Nuvole e medici

[Racconto di Massimo Pedroni]

 



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durata 21 minuti




Un'idea che mi sono formato nel corso del tempo è quella che ogni giorno che ci si sveglia costituisce un piccolo miracolo, che dovremmo valutare nella sua impareggiabile portata di positività.
Tuttavia, non riusciamo sempre a focalizzare la nostra attenzione su questo aspetto della nostra vita.
Lo trascuriamo, ce ne dimentichiamo, lo diamo per scontato.
Credo che ciò sia dovuto all'incalzare degli impegni frenetici che ci attanagliano fin dalla prima mattina, causati per esempio dal dover fare fronte a ostiche condizioni personali di salute o dal cercare di trovare il modo di pagare le mareggiate di bollette e tasse che arrivano in ordine sparso.
Molte altre variabili, poi, sono capaci di distogliere la nostra attenzione e ci procurano preoccupazioni che certo non aiutano ad assaporare nella sua giusta portata il valore del risveglio mattutino.
Certo, non posso negare che alcuni inizi di giornata si presentino a me con una problematicità devastante, ma spesso hanno anche qualcosa di fantastico.
La mattina dopo la serata trascorsa in pizzeria col mio amico Gasparone, per esempio, aveva un buon tepore e una luce vellutata godibilissima.
Questo già aiutava considerevolmente ad apprezzare al meglio il risveglio in quanto tale, oltre tutte le beghe da dover affrontare.
Confesso che questa prospettiva di pensiero non era la mia originaria.
Quella precedente, infatti, era molto più superficiale, ma il dovermi districare quotidianamente nella mia condizione di Andy mi aveva portato a cambiarla.
La perdita di alcune cose mi aveva fatto apprezzare forse meglio, o forse nella loro giusta dimensione, quello che mi era rimasto.
La gatta Cleofe, misteriosamente, percepiva qualcosa e, stiracchiandosi per benino sul letto per attirare la mia attenzione, mi osservava come solo i gatti sanno fare.
Il suo sguardo mirava a interporsi tra pensieri e riflessioni che popolavano la mia mente, di fatto interrompendoli.
Catturata così la mia attenzione, la sovrana di casa aveva raggiunto il suo scopo, quello di farci un giro di reciproche coccole e smancerie.
Il fatto determinò in me crescente buon'umore e serenità.
Insomma, nel mio piccolo mi godevo i miei istanti di pet-therapy.

Vestito, lavato e profumato, dovevo cominciare a organizzare la giornata.
La tabella di marcia giornaliera prevedeva che nel giro di un'oretta mi sarei dovuto presentare dal direttore Ascanio Mezzacapa presso la sede del giornale.
Da casa mia, «L'Altra Campana» era a una decina di minuti di taxi.
Non volevo prendere la macchina, che avevo lasciato parcheggiata a puntino nel posto a me riservato, in forza della Concessione che mi spettava di diritto.
Prima di uscire, come di consueto, avrei dovuto dare delle indicazioni a Venanzia sul da farsi in casa.
Alle nove e trenta spaccate sentii armeggiare alla porta.
Era la Speraindio.
"Buongiorno, so' Venanzia, posso entra'?"
"Buongiorno, entri, entri pure", tutto questo detto con un volume di voce più alto del normale per la nota durezza d'orecchi della mia interlocutrice.
"Cara Venanzia, la casa è abbastanza in ordine e pulita, c'è solo da rifare il letto e mettere a posto il bagno.
Approfittiamo di questo per dedicare un poco di tempo a metter in ordine e buttare un po' di cose dal ripostiglio."
"Ma che devo butta' tutto?", mi chiese stupita.
"No, no, solo le cose che le sembrano inutili, vecchie, ingombranti.
Veda un poco lei.
Faccia una cernita."
Su questa ultima frase la donna rimase con un'espressione evidentemente interdetta, credendo di non aver sentito bene cosa le avevo detto. Ripetei l'ultima frase: "Faccia una cernita".
Seguirono secondi di silenzio, di galoppanti sguardi interrogativi che volteggiavano negli occhi della donna.
A un certo punto, rompendo gli ormeggi dell'orgoglio personale, mi domandò: "Ma che è 'sta cernita?"
"Scelta, Venanzia", la rassicurai, "deve solo scegliere ciò che può essere ancora utile e quello che va buttato."
"Me devo prede' 'sta responsabilità?"
"No, non si preoccupi, faccia un mucchietto da una parte di quello che pensa sia da buttare, così quando torno controllo anch'io e vediamo il da farsi."
"Vabbe', così se po' fa', così sì.
A Dotto', nun me posso mica mette' io a decide'..."
"Venanzia ha ragione, mi ero espresso male, ma ora devo chiamare il taxi, altrimenti arrivo in ritardo dal Direttore."

