Le parole di Fiona




[Racconto di Paola Manoni]


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durata 26 minuti



Ho una collezione di trottole, di quelle piccole, di legno, che si nascondono facilmente in tasca.
Mi piacciono le trottole perché sono semplici e antiche.
Nell'agorà ateniese si giocava con le trottole e oggigiorno si gioca ancora, a tutte le età: dai bambini nella prima infanzia fino agli adulti, i quali se ne giovano come passatempo antistress.
Anch'io, quando sono particolarmente sotto pressione o quando devo concentrarmi, scatto le dita sull'apice della trottola che raggiunge la sua velocità angolare.
La trottola ruota attorno al suo asse mentre io trovo pace e ispirazione.
Poi l'energia cinetica si esaurisce, la traiettoria scade e poco a poco si sperde sopra le carte del mio tavolo.
Da bambina avevo trottole di grandi dimensioni, trottole sibilanti che si caricavano a terra agendo sul manico.
Erano di latta, decorate con disegni che al movimento rotatorio si mescolavano l'un l'altro fino a sparire.
Me ne ricordo una, in particolare, con dei cavallini variopinti che in corsa sembravano spiccare il volo per poi tornare lentamente in riga, al loro posto.
Mi piacevano le trottole perché mostravano le cose nella loro apparenza relativa: nel loro mutare al variare della velocità.
In tutt'altro senso ma, per un analogo motivo, mi divertivo a giocare con l'effetto acustico delle parole: ripetere a cantilena una frase fino ad avvilupparne i suoni, a girarli come fossero una trottola finché il suono mescolato non generava nuove parole (a volte di senso compiuto), composte a catenaccio dalle sillabe finali dell'una unite con l'inizio di un'altra parola.
Erano giochi solitari e mentali che attraversarono la mia infanzia.
Un mio amico ritiene che in me ci sia una dose di autismo.
Può darsi.
Sono stata una bambina cordiale che, tuttavia, ricercava momenti di solitudine.
Del resto, l'infanzia trascorsa a Belfast, negli anni Settanta dello scorso secolo, non lasciava molto spazio alla socializzazione.
La mia famiglia viveva a Short Strand, nell'enclave cattolica di Belfast Est.
Avevo sette anni nel 1970 quando rimanemmo prigionieri per due giorni nella Chiesa di Saint Matthew, assediata da estremisti protestanti.
Ero lì con mia nonna per recitare il rosario, al vespro.
D'improvviso sentimmo sparare, era l'IRA contro i lealisti dell'Ulster.
La polizia e l'esercito britannico non intervenivano.
Il sacrestano sbarrò il portone della Chiesa, evitando per un pelo un proiettile.
Nonna e io ci nascondemmo in confessionale, al buio.
Lì, seduta accanto a mia nonna, al posto del confessore, pensai che Dio potesse parlarci.
Ma c'era solo un grande silenzio di paura nel mio cuore e il frastuono delle esplosioni, delle sirene, delle grida provenienti da fuori.
In quegli anni, nel mio quartiere, le forze dell'ordine potevano fare irruzione in qualunque momento.
I cattolici erano a priori sospettabili di simpatizzare per le correnti eversive o di appartenere all'IRA.
Nei quartieri a maggioranza cattolica l'esercito imponeva il coprifuoco e aveva licenza di perquisire le case, alla ricerca di armi.
Dopo l'assalto alla Chiesa, l'IRA rafforzò la sua missione in difesa delle aree cattoliche e, così facendo, sparse il terrore legittimando la guerriglia armata in città.
Se eri nella parte sbagliata di Belfast, potevi facilmente prenderti qualche pallottola vagante.
L'anno dopo l'assedio di Saint Matthew, una bomba dell'organizzazione armata protestante, l'UVF, distrusse il pub di mio padre, a New Lodge, un altro quartiere cattolico a Nord della città.

