siriana di al Qaeda, quindi è off limits. E tutto quello che succede, mi viene in mente il bombardamento dell’ospedale di medici senza frontiere a Maarat al-Nouman, per noi è molto problematico poterlo vedere e toccare con mano, per cui dobbiamo accontentarci dei racconti indiretti che non rispondono alle esigenze di una completezza dell’informazione.

Date queste particolarità, qual è l’aspetto più complicato per un giornalista da sviscerare e da spiegare?

Sulla Siria il problema è trovare i carnefici e le vittime. Le vittime sono il popolo siriano, mi sembra evidente, ma resta il fatto che non ci sono angeli in Siria, ecco. La difficoltà sta nel raccontare un conflitto con una molteplicità di attori e fronti di guerra: esultiamo per Palmira liberata perché la teneva l’ISIS ma ci dobbiamo anche rammaricare del fatto che andandoci con i soldati di Assad non potremo mai vedere la prigione di Palmira, dove Assad torturava prima dell’arrivo dell’ISIS. C’è una complessità che la rende particolarmente insidiosa anche per il reporter.

C’è un conflitto che dura da più di 5 anni e ci sono persone che hanno sperato che finisse. “Noi siamo siriani, abbiamo aspettato tanto nei campi profughi libanesi, turchi e adesso non abbiamo più speranze”, mi veniva detto l’estate scorsa nei Balcani. Chi mette la propria  vita e quella dei propri figli a pelo d’acqua davvero non ne ha più speranze.

Dal punto di vista di chi è stato sul campo, cosa ne pensa del modo in cui i media hanno coperto la crisi migratoria finora?

La RAI c’è stata, il giudizio se sia riuscita a raccontarla o meno lo lasciamo al pubblico, ma c’è stata e continua ad esserci perché è una vicenda che ci riguarda da vicino.
Magari se abbiamo delle responsabilità, e ce le abbiamo noi come altre televisioni, è l’aver dimenticato quello che era il focolaio di origine. Ci siamo dimenticati l’Iraq. C’è stato un cortocircuito informativo di anni sull’Iraq e poi l’ISIS ci è esploso in faccia.

Quali sono le storie che ha visto nei Balcani che rimangono di più?

Mi colpì molto vedere i profughi nei luoghi del conflitto della ex Iugoslavia, per esempio in Croazia gli afgani, che vengano da un paese ancora minato, che razzolavano pericolosamente nei campi dove ancora c’erano le mine del conflitto Iugoslavo. E poi le singole persone.

Ricordo in particolar modo, una famiglia che veniva da Aleppo, con questa signora anziana che veniva portata in carrozzella dal figlio pure anziano. Non riusciva in nessun modo a fermare un autobus per farcela salire e ad un certo punto inevitabilmente mi misi a dargli una mano. Fermai un autobus e lui cominciò a farmi l’elenco dei figli e dei nipoti che questa donna aveva messo al mondo, come se la sua biografia potesse fare la differenza per il suo destino.

Poi c’era quest’altro bambino che nonostante facesse ancora caldo non si voleva togliere questo guantino rosa di lana perché l’altro lo aveva perso nella traversata in mare.
È sempre utile avvicinarsi alle persone perché così non le trattiamo come numeri. Il giornalista aiuta facendo conoscere e rappresentando una realtà che non è mai in bianco e nero. È importante che a casa ci si faccia una idea perché la loro storia è entrata dentro l’Europa.

E pensa che vorrà continuare a seguire questa storia?

È estremamente affascinante, perché io credo davvero che loro siano parte importante del nostro domani per cui bisognerebbe trovare il modo per arrivare ad una più rapida integrazione. Penso che il nostro domani sia con loro, loro saranno i nostri concittadini, quindi va seguita. E spero di poter essere tra quelli che lo faranno.
 
*Il Prix Italia si terrà a Lampedusa dal 30 settembre al 2 ottobre.