Boa sorte, Andy!

[Racconto di Massimo Pedroni]

 



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durata 24 minuti




Avevo passato tutta la notte avendo la sensazione di una certa apprensione.
Devo confessare che il risveglio di quella mattina era atteso da me con intensa emozione.
Quella dell’indomani sarebbe stata una giornata di partenza, e che partenza!
La mia destinazione era lontana, al di là dell’Oceano: per questo motivo dovevo imbarcarmi su un aereo, esperienza che non contribuiva propriamente alla mia serenità.

Dovevo affrontare molte ore di volo e, per quanto mi sforzassi di pensare ad altro, di chiamare a raccolta tutte le mie risorse, non riuscivo a placare la mia ansia.
Per dirla in soldoni, avevo un filo di atavica paura.
Decisi allora di concentrarmi sulle cose da fare: dalla preparazione della valigia, alla chiusura di casa e delle sue utenze, fino a tutte le operazioni d’imbarco da effettuare all’aeroporto.
Alcuni, in analoghe circostanze, ripetono l’usurato vecchio adagio “partire è un po’ morire”.
Per me, invece, è gioia, il divampare di curiosità, fiducia nel futuro: in una parola strepitoso desiderio di voglia di vivere.
Se poi, in aggiunta, ci mettiamo che la destinazione era quella di una Nazione celebre nel mondo per la capacità dei suoi abitanti di sprizzare vitalità da ogni poro, ce ne poteva già essere abbastanza per potersi ritenere soddisfatti.

Se tutto fosse andato per il verso giusto avrei soggiornato a Rio de Janeiro, e sinceramente non avrei potuto chiedere di meglio.
La scelta della destinazione non era motivata da preferenze turistiche, anche se quelle c’erano tutte.
La decisione, e quindi la scelta, era maturata in me dalla volontà di essere professionalmente presente a una manifestazione alla quale, per una molteplicità di motivi, non volevo, anzi non potevo, assolutamente mancare.
La manifestazione, oggetto del mio interesse, che oserei definire viscerale, erano le Paralimpiadi.

 

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Logo delle Paralimpiadi Rio 2016 (Per leggerne la descrizione proseguire nel link). Si vede al centro la scritta in blu 'Rio 2016. Paralympic Games'. Sopra la scritta, il logo studiato per questa edizione dei giochi paralimpici: un'immagine che suggerisce la tridimensionatità, grazie all'utilizzo dei colori giallo, arancione e rosso, e che unisce i due simboli archetipici del cuore e dell'infinito, i quali hanno una valenza positiva in tutte le culture. Sotto la scritta, il logo del Comitato Paralimpico Internazionale con tre 'agitos' (dal latino 'agito', ovvero 'io mi muovo') in blu, rosso e verde, i tre colori più utilizzati nelle bandiere dei Paesi del mondo. È un simbolo in movimento attorno a un punto centrale, a rappresentare gli atleti che costantemente ispirano e smuovono il mondo con le loro performance, lottando senza arrendersi alle proprie disabilità.
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Nei fatti avevo azionato un sano meccanismo di scommesse con il mondo e con me stesso.
Per raggiungere l’obiettivo di essere operativo e dare il mio contributo in quel contesto avrei dovuto superare tanti scalini, da quelli reali a quelli forse più arcigni dello scetticismo e del pregiudizio.
Gabbie nelle quali, un po’ per pigrizia, un po’ per ignoranza, sguazziamo tutti, per alcuni versi me compreso, ovviamente.
Mi era chiarissimo che il superamento della prima barriera sarebbe stato preliminare al superamento di tutte le altre.
A tal fine avrei dovuto mettere in campo tutta la mia volontà, esperienza, capacità di persuasione, per convincere una volta per tutte il Direttore della testata on-line con la quale collaboravo a inviarmi sul posto per seguire i Giochi.

Dopo aver svolto vari lavori e per complicazioni sopraggiunte nell’arco della vita, roba inerente alle mie condizioni di salute, avevo stabilizzato la mia attività nel campo giornalistico.
Settore che, per certi versi, rispetto ad alcune mie problematiche mi appariva percorribile.
Dall’inizio dell’anno, tra una battutina e l’altra, tra il serio e il faceto, ventilavo al Direttore questa proposta ma, per tutta risposta, nonostante fosse giornalista, lui faceva orecchio da mercante.
Per mesi aveva tenuto questa linea di galleggiamento.
Tra una risposta evasiva e l’altra, dal mio canto cominciavo a seccarmi.

