La leggenda di San Francesco e il lupo di Gubbio viene qui raccontata con tre diversi punti di vista. I timori, la rabbia e le ragioni del lupo. Lo stupore e l�ammirazione di un frate molto vicino a Francesco. Le palpitazioni spirituali di Santa Chiara nel condividere la fede con il giovane santo.
Parla il Lupo:
on so come sia che si nasca lupi, forse da un ringhio del branco o del capo. E non so come sia che si cresca, forse qualche zampata, gli artigli che spuntano o la schiena che muta pelo.
Tuttavia, così si arriva alla stagione del gran vigore e poi, di filato, arrivan le altre.
E segue la fame, il silenzio, odori ricamati a tratti sul manto nevoso. E poi la Primavera, i prati verdi su cui cavalcare e... il richiamo dell'amore, che straccia ogni altra necessità.
E allora si giunge smagriti al traguardo, feroci e intoccabili a un baffo dalla mèta, consumati dalla lotta e dal desiderio. E poi l'estate all'ombra del grande albero, dove si fugge la calura estiva mentre pian piano ritorna l'inverno.
E allora ancora fuori, fuori dalla tana in cerca di cibo, mentre i tuoi piccoli piangono dalla fame e dal freddo. La tana, dove qualcuno li ascolta, li scopre e poi miseramente li uccide. Questa, la vita del lupo, un lupo divenuto solitario.
Come me.
Un rumore improvviso mi scuote... forse mi stanno cercando, devo abbandonare la tana e ciò che resta della mia famiglia.
I lupi sono animali gregari, vivono in branco e sono fedeli alle loro compagne. Questo lo sa il cielo, lo sanno le volpi, ma lo sanno anche gli uomini. Unica via, la fuga attraverso i campi mentre la rabbia monta a ogni steccato divelto.
Mentre la furia sale a ogni getto di fiato, corro per salvare le mie povere ossa. Devono essere almeno mille le miglia da che frusto i venti con la coda.
La notte mi è scivolata sopra come un mantello e adesso il mio respiro spolvera neve, una neve azzurra e scintillante di stelle.
Che notte questa notte, dove il cielo e la terra si perdono nella farina bianca, dove il tempo si è ghiacciato e il vento scuote ogni buon pensiero. Che notte questa notte, dove le lacrime si affilano come cristalli e un nevischio gelido muore in ricordi coagulati. Dove dai singhiozzi nascono valanghe e l'odio si trasforma in siero e diviene necessario come una linfa.
Ritto, quasi fossi in arcione sulla collina, ho narici aperte e umide che mi dicono che forse... forse ci sono. Ah, homo! Orribile creatura dominante su questa terra, sulla mia terra! Hai segnato campi, arato confini, piegato alberi, segato limiti di illimitate praterie.
Ah, homo! Hai addomesticato il fuoco, domato i giorni e ridotto la luce a una cattività perpetua. Grrrrr... homo!
Hai ucciso la mia compagna e fatto pellicce dei miei figli! Io ti giuro uggia e livore, io ti porto vendetta e castigo, io ti prometto pena e sangue a non finire!
Non posso, non posso più tornare indietro ai miei ricordi, ai miei cuccioli scuoiati e appesi, perché l'istinto si mescola all'ira e l'ira diviene bava che lucida e affila artigli sguainati.
Le tracce dell'ultima caccia mi segnano i baffi, il sangue rattrappito tira sul muso.
Ho azzannato molti odori da allora, ma non mi basta! Ho affondato il muso fra i tiepidi ricordi della mia compagna, il suo naso umido, il suo sguardo ambrato. Ora voglio una cosa sola e con tutto me stesso: vendetta, un'orribile vendetta!
La casina è illuminata; la neve l'ha tinta di un bell'indaco lunare. Sento di lontano l'odore degli ovili e della paglia appena smossa. Il mio passo è leggero sulla neve ma molto, molto deciso.
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Faccio un giro della casa costeggiando gli steccati. Un cane spelacchiato abbaia verso di me, da lontano, e l'homo appare sull'uscio con un forcone in mano.
L'homo ha freddo e segue il cane uggiolante e pieno di paura. Mi acquatto fra le dune di neve. L'homo rimprovera il cane. Il cane mugola. L'homo prende della legna. Chiude l'uscio. Torna in casa. Riemergo, mentre la neve ha ghiacciato il mio ventre.
Sono guardingo e striscio sulla pancia, disegnando l'ennesimo perimetro della cascina mentre i guaiti del cane esplodono acutissimi e disperati.