Dalla centrale operativa dissero che Como 41 sarebbe arrivato in tre minuti.
Fui accompagnato al taxi, nonostante avessi il supporto di una stampella, dalla coniugata Meniconi.
Salito sul Como 41, la donna disse: "Che je devo prepara' quarcosa pe' pranzo?"
"Quello che fa lei, per me va bene tutto.
A dopo, grazie.
Se vuole cucinare della pasta, mi raccomando che sia integrale o..."
"...di kaputt, oramai ce lo so", completò la frase Venanzia.
Non osai contraddirla, la lasciai nella sua convinzione che la pasta di kamut si chiamasse come la chiamava bizzarramente lei.

 

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L'incontro con Mezzacapa fu abbastanza breve.
Non con stupore, ma con disappunto, lo trovai seduto alla scrivania, dove si stava cimentando in una delle sue epiche battaglie con i maritozzi alla panna.
Di fronte aveva un vassoio che ne avrà contenuti una dozzina: ne erano rimasti sei o sette. Seduto e satollo, il Direttore mi accolse con giovialità.
"Caro il mio Tornelli, a distanza di tempo ancora devo tornare a ricordare quanto ci avevi visto lungo!
I servizi sulle Paralimpiadi sono stati un successo, molto apprezzati dai nostri lettori proprio per il taglio d'approfondimento che gli hai dato, uscendo così dalle mere tabelle della cronaca.
Bravo...
Maritozzo?"
Neanche feci in tempo a rifiutare l'offerta, che il Mezzacapa se ne era già sgraffignato un altro. In tutto quel gozzovigliare, come naturale che fosse, un poco di panna gli era rimasta sulla punta del naso.
"Grazie Direttore, sto già pensando ad altri servizi da proporle...
Comunque il vassoio di maritozzi non mi sembra essere la dieta più congeniale per il suo diabete..."
"E' vero, è vero, come posso darti torto, ma quando mi prende il momento di profonda riflessione, non riesco a trattenermi."
"Passi per i maritozzi, ma pure con la panna... che gli è rimasta anche sulla punta del naso! Secondo me riusciva a riflettere lo stesso anche senza."
Mezzacapa si alzò di scatto, si pulì la punta del naso, il tutto con movimenti incredibilmente agili.
La grossa pancia aveva ballonzolato.
"Tornelli, aspetto la nuova proposta.
A presto, grazie."
L'argomento diabete era di fatto tabù, ma di fronte a un disordine alimentare così dannoso e pericoloso non potevo tacere.
Ci salutammo comunque con una franca stretta di mano.
"Attendo le nuove proposte", mi ripeté mentre varcavo la porta per uscire.

 

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Rientrato in casa, trovai Venanzia che stava ancora continuando a mettere in ordine nello stanzino, il quale con il passare degli anni era di fatto diventato una discarica.
Aveva creato dei mucchi di oggetti che, verosimilmente, avrebbero dovuto essere buttati.
La portiera stava al centro della stanza sulla quale insisteva la porta dello sgabuzzino, con una strana busta tra le mani.
Strana per le dimensioni, molto più lunga e larga del consueto, di forma rettangolare.
Da come la teneva Venanzia, doveva contenere qualcosa di un certo peso, nonostante l'esiguo spessore del contenitore.
Cleofe non mi aveva degnato di uno sguardo, impegnata come era ad annusare e studiare tutti quegli oggetti che non potevano non aizzare la sua curiosità.
"A Dotto', meno male che è tornato. 'ste foto proprio nun le capisco, nun so mica cosa devo facce... e so' pure tante!"
Disse questo agitando con le due mani il capiente involucro.
La busta era di color carta da pacco.
Sembrava particolarmente robusta.
L'avevo completamente rimossa, obliata, non ricordavo minimamente cosa potesse contenere.
Ben presto ne avrei compreso il perché.
"Ma di quali foto sta parlando?"
"A Dotto', pe' esse foto, so' foto.
Strane, tanto strane, ma so' tutte foto.
Mi sembra che siano di teste, di crani, di cervelli, insomma nun lo so.
Nun l'avevo mai vista 'na cosa così.
Guardi un po' lei."
Estrasse svariati fogli – per così dire – dalla busta.
Li dispose sul tavolo da pranzo.
Riconobbi cosa erano quei fogli che Venanzia con sospetto e rispetto aveva definito foto.