Tuttavia, di fronte alla mia insistenza, il direttore fu costretto a darmi retta, sebbene all’inizio obiettò punto su punto.
Inoffensivi fuochi d’artificio dialettici, che poco dopo compresi quali sue incertezze e insicurezze dovevano andare a celare nella sostanza.
Le obiezioni spaziavano dalla mancanza di mezzi economici, al fatto che da una simile operazione non vedeva nessun ritorno possibile per la testata.
Inoltre, il settore dell’informazione nel suo complesso avrebbe dato più che ampia copertura all’avvenimento.
Quindi, per quanto riguardava la testata, ossia «L'Altra Campana», sarebbe stato più che sufficiente riportare alcuni risultati, classifiche, tempi e nominativi di vincitori delle varie medaglie.
Insomma, una cronaca di servizio, come si fa quotidianamente anche per altri argomenti, dalla cronaca nera a quella rosa.

Inserita la proposta in un contesto simile, quello dell’informazione, il Direttore riteneva, da un lato, di aver silurato ben bene la mia iniziativa, facendola precipitare nella categoria di quelle inutili e superflue, dall'altro, di aver dato adempimento lusinghiero ai doveri de «L'Altra Campana».
Il Direttore, Ascanio Mezzacapa, sessantenne, da non molto tempo aveva cominciato a destreggiarsi con i mezzi di informazione non cartacei e la mia impressione era quella che ancora non ne avesse colte pienamente le potenzialità.
Tuttavia, il Mezzacapa era, in fondo, un buon uomo, uno di quei tipi che sudavano da fermi anche a Febbraio.
Argomentava sempre con vibrante passione le sue tesi, cosa che gli provocava vistosi ondeggiamenti della sferica pancia.

 

 

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Scrivania di una redazione (Per leggerne la descrizione proseguire nel link). Si vedono le mani destra e sinistra di un giornalista, che spuntano da una maglietta di colore arancione, posate, rispettivamente, su di un tablet e sulla tastiera di un pc. Sul lato destro sono presenti una pianta verde, una tazza di caffé, uno smartphone nero e un quaderno dalla copertina verde con accanto una matita blu. Sul lato sinistro una seconda matita blu giace su tre fogli di carta sovrapposti che riportano delle righe scritte.
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Mi giocavo le ultime carte in quella fatidica giornata, a poche ore dall'agognata partenza: dovevo smontare scientificamente, uno a uno, gli argomenti che mi erano stati opposti.
Iniziavano così le mie personali Paralimpiadi.
Specialità: salto a ostacoli e smontaggio dei medesimi.
Sotto il profilo economico, formulai una proposta più che accettabile; sul piano professionale solleticai il suo orgoglio di Direttore di testata, vellicando con perizia quella che sapevo essere una sua pronunciata sensibilità.
Gli magnificai gli effetti di valorizzazione della visibilità che avrebbe avuto il giornale grazie alle interviste che, stando sul posto, avrei potuto fare ad atleti, preparatori e organizzatori.
Già di fronte a queste considerazioni il suo atteggiamento era diventato più possibilista: qualcosa, non saprei dire con precisione cosa, aveva sortito l’effetto desiderato.
Avvertivo che le sue posizioni stavano diventando maggiormente malleabili.
Lo si notava dal tirarsi su nervosamente i pantaloni, abitualmente portati sottopancia, con un fare pacatamente riflessivo, atteggiamento tipico che assumeva quando riteneva di essere in procinto di dover prendere qualche storica decisione.

Certo è che la cosa prospettata per l’ennesima volta da me, approfondita però in questi termini, riaffiorava nella sua testa dal baratro delle cose inutili o superflue, tra le quali con una certa superficialità l’aveva archiviata.
Era incerto sul da farsi.
Tentennava.
“Ritiene che di una manifestazione del genere sia essenziale solo riportare dei dati agonistici inerenti alle competizioni?
Pensa veramente che le cose fondamentali da offrire in lettura al nostro pubblico siano solo quelle?”, lo interrogai con esplicito fare retorico.
Avevo azzardato un passettino oltre la sua nota venerazione per la cronaca e i meri fatti: per un uomo formatosi sulle Sacre Tavole dell’attualità e dell’informazione, una considerazione del genere era completamente spiazzante.
Continuavo a incalzarlo:
“Direttore, tutti gli altri riporteranno, con precisione e dovizia di particolari, i vari risultati.
Tutti cercheranno gli atleti, noi andremo a cercare le persone, le donne e gli uomini che gareggiano.
Le persone, Direttore.
Cercheremo di venire a conoscenza delle loro autentiche motivazioni, delle loro storie, dei loro profondi perché, dei loro aneliti.
Dai colloqui con loro metteremo in risalto quello che, a mio avviso, è il punto centrale di tutta la vicenda: la loro tenacia nel dire al mondo che la partita è tutta e sempre da giocare.
Sempre, comunque e fino in fondo.”