Il padrone esce più allarmato di prima. Ha due bastoni fra le mani e li picchia l'un l'altro con aria minacciosa.
Attendo immobile.
Mi porto ancora oltre, oltre i ricordi, oltre le vecchie ruote del carro, oltre la biada umida di freddo, oltre i miei giorni. Mi avvicino ancora, il mio alito sembra una lingua di rabbia. Avanzo deciso.
Il cane percuote di latrati la valle; le casine di Gubbio accendono qualche fioco lumino. L'homo esce ancora con la forca in pugno e fa il giro della sua cascina borbottando parole brutte al cane. Non trova nulla: la mia rabbia è densa ma impossibile da vedere.
Il cane mi annusa, mi percepisce e mi teme, borbotta timoroso, ogni tanto guaisce, ma l'homo non esce, non gli crede più e, forse, domani lo venderà per qualche libbra di grano perché ha abbaiato al lupo, al lupo!
Ora la trappola è tesa, così mi avvicino al quadrupede ed egli ulula, ma nessuno gli crede. Ora gli sono addosso e sento le sue vene palpitare sotto il pelo grasso e gretto, affondo e sono dentro... e rubo respiri e anni succhiandogli il futuro dal collo. Che notte questa notte in cui la neve è un manto vermiglio! Entro nell'ovile e ringhio orribilmente agli ovini spauriti:
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(mefistofelico) Che nessun viva! Che nessuno osi esalare un respiro che non sia l'ultimo! Che egli veda l'orrore, domani, al suono lieto e mite dell'allodola foriera del mattino e delle cattive nove!
La strage è commessa, ma la Luna è altissima e trucida e le mie zampe bagnate del sangue di molti innocenti non son paghe.
(galvanizzato) Altrove! Mi dico e altrove mi reco!
Quando mi accorgo dell'allodola armonica che percuote l'aria sono passati molti giorni e molte notti in cui il mio pensiero era unico e solo. Ora il paese mi teme e questo pugno di anime chete, colanti argilla, chiede il perdono di Dio, poiché io... esisto.
Dicono che è giunto fin qui l'homo buono, ché loro, se pur tanti, non riescono a catturare la mia rabbia! Cesco, lo chiamano, e Cesco è in piazza che attende il mio muso senza forca e senza corda, costì, sembra, a mano nuda.
Ma io non credo a un homo disarmato,
e mi dice di essere frate Francino, dice che ho falcidiato molte bestie e che la gente vive di poche cose. Mi chiede com'è che sia così risoluto e cosa mi spinse a non rispettare i confini che dividevano la mi' tana dalle case della poera gente.
Io ringhio nervoso e mi domando in un fiato (agitato e selvatico) ma chi è costui? E poi non sono stato io a rompere le barriere fra le specie!
Fra' Francino mi dice di essere colui che ha in programma di parlare all'imperatore e lo supplicherà di emanare un editto generale per cui tutti quelli che possono debbono spargere per le vie frumento e granaglie, affinché a Natale, in un giorno di tanta solennità, gli uccellini e in particolare le sorelle allodole ne abbiano in abbondanza! Mi dice che ama gli homini e tutte le bestie, e che mi posso fidare.
Fisso l'homino incredulo e stupefatto, passeggio in tondo per la prima volta senza guardarmi le spalle, con le unghie tese e i denti sguainati.
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(stupito) Oh, bella! Mi dico, io st'homo lo capisco e comprendo ogni sua piccola parola, i lumini dei suoi ragionamenti, lo sguardo tenero dei suoi occhi.
Egli riprende e tutti, me compreso, siam rapiti dalla sua favella. E poi mi domanda cosa può fare per me e cosa può far Gubbio? Che forse la mia tana è andata distrutta?
Così si avvicina e posa la sua mano sul capo mio e prega e io ho una voglia di uggiolare che nessun freno mi trattiene. Frate Francino accoglie il mi' pianto. E sembra capire e m'invita a piangere fra le sue braccia. Lui ha capito cosa m'è accaduto, dice che è orribile. E che va ripagato per quel che si può!
Perciò, homini di buona volontà, se vi recate a Gubbio presso la chiesetta di S. Francesco della Pace, la chiesetta dei muratori, troverete la mia ultima dimora. Lì vissi i miei ultimi giorni. Il paese di Gubbio mantenne tutte le sue promesse e io non feci più festa della mia cattiveria.
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