 

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Immagine spiraliforme (Per leggerne la descrizione proseguire nel link). Una spirale di colori sui toni del rosso, del viola e del giallo.Particolare della spirale lato destroParticolare della spirale lato sinistro
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Nostra madre, in attesa di mio fratello, convinse mio padre a emigrare con quel poco di beni che ci restavano.
E così George nacque sei mesi dopo in un ospedale di Queens, a New York.
Abitavamo in una casa squallida ma che aveva un terrazzino, affacciato sul cortile interno.
E poiché insistetti nel voler partire con Pixie, il mio gatto rosso, mi piaceva che almeno il gatto avesse la sua indipendenza, perché dal terrazzino poteva scendere in cortile con la scala antincendio, in uno spazio protetto e lontano dalla strada.
La nonna non volle partire e restò a Short Strand.
La separazione dalla nonna fu un vero dispiacere.
Per ogni Natale e compleanno ci inviava abbigliamento di lana buona, irlandese, per lo più lavorato a maglia da lei.
Io annusavo quei maglioni che avevano l'odore di casa e segretamente piangevo.
Nostro padre aprì un piccolo pub che ci permetteva di vivere, ma con molte ristrettezze.
Nel quartiere di Queens gli irlandesi erano, per densità, la seconda etnia di immigrati di pelle bianca, dopo gli italiani e prima dei polacchi, dei russi e dei greci.
Sicché abbondavano le pizzerie italiane, le birrerie irlandesi, le bische e le sale da ballo dei russi e dei greci.
Anche se avevo solo nove anni, faticai a farmi accettare a scuola.
La mia provenienza e estraneità dagli altri era troppo evidente: per il mio nome, Fiona, smaccatamente irlandese, per i miei capelli rossi, per le mie trottole, per la balbuzie (che mi venne dopo il trauma subito nella Chiesa) e per la mia solitaria stravaganza che includeva i giochi di parole, giochi con il mio gatto e sistemi numerologici segreti.
Questi ultimi, non so dire come e quando, si radicarono nella mia mente.
Andavo da sola a scuola, che era a circa un miglio e mezzo da casa.
Agli incroci dei semafori, aspettando il verde pedonale, non riuscivo a staccare la mente dai numeri delle targhe delle auto.
Li anagrammavo, li associavo a colori, a suoni.
Queste irrazionali equazioni avevano prodotto un vero e proprio sistema computazionale il cui risultato veniva associato ad una specie di tabella divinatoria, da me concepita.
Sicché, l'osservazione di una sequenza numerica, in funzione del suo risultato, poteva darmi un responso.
Formulavo una domanda, poi cercavo numero in giro che trattavo nelle mie procedure e infine avevo un risultato numerico, sicché alla domanda iniziale potevo ricavare un sì, oppure un no, oppure indicazioni ulteriori circa la probabilità o circostanza relativa alla domanda in oggetto.
E i numeri che cercavo andando a scuola sembrava non sbagliassero mai!
Ad esempio, mi anticipavano gli eventi della mattinata: chiedevo circa l'esito di un compito, se venissi interrogata o meno, o su questioni di amicizia e di cuore.
C'erano periodi in cui il gioco divinatorio era quotidiano, mentre altri in cui me ne dimenticavo completamente.

George, mio fratello, crebbe in modo molto diverso da me anche perché aveva tutt'altra identità, molto più solida delle mia.
Il suo nome era ok, l'accento pure e i capelli meno rossastri dei miei.
Soprattutto era cittadino U.S. a prescindere dalla matrice irlandese.
Io adoravo George e purtroppo rimasi a casa con lui troppo poco tempo.
Ma il nostro rapporto era davvero intenso.
Io, la sorella maggiore di nove anni, e lui, affidato quasi completamente a me.
Nostra madre aveva aperto un piccolo laboratorio di sartoria e trascorreva molto più tempo davanti alla macchina da cucire che non con i suoi figli.
Fino a che restai a New York, prima di entrare nello storico Williams College nel Massachusetts, trascorrevo il sabato a Coney Island, piccola penisola a Est di Manhattan all'interno del territorio di Brooklyn.
I miei genitori si sacrificarono tutta la vita per far avere ai propri figli la possibilità di frequentare un college ma, finché non partii, buona parte del mio tempo era con mio fratello.