A questo punto Mezzacapa, che in fondo lo è solo di nome e non di fatto, si lasciò andare, sempre con una certa attenzione, a sedere sulla poltrona della scrivania.
Fece quel movimento con insospettabile garbo.
Non commentò, non aggiunse parola a quelle dette da me.
Era visibilmente preda di un rovello: doveva dire qualcosa, qualcosa che sentivo venire da lontano, forse da quando per la prima volta feci l’abbozzo della proposta.
Teneva gli occhi bassi, muoveva una gamba nervosamente, era vistosamente lacerato dall’imbarazzo.
Sentivo che stava per rivolgermi la domanda delle domande.
“Dica Direttore”, lo provocai.
Mezzacapa, respirando profondamente, fissandomi negli occhi, disse:
“Ma tu…”, ebbe un’ultima contrazione di esitazione, “...credi davvero di potercela fare?”
“Sì”, risposi, ben accomodato com’ero nella mia sedia a rotelle.
“Parla con Ernesta per organizzare il viaggio e il soggiorno. Buon lavoro.”

L’avevo spuntata.
Avevo cercato e mi ero assunto un incarico veramente complesso.
Ero rimasto francamente galvanizzato dall’apertura di credito che mi aveva fatto il Direttore.
Ma se da un lato ero euforico per il mio successo personale, dall’altro cominciavo a intuirne le conseguenze.
La responsabilità che avevo deciso di assumermi era veramente grande: di fatto stavo mettendo in gioco tutto me stesso.
Non potevo, nel modo più assoluto, permettermi di fallire.

 

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Superare la disabilità(Per leggerne la descrizione proseguire nel link). Si vede nella parte laterale sinistra una sedia a rotelle vuota. Al centro dell'immagine una figura evanescente si incammina per una lunga strada costeggiata da alberi verdi, lasciando delle impronte sul terreno.
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La notte era volata via.
All’alba di quella giornata di Settembre la calura, e in speciale modo l’aggressività dei raggi solari, cominciavano ad attenuarsi.
L’estate aveva avuto picchi di calore ragguardevoli, situazione dalla quale dovevo fuggire, come si suole dire, a gambe levate.
Il che, detto da me, se condito da una salutare dose di autoironia, fa un poco ridere.
Per fortuna le condizioni atmosferiche, rispetto alle mie necessità di salute, stavano per volgere al meglio.

Comunque, nei periodi di caldo più severo, ero riuscito a sfuggire dalla morsa rifugiandomi in un centro di montagna, sopra i mille metri.
Io non avevo niente contro il sole ma, a causa della patologia, lo soffrivo oltremisura provando una profonda spossatezza e una contrazione ulteriore delle mie capacità motorie.
Il rifugio da me scelto era attrezzato a dovere per ricevere ospiti come noi.
Del soggiorno non c’era da lamentarsi: ottime le strutture, il trattamento arricchito da autentica cordialità, piatti prelibati preparati sotto le esperte disposizioni impartite dalla cuoca Adalgisa.
In quelle giornate di piena estate fui accompagnato dalla lettura, incontrata in modo assolutamente fortuita e casuale, dal testo Le confessioni di Sant’Agostino.
Cosa, questa, che rispetto al mio vissuto qualcuno, a cominciare da me, potrebbe trovare un poco bizzarra, e in effetti lo era stata.
Ad ogni modo, era stata una lettura sicuramente proficua, non solo per la qualità del libro, ma perché mi fece tornare in mente una zia, cui da ragazzo ero molto legato, che per prima me ne aveva parlato invitandomi a leggerlo.

