Ladri di parcheggi

[Racconto di Massimo Pedroni]

 



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durata 22 minuti




Venanzia era andata in cucina per attivare i preparativi del pranzo, quando il telefono squillò al suono di Funiculì funiculà.
Avevo inserito da tempo come suoneria della linea fissa la celebre canzone napoletana per far sì che le richieste di comunicazione mi giungessero più allegramente.
Questo artificio non eliminava, tuttavia, la possibilità che all'altro capo del filo ci fosse in agguato qualche scocciatore... malaugurata ipotesi che in quel caso si verificò.
Una voce femminile, con tono e accento fortemente sgraziato, voleva tentare di piazzarmi qualche abbonamento di utenza domestica o di telefonino.
Di chiamate simili ne ricevevo parecchie, trascorrendo molto del mio tempo a casa, la quale diventava spesso anche il mio ufficio.
Francamente non le sopportavo più.
Con ferma determinazione e con un atteggiamento manifestamente seccato, interruppi l'inopportuna chiamata.
Fu facile rasserenarmi davanti a un bel piatto di spaghetti integrali ajo e oio, che l'amabile coniugata Meniconi mi aveva preparato prima di tornare nel suo appartamento.
Ci salutammo con un generico a più tardi.
La vidi portare via due sacchi di spazzatura: lo stanzino era stato rimesso a posto, sgomberato.
Come la mia mente.
Almeno per il momento.

Terminai in fretta di mangiare poiché dovevo andare a fare fisioterapia.
Attività che svolgevo tre volte a settimana, per periodi dell'anno che si andavano sempre più riducendo.
Spesso avevo anche interruzioni di sei mesi.
Le risorse pubbliche destinate a quelle finalità, tra mala gestione e malaffare, si erano ridotte significativamente.
Una delle cose più bizzarre che ho avuto modo di riscontrare nella mia oramai ventennale vita da paziente, è stata quella di dover constatare la visione terapeutica ristretta che hanno alcuni medici.
Essa, spessissimo, viene ridotta al solo aspetto farmacologico che, a diagnosi avvenuta, sembra loro necessario e sufficiente prescrivere.
Ricette e prescrizioni che ovviamente toccarono anche a me.
Farmaci, farmaci e ancora farmaci, che fossero pasticche o iniezioni, sempre e solo questo mi si proponeva.
Nessuno dei medici mi aveva minimamente accennato che una strategia terapeutica adeguata per un paziente con sclerosi multipla, oltre all'assunzione di farmaci, non poteva non essere integrata da un progetto di fisioterapia.
Tutto questo lo capii quasi per caso, per conto mio.
Ma tant'è!
Sullo sfondo rimaneva un'amara sensazione di miopia complessiva con la quale si supporta il destino del malato a diagnosi avvenuta.

 

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La borsa per andare a fare fisioterapia era stata riempita con il minimo indispensabile, al fine di renderla il più leggera possibile.
Questa era una fondamentale valutazione da effettuare.
Doveva essere un contenitore il più agevole possibile da portare, almeno per le mie forze.
La borsa era stata preparata da Venanzia seguendo puntualmente le indicazioni che le avevo dato, prima di essere caricata nella mia macchina con premura e gentilezza dalla stessa portiera.

Le sedute di fisioterapia erano sempre impegnative.
Sapevo che quel giorno lo sarebbe stata ancora di più, in quanto era la prima che avrei fatto dopo la pausa della vacanza alle Canarie.
Come sempre in questi casi, sarei tornato a casa molto provato.
La cosa che ai miei occhi risultava fantastica era che l'Istituto dove svolgevo le terapie aveva parcheggi interni riservati quasi tutti a noi Andy.
In certe occasioni non c'era che l'imbarazzo della scelta.
Una distesa di parcheggi ai nostri piedi.
Una vera cuccagna.
Sotto questo aspetto, frequentare l'Istituto era fonte di benessere e serenità.
Quello che paventavo costantemente era il ritorno a casa.
Destinazione che avrei raggiunto già affaticato, stanco e affamato.
Il percorso di ritorno verso casa era sempre accompagnato da quello stato d'animo per il quale non sognavo altro che riposarmi e sbocconcellare qualcosa.
Magari guardando un programma interessante in televisione, con l'immancabile Cleofe sulle ginocchia da accarezzare.
Ma temevo tanto che avrei trovato qualche brutta sorpresa.
Avevo sempre paura che questo bel quadretto che componevo nell'immaginazione, alla prova dei fatti, sarebbe andato in frantumi.
Facevo scongiuri, piccoli riti propiziatori.
In una parola speravo tanto che mi andasse bene.
Ma è inutile negarlo, un certo stato di agitazione era sempre presente in me e cresceva quanto più mi avvicinavo al raggiungimento della meta.
Voltata la curva e imboccato il rettilineo di casa, cominciavo a sbirciare.
Il lato sinistro, quello di mio maggiore interesse, era tutto occupato, cosa abbastanza naturale.
Ingenuamente speravo che il posto con Concessione a me riservato fosse ancora libero, come l'avevo lasciato.
Cosa questa che, come abitualmente accadeva, non ebbe a verificarsi neanche quella volta.

