Seguire la crisi dei rifugiati usando prospettive diverse


Il lavoro del corrispondente resta fondamentale anche in questa epoca di trasformazioni tecnologiche e di partecipazione degli utenti.

Il Prix Italia continua a guardare al lavoro dei corrispondenti che si sono recati nei punti di snodo del percorso intrapreso dai migranti, e ha parlato con Tomas Miglierina, corrispondente da Bruxelles di RTS, la Radio Televisione Svizzera in lingua italiana, che ha raccontato il viaggio dei migranti e rifugiati a Kos e in Serbia, nel 2015, e in Macedonia nel 2016.

Qual è stata l’esperienza che l’ha colpita maggiormente?

L’esperienza più rivelatrice è stata quella di Kos, anche perché sono andato nell’agosto 2015, in piena stagione turistica.

L’isola era affollata di turisti provenienti da diverse parti d’Europa - si potrebbe davvero dire che c’era l’Unione europea in costume da bagno – e allo stesso tempo si confrontava con situazioni che normalmente si vedevano solo in televisione. Era come se guerra e miseria fossero uscite dalla tv e si fossero riversate nel quotidiano.
I turisti facevano jogging la mattina di fianco alle famiglie afghane; molti profughi facevano il bagno in mare con addosso i giubbotti salvagenti con cui avevano affrontato la traversata perché venivano da posti in cui non avevano mai visto il mare prima.

Si pensa all’Europa solo in termini economici, si tende a dar per scontato l’Europa come luogo dei diritti e dell’uguaglianza.

Cosa ci può dire invece dell’esperienza in Serbia e in Macedonia?

In passato avevo lavorato come corrispondente durante gli anni della guerra in quelle stesse zone.

In Serbia, mi ha colpito l’apertura multiculturale delle persone nei confronti di questi migranti che volevano solo transitare in Serbia per poi raggiungere altri paesi europei.
Le persone solidarizzavano, probabilmente comprendendo la sofferenza dei rifugiati di oggi, così simile a quella che avevano sperimentato in prima persona negli anni della guerra. È stato questo aspetto positivo a colpirmi molto.

Per quanto riguarda l’esperienza in Macedonia, a colpirmi maggiormente è stata la situazione politica interna e il fatto che questi paesi sono stati travolti dagli arrivi, quando la maggior parte dei rifugiati era costituita da donne e bambini che cercavano di raggiungere i familiari maschi in Germania o in altri paesi del nord Europa.

Per lei che solitamente lavora da Bruxelles, quanto è stato importante recarsi sul campo?

L’esperienza sul campo è sempre utile anche per capire la vera magnitudo dei problemi, per misurarli con occhi, orecchie, naso, mani e sulla base di questo continuare discorso a Bruxelles, che è paragonabile a una collinetta da cui si possono osservare bene alcune tendenze ma resta in parte caratterizzata da una propensione al “make believe”, da un desiderio di spazzare sotto il tappeto alcune cose.

Andare sul campo e far vedere quello che accade è importante per uscire dalla bolla e non ridurre tutto a Bruxelles.

Qual è a suo avviso il ruolo che dovrebbero rivestire i media di servizio pubblico nel raccontare la migrazione?

Il servizio pubblico ha un ruolo fondamentale che può giocare meglio di chiunque altro, ovvero fornire un’informazione che non sia preda solo del nazionalismo.
Il vantaggio del servizio pubblico è proprio quello di poter evitare un’informazione gridata, a favore di un’informazione che magari all’apparenza potrà anche sembrare meno interessante, ma è senza dubbio più importante.

Un esempio è l’uso del termine “crisi”. Nessuno vuole negare che ci sia un problema, ma parliamo di un milione di persone in un continente da più di 700 milioni di abitanti, che già ogni anno riceve almeno un milione di migrazione “regolare” per motivi economici. Insomma, un milione di persone a San Marino è un disastro. Non ce ne accorgiamo nemmeno solitamente.

Il servizio pubblico, se fatto bene, mette le cose nella giusta prospettiva.

Sempre meno gente può permettersi il lusso di un vero amico che dica le cose anche se non ci piacciono, semplicemente perché ci fa bene sentirle.