 

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Immagine del palmo di una mano. (Per leggerne la descrizione proseguire nel link). Si vede al centro il palmo di una mano tra punti di luce.Particolare di un punto di luce.Particolare della mano.
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Portavo George a Brighton Beach, la spiaggia di Coney Island, sempre ventosa e piena di gabbiani.
Era un posto magnifico dove fare surf e sognare le terre di origine, dall'altra parte dell'Atlantico.
Soprattutto, era molto lontano da Queens e questo lo rendeva ai miei occhi un posto ancor più magico perché si collocava nella trasognata regione dei luoghi remoti.
Coney Island era la patria dei russi immigrati, con i loro locali caratteristici sulla spiaggia ma era anche la patria dell'hot dog che qui era nato, intorno al 1870.
Avevamo pochi soldi e cercavamo di sollevare nostro padre dalle preoccupazioni economiche; per questo evitavamo di chiedergli extra e mi davo da fare per rendermi autonoma.
La mia gioia era avere i soldi della metropolitana, qualche spicciolo per un hot dog e per l'affitto di due tavole da surf per George e per me.
Ma fu mio fratello, in modo del tutto inconsapevole, a determinare la nostra autonomia finanziaria.
A soli otto anni, un giorno era entrato nella cartoleria sotto casa e mi aveva comprato un mazzo di tarocchi.
I miei diciassette anni furono sufficienti per capire che si trattava di un segno che prescindeva dalla scelta del bambino il quale, senza motivo, perché non era né Natale né il mio compleanno, volle fare un regalo a sua sorella che era costato l'intero ammontare del suo salvadanaio.
Imparai a leggere le carte con l'aiuto di un libro e con molta fantasia.
Il rapporto numeri-divinazione mi esaltava e avevo preso dimestichezza con il gioco divinatorio tanto da farlo diventare un business.
Il sabato pomeriggio a Brighton Beach allestivo un banchetto per la lettura delle carte mentre George giocava con gli altri ragazzini.
Una domanda alle carte: quindici dollari; due domande: venti dollari.
Le letture andavano a gonfie vele, assieme alle folate di vento che portavan via le carte, anche quando le fermavo con le conchiglie raccolte nella sabbia.
I russi erano i miei più facoltosi clienti.
Il boss della spiaggia, Vasilij, mi dava il doppio dei soldi per fare riservatamente le carte nel retro del suo negozio.
In breve, avevo messo da parte un bel gruzzolo che continuò a crescere quando spostai la lettura della carte in Massachusetts, ovviamente fuori dal College.
Le previsioni ci prendevano: a quanto pareva avevo raggiunto un livello previsionale ragguardevole... e quando avevo un dubbio interpretativo c'era sempre qualche numero captato in modo randomico a darmi conferma della lettura delle carte.
Quando mi diplomai in storia dell'arte al Williams College avevo già messo da parte la bellezza di venticinquemila dollari: una cifra iperbolica per me!
Con quei soldi pensavo di realizzare il sogno: tornare con mio fratello in Irlanda.
Ma ebbi un colpo di fortuna.
Il College era interessato a sovvenzionare la mia ricerca per tre anni: avrei potuto continuare a studiare a Venezia l'arte del vetro in epoca rinascimentale!
Si avverava la prima condizione del mio sogno: tornare nel Vecchio Continente!
Senza dubbio la destinazione italiana accorciava le distanze con l'Irlanda, con Belfast, con la nonna diventata molto anziana.
Erano trascorsi diciannove anni dalla nostra partenza.
In quegli anni, gli episodi di sangue e terrore si erano intensificati e la nonna praticamente non usciva più di casa.
Le notizie relative al terrorismo irlandese le apprendevamo dai giornali e dalle lettere della nonna che sempre meno di frequente sentivamo al telefono perché, diversamente da oggi, le chiamate intercontinentali erano molto costose.