Il mio parcheggio era stato sfrontatamente occupato.
Me lo sentivo lungo il rettilineo, con la consueta ansia di questi casi, ma anche con un briciolo di fiducia – evidentemente malriposta – nel senso di solidarietà e collaborazione degli altri.
Vidi soltanto una ininterrotta catena di capotte di vetture parcheggiate a spina, dalle più svariate tonalità di colore.
Una di queste, in fiammante giallo canarino, spiccava tra le altre e apparteneva alla macchina intrusa.
Era una Fiat 1100 d'epoca, recuperata e completamente rifatta.
Dalla targa si poteva approssimativamente dedurre che era una vettura degli anni '60.
Vedermela piazzata lì, nel posto a me riservato, fu uno degli abituali sfregi che devo quotidianamente sopportare.
Oltre l'offesa, l'assoluta mancanza di rispetto per le esigenze di chi si trova a doversi misurare costantemente con le proprie difficoltà, che in alcuni casi sono delle vere e proprie impossibilità.
Sopportare quotidianamente questi oltraggi comporta avere risorse di pazienza considerevoli.

Oramai la procedura da seguire, non sotto un profilo legale, ma squisitamente pratico, data l'esperienza maturata in vicende del genere, mi è assolutamente nota e la misi in pratica anche quella sera.
Prima di tutto occorre accertarsi del grado di noncuranza e villania del quale è dotato l'abusivo di turno.
Ciò comporta, quindi, scendere dalla mia Pixo per andare a verificare se lo stolto o la stolta si siano degnati di lasciare almeno un bigliettino, magari col numero del cellulare.
Chiaramente già questo sali e scendi dalla macchina, con tutto il necessario armeggiare di stampelle, non costituisce per me di certo una situazione auspicabile.
Ancora più severa si manifesta la vicenda per chi è costretto a dover usare la carrozzina.
Tira su la carrozzina, tira giù la carrozzina...
Vai a verificare se hanno lasciato una qualche indicazione.
Intanto la tua macchina è in doppia fila, complicando il traffico.
Clacson che cominciano a suonare...
Nervosismo generale montante...
L'insieme, per persone già provate di loro, è un bel disagio e una bella faticaccia.

Il tutto per qualche scellerato o scellerata che crede di potersi permettere il lusso di comportarsi così.
Molti di loro non hanno la minima idea di cosa stiamo trattando.
Spero tanto che la loro sia solo ignoranza o beata incoscienza.
Non sempre, però, si tratta solo di questo, più di una volta ne ho dovuto prendere atto.
C'è tanta ottusità, autoreferenzialità, anche arroganza.
Come generalmente accade, anche in quel caso l'accertamento diede esito negativo.
Non era stato lasciato nessun elemento idoneo a reperire quello che, con un eufemismo al quadrato, definisco sobriamente briccone.
Nel mio intimo però, in queste situazioni, non posso evitare di rivolgere all'abusivo parolacce irripetibili, offese di ogni sorta, cercando di placare l'ira che simili comportamenti determinano in me.
Verificato quanto detto, con consumata esperienza, passo abitualmente al piano B, quello della ritorsione.
Ispirata principalmente non a finalità vendicative, ma educative.
Mi accosto il più vicino possibile con la mia vettura, parcheggiandola dietro quella dell'intruso e bloccandogliela volutamente, lasciando libera la strada.
Nel frattempo me ne torno a casa.
Al suo ritorno, sarà lui a trovare la sorpresina.