Ma non divaghiamo oltre e torniamo, come recita un detto popolare, a bomba.
La giornata che stava iniziando era per me importante... forse troppo.
Una giornata di viaggio che mi ero proprio guadagnata: più di un ostacolo di scetticismo e di mancanza di fiducia, avevo dovuto superare, non solo con il Mezzacapa.
Persino i miei parenti e i miei amici più cari, una volta messi al corrente delle mie intenzioni, si erano detti contrari e avevano fatto di tutto per dissuadermi.
Per la maggioranza dei miei interlocutori i miei erano solo dei pericolosi propositi.
L'elenco dei problemi che avrei dovuto risolvere e affrontare, a me già noto nei fatti da svariati anni, mi veniva riproposto come una brodosa litania.
Osservazioni che non destavano in me la minima incertezza sul da farsi, in realtà anche perché avevo il mio asso nella manica: Gaspare La Guardia, per gli amici Gasparone.
Amico mio praticamente da sempre, nella vita Capitano dei Carabinieri.
Avevamo già concordato che mi avrebbe accompagnato nel viaggio in Brasile utilizzando un periodo di ferie, cosa che mi rassicurava non poco sia sotto un profilo morale che sotto un profilo, per così dire, meramente operativo.
Al secolo, i miei dati anagrafici rispondono al nome di Alessandro Tornelli, ma devo proprio al mio carissimo amico, il - per così dire - nome d’arte di Andy.
Soprannome che il Capitano coniò quando aspetti della mia disabilità non potevano essere più nascosti.
Nome frizzante, giocoso, da birichino, quale continuo ad essere; in definitiva, con il quale mi trovo bene.

 

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Partenza.(Per leggerne la descrizione proseguire nel link). Si vede una valigia marrone in stile vintage con paraspigoli dorati e stemmi adesivi applicati lati (tra cui una bandiera italiana, un aereo celeste e una freccia gialla che indica la sinistra) che con le sue rotelle viaggia su un sentiero verso montagne innevate. All'orizzonte un sole splendente sotto il quale vola ancora a bassa quota un aereo.
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Si stava cominciando a fare tardi.
Cominciai ad aggirarmi per la casa che, per far fronte alle mie esigenze, avevo scientificamente attrezzato.
Nel bagno, dotato di tutti i supporti dovuti, lavarsi facendosi una bella, rigenerante doccia non rappresentava un problema particolare, anzi, metteva di buon umore.
Lievemente più problematica era la fase della vestizione, momento che molti amici Andy avranno perfettamente presente per la fatica che comporta.
Io, che posso dichiararmi un “fortunato privilegiato”, dalla mobilità ridotta ma non completamente annullata, riesco a mantenere dei livelli di accettabile autosufficienza, sebbene debba usare la sedia per i percorsi più lunghi.
Capacità di vestirmi completamente da solo, quindi.
Completamente sì, ma certo non perfettamente.
Da anni, oramai, ho rinunciato a riuscire ad allacciarmi i bottoni dei polsini delle camicie, ma lì si può barare con una certa facilità: d’inverno occultando la manchevolezza con giacche e maglioni, d’estate facendo il casual sportivo con le maniche rivoltate.
Superate le difficoltà per indossare i calzini, si passa a superare quelle per indossare i pantaloni.
Fatto anche questo, bisognerà pure riuscire a tenerli su in qualche modo.
Visto che tra me e i bottoni è in atto una vera e propria guerra da anni, pago un fastidioso pedaggio al mio senso estetico e di ordine, rinunciando di fatto ad abbottonarmi i pantaloni.
Accetto così di tenerli su con la sola cintura, affidando a opportune misure di maglie e maglioni il compito di celare questo piccolo inestetismo.
L’uso di scarpe con i lacci non è ovviamente tra le mie scelte favorite.
Qualcuno potrebbe giustamente chiedere:
“Perché tutta questa problematica”.
Essa deriva dal combinato disposto, come direbbe un raffinato esperto di materie giuridiche, tra una diminuzione di sensibilità e la ridotta motilità delle mani.
Finalmente, dopo tutta questa articolata trafila che dovetti compiere anche quel giorno, andai a farmi e a gustare il caffè, accompagnato da due fette biscottate integrali al miele.

Vivevo solo, allora come oggi.
E a questo punto posso anche dire beatamente solo.
Ma delle cause che mi hanno portato a vivere in questa condizione parleremo un altro momento, di carne al fuoco ce ne è già abbastanza.
Gasparone mi aveva già telefonato, dicendomi che stava per chiamare il taxi per raggiungere l’aeroporto: era scattata l’adunata.
Nel giro d’un niente avrei fatto la stessa cosa anch’io, risposi.
Per pluriennale conoscenza personale, e per uno sviluppato orecchio professionale, dall’altro capo della cornetta il mio amico aveva ben compreso che la mia ultima affermazione non corrispondeva pienamente al vero.
Da anni andava avanti così, un gioco fra noi anche questo.
Lui non sempre puntuale, bensì sempre in anticipo, da vero solerte Carabiniere.
Io sempre lievemente in ritardo, da impenitente guascone.

 

 

 
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