 

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Immagine di un occhio (Per leggerne la descrizione proseguire nel link). Ravvicinata su un occhio di colore azzurro attraverso una superficie frammentata.Particolare dell'occhio lato sinistro.Particolare dell'occhio lato destro.
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Dal giornale venimmo a conoscenza dell'attentato dell'IRA che passa alla storia come Bloody Friday, avvenuto un anno dopo la nostra partenza: l'esplosione quasi simultanea di ventidue bombe che deflagrarono nel centro di Belfast nell'arco di ottanta minuti.
L'amica più cara della nonna perse la vita in questo massacro.
Con una media di due o tre attentati l'anno, l'IRA e i gruppi eversivi contrapposti continuavano a seminare terrore nell'Irlanda del Nord così come nel resto del Regno Unito.
Ciononostante, l'idea di tornare in Irlanda non fu mai sopita e continuavo a sognare un futuro nel mio paese.
Quando partii per l'Italia il distacco da George non fu facile.
Promisi a mio fratello che, non appena avesse finito il liceo, avrei impiegato tutti i miei risparmi per la sua iscrizione presso un college britannico.
Avrei aiutato mio padre a sostenere le spese extra che avrebbero comportato questa scelta.
George avrebbe avuto un'istruzione eccezionale che gli avrebbe facilitato l'apertura di tutte le porte verso il rimpatrio.
Mi sembrava una maniera giusta per investire il mio capitale, per costruire un futuro, in prospettiva, per entrambi.
Gli anni a Venezia furono magnifici.
Tutti gli americani sognano una soffitta sul Canal Grande... io invece mi accontentai di quaranta metri quadri a Mestre.
Ma era una casa, la mia casa!
Mi iscrissi subito a un corso intensivo di italiano.
Molti madrelingua inglese che conducono una vita all'estero non sentono la necessità primaria di imparare la lingua del luogo perché conoscono la lingua comune con cui comunicano culture e società della nostra era: l'inglese.
Il mio caso era diverso.
Io volevo, dovevo integrarmi.
Non solo avrei dovuto apprendere l'italiano e il latino per studiare la documentazione storica per la mia ricerca, ma avrei dovuto apprendere la lingua della gente se avessi voluto - e volevo - instaurare un giro di clientela per la lettura delle carte.
Posticipai di sei mesi il mio trasferimento per frequentare un corso intensivo alla scuola italiana di Brooklyn.
Quando arrivai a Venezia, sapevo sostenere una conversazione basica e potevo leggere articoli e saggi, almeno con la comprensione del contesto.
Dopo altri sei mesi di permanenza, fui in grado di organizzare un banchetto.
E i clienti non tardarono a venire.
Il primo investimento tratto dai miei risparmi fu tornare in Irlanda per il Natale del 1990.
Decisi di trascorrere le feste con la nonna che non vedevo da dodici anni: allora fu lei a venire a Queens, mentre dopo diciannove anni ero io a rientrare a Belfast.
Avevo lasciato una città con gli occhi di una bambina mentre ora tornavo negli stessi ambienti della mia infanzia con la mente e il cuore di un adulto.
Trovai la nonna molto segnata in volto ma con uno sguardo sempre intelligente e fiero.
Anche le strade di Belfast erano segnate: si percepivano distruzione e terrore ad eccezione del porto, del mare, del Castello e degli orti botanici.
Ma ero a casa, mangiavo e bevevo irlandese, ma soprattutto parlavo gaelico ancora in modo fluente!
Avevo ritrovato la mia dimensione linguistica di origine e, con essa, il ricordo di quel gioco lontano che si perdeva nei ricordi della mia infanzia: la cantilena interiore delle parole mescolate dai suoni.
Quando ripartii per Venezia, alla fine della vacanze di Natale, lasciai la nonna con una rinnovata voglia di vivere: aveva perfettamente capito che ora poteva contare sulla presenza di sua nipote.