Ripiombai con la mente a quel radioso pomeriggio di maggio di circa venti anni prima.
Uscito dal reparto di Neurologia del Policlinico, aspettavo il taxi che mi avrebbe riportato a casa.
All'incontro con il Primario ero andato da solo.
Avvertivo che tutto, ma proprio tutto, da quel momento nella mia vita si sarebbe modificato.
Non sapevo con quale tempistica, né tantomeno con quale violenza e intensità.
Salito sull'autoveicolo rapidamente sopraggiunto, dissi al conducente l'indirizzo della mia destinazione.
Non ci dicemmo altro durante tutto il percorso.
Entrambi eravamo chiusi, barricati nei nostri problemi.
Lui in quelli della sua squadra del cuore, della quale, dalla radio sintonizzata su un canale dedicato alle gesta dei suoi beniamini, seguiva i disappunti e le doglianze della tifoseria.
Io, accovacciato sul sedile posteriore, schiacciato dalla busta e da quello che mi aveva detto il medico poco prima.
Quelle che Venanzia, nella sua genuinità, aveva definito foto, in realtà erano le evidenze della mia prima risonanza magnetica.
Da quell'accertamento, dopo circa un anno e più di visite e incontri nei quali erano stati teorizzati i mali più disparati, si era arrivati finalmente a una diagnosi credibile.
Sclerosi Multipla.
Diagnosi che il navigato medico ebbe il garbo di aggraziare con un "probabile Sclerosi Multipla".
La necessità degli accertamenti era stata determinata dai reiterati formicoli, addormentamenti e ingiustificati affaticamenti che provavo agli arti inferiori.
Una lieve zoppia alla gamba destra cominciava ad affiorare.
La mia prima reazione fu quella di far finta di niente.
Il tipico, e direi anche comodo e poco coraggioso, "aspettiamo che passi".
Ma non passava, i disturbi, con lenta progressione, non facevano che aumentare.
La cosa cominciava a essere evidente.
Mi affaticavo facilmente.
Qualcosa di anomalo nei miei comportamenti veniva notato, specialmente quando superavo un limite di affaticamento che diventava via via sempre più facilmente raggiungibile.
Condizione, questa, che mi creava grandi imbarazzi.
All'inizio della vicenda provavo sentimenti di vera e propria vergogna.
Con i risultati della risonanza magnetica almeno si era finalmente capito e accertato a cosa ci si trovava a dover far fronte.
Per arrivare a quella diagnosi ci avevo impiegato almeno un anno buono.
Periodo che non avevo certo passato con le mani in mano.
Anzi, mi ero consultato e fatto visitare da più di un medico.
Le risultanze da questi incontri erano state molto vaghe, approssimative, in alcuni casi confortanti, nuvole impalpabili dietro le quali s'annidava l'uragano che di lì a poco si sarebbe scatenato.


 

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Il primo dottore con il quale mi confrontai fu il mio medico di fiducia.
Persona verso la quale nutrivo sentimenti di grande stima.
Era un medico all'antica.
Per intenderci, di quelli che ti visitavano veramente e approfonditamente.
Apparteneva a quella scuola secondo la quale con il paziente prima di ogni cosa si deve creare un rapporto di empatia e dietro la scrivania il medico si va a sedere solo alla fine della visita, per scrivere le eventuali ricette.
Per dirla in breve, non era il classico distributore di pillole in camice bianco dei giorni nostri. Ai miei occhi, quindi, il suo parere aveva molto peso.
Come sempre la visita fu molto scrupolosa.
I transitori formicolii che accusavo agli arti inferiori non rappresentavano, a suo modo di vedere, fonte di particolari preoccupazioni.
A suo avviso ci trovavamo di fronte solo a delle parestesie, disturbo per il quale non ritenne opportuno dovermi prescrivere alcun farmaco.
Ci salutammo con la cordialità consueta, mi disse di non preoccuparmi e che la cosa si sarebbe risolta a breve da sola.
Uscii rasserenato dalla visita.
In sostanza non avevo niente.
Nei giorni seguenti, però, constatai la permanenza dei formicolii, del facile addormentamento della gamba.
Con il senno di poi devo dire con dispiacere che il mio medico prese una cantonata.
La situazione, in quella fase, molto lentamente ma in modo inequivocabile, andava sempre più deteriorandosi.
Quasi casualmente mi resi conto che per fare la rampa delle scale di casa avevo bisogno di servirmi del corrimano.
Cosa, questa, per me assolutamente inconsueta.

