La volta scorsa abbiamo parlato di realtà virtuale e giornalismo, ma oggi parleremo di documentari radiofonici. C’è futuro per la radio? Può essere un buon mezzo per raccontare storie dal grande contenuto umano, come la cosiddetta “crisi migratoria”?
Abbiamo parlato con Deborah Dudgeon, documentarista a Whistledown ed autrice di diverse serie per la BBC, per ottenere alcune risposte ed anche alcuni suggerimenti.
Documentari radiofonici: sono ancora metodo efficacie per raccontare delle storie? Quali sono i vantaggi di questo tipo di mezzo?
Io credo che attualmente stiamo vivendo un periodo d’oro della radio. L’ascesa dei podcast ha solo migliorato il mezzo, dal momento che un buon audio può così raggiungere un pubblico più vasto, e questo ha dato a tutti noi una bella scossa portandoci ad esaminare il modo in cui facciamo le cose e a pensare a come le nostre storie possano distinguersi. Ci sarà sempre un posto per un documentario radiofonico ben costruito, dal momento che per raccontare una storia ci sono tanti elementi oltre alle parole, come ogni buon dramma dimostra. I suoni di sottofondo, il cambiamento di atmosfera e osservare gli eventi mentre si sviluppano, sono gli ingredienti fondamentali di molti documentari.
Quali sono i principali elementi da includere in un documentario radiofonico?
Al centro c’è sempre una buona narrazione. Prima di tutto, occorrono intervistati di qualità: persone che si abbia piacere di ascoltare e che abbiano qualcosa di interessante da dire. Ed è anche necessario pensare a dove registrarle. Abbiamo bisogno di sentirle nel loro ambiente, oppure dobbiamo chiedere loro di portarci nel luogo di cui stanno parlando, o ancora ciò che esse dicono è così coinvolgente o commovente che occorre un completo silenzio di sottofondo? Come si passerà da una scena all’altra? L’ascoltatore dovrebbe seguire il documentarista mentre cambia scena? Oppure si vuole aggiungere un effetto drammatico con un completo contrasto tra un ambiente ed un altro?
Occorre ricordarsi di registrare una grande quantità di suoni di sottofondo. È necessario fermarsi ed ascoltare i suoni del luogo in cui ci si trova. Così come riflettere su quanto quel suono di sottofondo evochi l’atmosfera e registrarlo affinché l’ascoltatore possa esserne partecipe.
Quali sono invece le cose che si dovrebbero evitare?
Dal momento che la radio si basa sul coinvolgere l’immaginazione delle persone affinché ricreino la scena nella loro mente, è piuttosto noioso sentire le persone parlare di cose che accadono, senza poterle sentire mentre succedono. Naturalmente questo è valido in alcune circostanze – spesso si sente parlare di qualcosa che è già accaduto. Ma se qualcuno ci racconta come si cuoce un uovo, allora perché non ascoltarlo mentre lo cucina e descrive cosa sta facendo, piuttosto che leggere una ricetta ad alta voce.
Nel corso degli anni il modo di produrre un documentario radiofonico è cambiato? Se sì, quale è stato il maggior cambiamento e quali sono le prossime tappe?
Credo che ci sia sempre stata una grande creatività nel mondo della radio e che si possa ascoltare un vecchio documentario ed esserne catturati oggi come quando fu trasmesso per la prima volta. Perché in fondo, è davvero tutta una questione di saper raccontare bene una storia. Probabilmente ora le persone possono sperimentare di più con la struttura – non devono necessariamente raccontare una storia in maniera lineare. Ma io credo che una grande influenza su molti giornalisti l’abbiano avuta “Serial” ed alcuni altri podcast americani che hanno introdotto il pubblico nel processo di realizzazione del pezzo. È un bel modo di essere più intimi con il pubblico e più onesti su ciò che ha e non ha funzionato, ma bisogna fare attenzione a non scadere nel cliché. Mi chiedo se i passi successivi potrebbero coinvolgere ancora di più il pubblico, in termini di collaborazione – è così più facile fare registrazioni di buona qualità, persino con uno smartphone, che sempre più ascoltatori possono improvvisarsi giornalisti.
Uno dei temi principali del Prix quest’anno è la migrazione; quale tipo di approccio potrebbe essere migliore quando si lavora su una storia del genere?
Non credo ci sia un modo giusto di affrontare qualsivoglia argomento. Ci sono molti approcci e stili giornalistici differenti. E questa varietà ci dà maggiori opportunità di far ascoltare le nostre storie. Ancora una volta, tutto si riduce ad una buona narrazione e all’importanza di dare una voce alle persone. Ma penso che ci siano sfide particolari, in una tale situazione di sofferenza di massa, per assicurare che si rispettino i principi giornalistici, che si verifichino continuamente i fatti e che si facciano domande impegnative su tutti i fronti.
Infine, ci racconti di uno dei suoi progetti che considera il più innovativo.
Uno dei programmi di cui vado più orgogliosa tecnicamente non è stato affatto innovativo. Ma credo che i valori di base della produzione siano stati uno dei suoi elementi di forza, dal momento che lo abbiamo tenuto il più semplice possibile affidandoci puramente alla forza narrativa per creare il senso drammatico. Era un programma che coinvolgeva uomini che avevano commesso violenza domestica e che ci raccontavano la loro esperienza a parole loro. La forza stava nei silenzi e nelle brillanti interviste della mia presentatrice, Victoria Derbyshire. Molto spesso meno è meglio.
Quando abbiamo chiesto a Dudgeon quale fosse il miglior programma radiofonico sulla crisi migratoria che le fosse capitato di ascoltare nell’anno passato, ci ha parlato di una serie sugli Italiani di Lampedusa, andata in onda su BBC Radio 4.
Restate sintonizzati perché la prossima settimana parleremo con l’autrice di questa serie, la giornalista della BBC Emma Jane Kirby.