 

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Immagine di tre busti (Per leggerne la descrizione proseguire nel link). La figura stilizzata di tre busti su uno sfondo di cieloParticolare di un busto di fronteParticolare di un busto di profilo.
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Mi sembrò che Venezia e Belfast fossero congiunte dal filo invisibile dei miei pensieri così come, in modo altrettanto misterioso, mi sembrava fossero legati il gaelico e l'italiano.
Infatti la cosa veramente bizzarra fu, al mio rientro a Venezia, il ripresentarsi di quel gioco infantile, ora con parole italiane.
Nella versione italiana scopersi che il catenaccio dei vocaboli ripetuti veniva particolarmente bene perché, diversamente dal gaelico, produceva parole di senso compiuto.
Ad esempio, la ripetizione ritmata delle parole viTA e NAvi faceva balzare la parola TANA altrimenti nascosta tra le due.
Per le fredde e umide calli, con le spalle strette e le mani nella tasche del cappotto, modulavo le mie parole alla ricerca di catenacci enigmistici e con lo stesso ritmo scandivo l'incedere dei miei passi.
Lo studio sulle vetrate rinascimentali andò così bene che riuscii ad avere un secondo assegno triennale.
Grazie al mio livello d'italiano e di latino, oramai quasi perfetti, ero in grado di consultare le fonti e quindi di approfondire la ricerca.
Con molta astuzia riuscii ad avere anche una sorta di patrocinio a sostegno della mia ricerca da parte della School of European Languages, Culture & Society della prestigiosa UCL - University College di Londra, fondata nel 1826.
Praticamente mi pagavano il viaggio e la permanenza a Londra per tenere una summer school di dieci giorni sul tema della mia ricerca, nell'ambito del loro programma Made in Italy.
La proposta era a dir poco ideale perché sempre più si stringeva il cerchio attorno al mio obiettivo.
Il mio curriculum accademico stava andando avanti e viaggiava in parallelo con il business della cartomanzia che avevo ben avviato a Venezia.
Era questa una condizione ideale perché lontana dal Wilson College così come da Londra!
Il mio capitale cresceva e, come da sempre stabilito, avrebbe coadiuvato mio padre per l'istruzione di George in Gran Bretagna.
Sicché dopo il diploma della scuola secondaria George cambiò continente.
Non potrò scordare la mia emozione a Heathrow.
Il mio amato fratello arrivava, una mattina all'alba di un giorno di fine luglio del 1994, proveniente dal volo New York-Londra, con due valigie extra-large.
Sembrava tutto incastrarsi a perfezione: io ero a Londra per la summer school sicché lo avrei ospitato nel mio alloggio e poi George avrebbe proseguito per Manchester, dove lo attendeva il corso di Economia nella University of Manchester, numero uno per l'istruzione in scienze economiche e sociali.
A Manchester avevano insegnato due premi Nobel per l'economia: Sir John Hicks (Nobel nel 1972) e Sir Arthur Lewis (Nobel nel 1979) e in quegli anni aveva iniziato a lavorare il geniale Joseph Stiglitz (che successivamente vinse il Nobel nel 2001).
George era tanto spaventato quanto eccitato dalla sua nuova dimensione di vita mentre io ero assolutamente fiera di me e del risultato raggiunto.
In quel periodo sembrava tutto andare per il meglio e si respirava un clima molto positivo, anche da un punto di vista sociale.
Il 31 agosto 1994 l'IRA aveva annunciato la completa cessazione di tutte le operazioni militari e quindi nel Regno Unito sembrava fosse ristabilita un'idea di pace nazionale (anche se di lì a poco i venti del terrorismo ripresero a spirare).
Ma dal punto di vista della mia famiglia era un momento davvero felice: il coronamento del mio sogno aveva come ulteriore positiva conseguenza la possibilità per George di conoscere sua nonna.
Da Manchester non era difficile raggiungere Belfast.
Con poco meno di un'ora di treno fino a Liverpool e una notte in traghetto, George poteva ricongiungersi alle sue radici familiari.
La nonna se ne andò serenamente tempo dopo, morì nel sonno, felice dell'amore di suo nipote che aveva finalmente conosciuto.
Nel 1996 George continuava brillantemente i suoi studi e io avevo nuove occasioni per soggiornare in Gran Bretagna.