"Ma 'sta roba che si vede in controluce, che è? La testa sua?", interruppe i miei ricordi Venanzia che, incuriosita, aveva impugnato una risonanza.
"Sì, è il mio teschio, e se guarda con attenzione vede dei puntini bianchi.
Sono delle lesioni."
"So' quelle che non la fanno cammina' bene?"
"Esatto."
Paga di questa puntualizzazione, la donna tacque.
I ricordi andavano in automatico, tra le tante visite fatte mi rivenne in mente quella forse più disgustosa.
All'epoca avevo un'assicurazione sulla salute.
Siccome non si era ancora chiarito nulla, presi un appuntamento anche con il medico di quell'Ente.
L'incontro con questo signore, azzimato con il suo bel camice bianco d'ordinanza, fu disastroso. Era visibilmente scontroso, frettoloso, indisponente.
Alla fine, sempre in un clima di sua manifesta insofferenza complessiva, non mi fece alcuna diagnosi, disse solo che se dopo tre mesi accusavo ancora i disturbi, si sarebbe degnato di rivedermi.
Oltre al pessimo incontro e al tempo perso, non si era ancora capito niente.
Il tempo passava, le inquietudini erano crescenti.
Con il senno di poi, un sospetto si radicò in me.
Il medico dell'assicurazione aveva guadagnato tempo.
Aveva capito, ma non mi aveva prescritto nessun accertamento, tipo la risonanza magnetica, per non farne gravare il costo sull'assicurazione per la quale agiva.
Spero tanto, ma veramente tanto, di essere in errore.
Se così non fosse, quello sarebbe stato un comportamento criminale.

Volevo capire, sapere.
Mi recai dal mio medico di base.
Persona a me fino a quel momento sconosciuta.
Altro incontro dove i minimi coefficienti di ospitalità, educazione e comprensione umana, furono totalmente assenti.
Dopo una lunga attesa, mi ricevette.
Ebbe il garbo di lasciarmi in piedi, senza neanche offrirmi di sedermi da qualche parte.
Non mi degnò di uno sguardo.
Mi fece domande sulla mia sintomatologia.
Al termine della mia esposizione, lentamente alzò il suo sguardo verso di me e, con un sorriso pieno di autocompiacimento, disse: "Sclerosi multipla".
Risposi di getto, senza avere piena contezza della portata di quella diagnosi: "Cosa si può fare?"
"Niente."
Mi ritrovai incredulo, frastornato.
Non potevo o non volevo accettare che quello lì, senza neanche avermi visitato, ci avesse visto giusto.
Mi organizzarono un appuntamento con un luminare di Neurologia, quello oramai appariva chiaro essere il campo d'indagine.
Mi prescrisse di fare l'accertamento principe di questi casi: la risonanza magnetica. Finalmente seppi tutto.
Gli spazi per pretestuose evanescenze o svarioni o colpevoli comportamenti omissivi erano terminati.

"Dotto'... Dotto'... ma che s'è 'ncantato?"
Aveva ragione la coniugata Meniconi, ero ripiombato a capofitto in quelle acuminate temperie.
"Allora Dotto', cosa ce devo fa' cu 'sti fogli, 'ste fotografie?"
Ero seduto sul divano, Cleofe si era accoccolata sulle ginocchia facendomi le fusa.
Non risposi subito.
Con consapevole maleducazione, a domanda risposi con un'altra domanda.
"Cosa mangeremo a pranzo?"
"Vanno bene du' spaghi integrali ajo e ojo, dopo 'n po' di verdura cotta a vapore, come fanno li cinesi?"
"Perfetto, fantastico."
"Ma 'sta robba la devo butta' o no?"
Stringendomi al petto la micia e tutte le sue affettuosità, non potei fare altro che dire: "Quella è tutta roba vecchia, di venti anni fa.
Roba che si butta..."
Con un "Vabbe', vado a prepara'" si congedò Venanzia.


 

 

 

 
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