 

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Ero già rientrato in casa da circa un paio d'ore.
Venanzia, come d'abitudine, era tornata per dare le ultime rifiniture alla cena e ancora non si era fatto vivo nessuno.
Il citofono squillò proprio mentre stavo per cominciare a mangiare.
Rispose Venanzia: "E' il solito 'ncivile che domanna di farlo uscire."
"Aspetterà, cosa che gli farà tanto bene...
Almeno finirò di mangiare."
La donna riferì all'ignoto interlocutore.
"Dice che tiene fretta."
Io di rimando: "E chi se ne frega non ce lo mette? Se ha fretta che prenda un taxi".
Dopo un serrato quanto rapido conciliabolo citofonico, Venanzia, con l'espressione del viso e il tono della voce colmo di riprovazione: "Ha detto che aspetterà".
Ben sapevo che avrei potuto, chiamando i Vigili, far rimuovere la macchina parcheggiata abusivamente, in più fargli comminare la multa, con conseguente perdita di punti sulla patente.
Un poco per la trafila burocratica troppo lunga e dagli esiti incerti e un poco perché desideravo prendermi qualche soddisfazione – a mio modo di vedere – più educativa, graziai per l'ennesima volta l'arrogante di turno.

Era già trascorsa una buona mezz'ora.
Potevo vedere i comportamenti del soggetto dalla finestra della stanza dove mi trovavo.
Era un aitante quarantenne, con tuta e scarpe da ginnastica.
Uno di quelli che magari era andato a fare jogging nel parco adiacente.
Rispecchiava pienamente il classico usurpatore di parcheggi riservati tipo.
Accade sempre, infatti, che, tra uno sbuffo, un'imprecazione e l'altra, non si capisce mai chiaramente rivolta contro chi, il ceffo di giornata, dopo un inquieto avanti indietro sui suoi passi, apparentemente placato si appoggi alla vettura di sua proprietà.
A quel punto comincia a pensare, rimuginare.
Non tanto alla malefatta operata a danno dell'ignaro quanto incolpevole legittimo concessionario, del quale si è occupato il posto, ma a tutte le impreviste difficoltà e perdite di tempo che la bravata, imprevedibilmente, ha cominciato a comportare.
Questo, devo dire, è ogni volta per me un momento di grande soddisfazione.
Per quanto sia, la coscienza del bieco individuo comincia a lavorare a pieno regime.
Il che non può non comportare un'autocritica sul comportamento "'ncivile" tenuto, come direbbe Venanzia.

Con gli abusivi prima ci discutevo, e anche aspramente.
Più volte mi hanno minacciato, in maniera inequivocabile, che se non avessi desistito dal rivendicare il mio diritto sarebbero passati alle maniere forti.
Cosa che mi intimidiva talmente, che la mia prima reazione era quella di scendere dalla macchina! Facevo questo, ovviamente come potevo, pronto ad accettare il confronto.
Se fosse stato necessario, anche lo scontro.
A quel punto l'individuo arrogante e aggressivo che mi trovavo di fronte restava completamente incredulo e disorientato.
In alcuni casi diventava gentile, fino ad arrivare a chiedermi scusa con un soffio di voce imbarazzata, certo, ma sempre di scuse si trattava.
Per anni mi sono interrogato su queste improvvise metamorfosi.
In esse c'era qualcosa che mi sfuggiva.
In qualche modo quando scendevo dalla macchina con la ferma intenzione di non recedere di un millimetro dalla rivendicazione dei miei diritti, abbrancato necessariamente allo sportello per non cadere miserevolmente a terra, facevo pure la mia figura.
Loro rimanevano stupefatti.
Non dalla mia determinazione e ancor meno dal timore che la mia reazione poteva suscitare in loro.