La University College mi aveva chiesto di tenere un corso di storia dell'arte rinascimentale italiana e io avevo colto quest'occasione a piene mani.
Con le mie trottole in tasca, mi dividevo tra Venezia e Londra, passando in treno per Manchester.
A Venezia mandavo avanti il banchetto delle carte anche se ora avevo diverse e più onorevoli entrate che mi consentivano di aiutare George e mettere da parte un po' di soldi.
L'obiettivo era ora ristrutturare la casa della nonna per futuri sviluppi: trasferirci nuovamente a Belfast oppure vendere la casa a un dignitoso prezzo e comprare altrove...
In realtà, per quanto riguarda la mia vita segreta da cartomante, non si trattava solo di soldi perché sentivo che esercitare la cartomanzia era importante per tenere allenato quel canale irrazionale presente in me fin da bambina.
E la lingua italiana, non so perché, si era completamente collegata con quest'aspetto tanto che tutte le mie elucubrazioni irrazionali interiori erano oramai declinate in italiano.
Nel giugno 1996 mi trovavo a Manchester per via di un congresso organizzato dalla School of European Languages della University College di Londra.
La scelta della località era stata determinata dalla presenza dei campionati europei di calcio a Manchester; campionati attorno ai quali la città aveva cercato di proporre una serie di eventi, d'interesse europeistico, anche in altri settori quali la cultura e lo spettacolo.
Insomma, Manchester si stava proponendo come capitale europea.
Il 15 giugno 1996 era un sabato soleggiato e caldo.
Avevo appuntamento con George in pieno centro.
Non eravamo interessanti alla partita di calcio che si sarebbe svolta nella giornata ma, banalmente, a fare shopping: dovevamo trovare il regalo di anniversario per i trenta anni di matrimonio dei nostri genitori e pensavamo di trovare qualcosa in Market Street.
George arrivò baldanzoso, aveva lo stesso modo di camminare come quando era bambino.
Io lo aspettavo davanti a un caffè italiano, all'angolo con Corporation Street, da cui proveniva il suono, non perfettamente chiaro, di una radio di lingua italiana.
Dapprima si sentivano echi di canzonette e poi le parole di un notiziario, frammiste a un fruscio di fondo, che acusticamente si interposero nella nostra conversazione.
Mentre George parlava e mi diceva di un certo negozio lì vicino, feci caso a uno stralcio di notizia:
"...Scioperi colossali... no corporation per i coloni e i coltivatori diretti."
A un certo punto, mentre mio fratello continuava a parlare, ebbi una strana sensazione che mi estraniava dalla situazione reale.
Con un senso di vertigine stavo facendo trottolare a grande velocità i suoni compresi nella frase ascoltata che diventò, al netto di alcuni scarti sillabici.
"Sciò! Pericolo, no corporation, pericolo!".
Rabbrividii: era un avvertimento!
Dissi subito a mio fratello di NON VOLER ANDARE A CORPORATION STREET.
Istintivamente lo afferrai per un braccio e mi avviai a passi svelti in direzione opposta.
Più lo strattonavo e più George non capiva.
Attraversai la strada in modo un po' sconsiderato e una macchina frenò davanti a noi.
La mia attenzione fu catturata dalla targa e nella mia testa ne frullai le cifre.
Risultato: 66 + 16 ovvero TOTALMENTE NEFASTO!
In preda al panico, mi misi a correre.
George mi correva dietro, senza capire.
E urlava, dicendomi se fossi impazzita o... cosa?!
Ma io non rispondevo, correvo e basta, come un animale fuori controllo, costringendo mio fratello a seguirmi.
Poi sentimmo un boato e uno spostamento d'aria che ci proiettò in avanti.
Io caddi in terra svenuta.
Quando mi riebbi, George era accanto a me, pallido e tremante.
La gente scappava e urlava, le macchine si fermavano in mezzo alla strada: il panico era generale.
Io mi rialzai e continuammo a scappare: avremmo appreso più tardi dell'accaduto.
Un camion-bomba dell'IRA era esploso a Corporation Street, sventrando le strade.
Lo sentimmo in televisione, seduti in un pub, ammutoliti, davanti a due birre.
Io frugai nella tasca della giacca, la trottola era ancora lì.
La feci roteare sul tavolo di legno.
Eravamo vivi!
Nel dubbio se dire o non dire a George della mia premonizione linguistica, rilanciai una seconda volta la trottola e teneramente gli sorrisi.

 

 

 

 

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