Dopo molto tempo sono venuto a capo della questione: lo stupore e il successivo smarrimento nel quale precipitavano gli usurpatori del mio parcheggio era provocato da altro.
Venendosi a confrontare con me, si trovavano davanti a uno vero.
Un disabile autentico, con tutti i crismi, con una Concessione legittima, un contrassegno per la macchina personale con foto.
Non quindi l'uso da sciacallo del permesso di una qualche anziana parente invalida.
Accertato ciò, i miei interlocutori restavano sbigottiti.
Non credevano che il titolare fossi io.
Evidentemente, secondo i loro parametri, non avevo la faccia da disabile.
In un mondo da carta vince, carta perde, certe diffidenze e scetticismi trovano facile spazio.
Con l'aggiunta che, così facendo, la fabbrica degli alibi sociali continua a lavorare a pieno regime.
Mi è assolutamente evidente che, in una città pressata costantemente dal traffico come Roma, l'inesausta ricerca di parcheggi da parte dei suoi cittadini faccia scattare un'incontrollabile bramosia.
Sono tutti costretti a vivere di piccole soprusi, furbacchiate, arroganti spavalderie.
Fino ad arrivare a contendersi un parcheggio come un osso tra cani indiavolati dalla fame.
Una guerra tra poveri, nella quale gli Andy si trovano spesso a pagare il conto più salato per responsabilità altrui.

 

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Nel mentre delle mie casalinghe riflessioni, vedevo che l'abusivo non aveva trovato nulla di meglio da fare che accendersi una sigaretta.
Guardava l'orologio sempre più frequentemente.
Avevo quasi concluso la cena e stavo terminando di vedere il telegiornale della sera.
A quel punto l'uomo dai comportamenti riprovevoli sarebbe stato cotto a puntino.
Quel punto nel quale si giunge amaramente a confessare a se stessi che "chi è causa del suo mal, pianga se stesso".
Gettando via il mozzicone della sigaretta che stava fumando, gli avevo letto negli occhi questo sentimento.
La mia finalità pedagogica era stata raggiunta.
Con il supporto della stampella, raggiunsi l'abusivo.
Non ci furono necessità di presentazioni.
Il supporto che portavo con me e del quale ero costretto a fare uso definiva in modo indiscutibile i torti e le ragioni, i mondi di rispettiva appartenenza.
Con un gesto educato, ma che non ammetteva repliche, gli stoppai qualsiasi sbrodolata di scuse.

Ne avevo ascoltate tante, troppe, tutte false.
Di vero, lì in mezzo, c'ero solo io, con le mie problematiche.
Nel corso degli anni mi ero confrontato con banalità del tipo "l'avevo lasciata solo dieci minuti", fino a scuse improbabili e fantasiose.
Da ricordare quella di una ragazza.
Mi mostrò il contrassegno, le chiesi di girarlo dalla parte della fotografia.
Era invecchiata, nella foto, di almeno cinquant'anni.
Ammise che il permesso era della nonna, che comunque l'aveva dovuta portare all'ospedale.
"Qui vicino non ci sono ospedali.
Di quale ospedale parla?", replicai in modo inesorabile.
Bofonchiò argomenti insensati, mentre il ragazzo che stava con lei sprofondava sempre più vistosamente nel posto accanto a quello di guida, dove stava la ragazza.
"La logica, tra le altre cose, ci dice che se ha accompagnato sua nonna all'ospedale, lei è rimasta lì, di conseguenza lei non ha alcun titolo per occupare un parcheggio per disabili, per di più con Concessione".
Tramortita dall'imbarazzo e dalla vergogna, ripartì, prendendo la strada contromano.
Cosa che evitai di far fare al bellimbusto in tenuta da jogging.
Venanzia s'affacciò dal portone: "Mi' marito chiede se je serve 'na mano... Problemi cor signore della macchina canarino?"
"No, no, grazie.
Nessun problema.
Solo che lui ci penserà su un pochino."

Dal telefonino che portavo sempre con me, inviai un messaggino al direttore de «L'Altra Campana».
Domattina le porto la nuova proposta per una inchiesta bomba.
Rientrato in casa, andai a dormire.
Cleofe mi si addormentò sulla pancia.
Fusa comprese ovviamente.
Beh, lo ammetto, anch'io qualche volta sono felice.
Sempre da Andy, beninteso, ma felice.
Prima di crollare definitivamente tra le braccia di Morfeo, ebbi modo di ascoltare dal telefonino il segnale dell'arrivo di un messaggio.
Sarà stato quello di Mezzacapa, ci si penserà domani.
Che come diceva saggiamente Rossella in Via col vento: "E' un altro giorno".

 

 

 

 
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