14 febbraio 1899... dal diario del capitano Adrien Victor Joseph de Gerlache de Gomery della Marina Militare Belga.
Sono le ore due della notte, minuto più o minuto meno, di una ordinaria e intramontabile giornata di sole antartica.
Ogni sera la nostra amata Stella Madre sembra che sia sul punto di andarsene; la osservo indugiare in basso pronta a sparire oltre la curva terrestre, e invece è come se ogni volta ci ripensasse, in attesa di un ordine celeste che non arriva.
E quando arriverà, perché arriverà, sarà buio per tre mesi di filato.
In Antartide per la maggior parte all'anno è così, e ogni ora, ogni momento della giornata o della nottata può essere scambiato per il mattino, il pomeriggio o la sera.
Se non ci fossimo imposti un po' di ordine, ora vivremmo nell'eterno indefinito, sperduti nell'incertezza, senza più punti di riferimento.
In questo preciso momento, nonostante la luce, sono le due della notte e i miei uomini dormono profondamente nelle loro amache, avvolti nelle maleodoranti pelli di foca, stretti come bozzoli, circondati da un intero continente: l'intero Antartide...
"Neanche un albero in vista, né un cespuglio abbastanza grosso da ricavarne uno stuzzicadenti", lo diceva James Cook più di un secolo fa, dopo aver visto per la prima volta gli orizzonti che ora mi circondano.
Lo scorso anno abbiamo affrontato un mostro assai più terribile della luce, un terribile mostro dalle fauci nere.
La notte calò improvvisa: un lenzuolo nero steso sul ghiaccio dalle mani di Dio. Una coltre buia, assoluta, simile al sospiro venefico di un vulcano.
Passammo tre mesi nel buio profondo, intrappolati nel nulla, più lontani del nulla, a contare giorno dopo giorno i nostri morti, che trascinavamo a tentoni nel ghiaccio lontano dalla nave, accecati dal freddo e dalla paura.
Il ricordo dei volti di quei morti, bianchi come porcellana, che si confondevano con quelli dei vivi che li seppellivano, rimarrà indelebile.
Molti di noi non ce la fecero, morirono pochi giorni dopo il nostro malcapitato arrivo o nel corso dei mesi a seguire; ma altri sì.
Resistemmo con la sola forza della volontà e della disperazione; lottammo a mani nude contro il gelo che si incuneava tra i fasciami, strappandoli dalle travi come carta bagnata, contro l'inedia, lo scorbuto, il buio e ora la luce, bramata e odiata.
Abbiamo risposto colpo su colpo, riparando la nave, scavando canali intorno allo scafo che si richiudevano in una notte, ricacciando indietro ogni minaccia.
Eppure per me questa notte è diverso.
Dopo tanti mesi vissuti con l'unico desiderio di rifugiarmi nel sonno, lontano dalle penose incombenze, non riesco a dormire.
Siamo intrappolati in un punto sperduto del mare di Bellingshausen, non molto distanti in linea d'aria dallo scoglio solitario chiamato isola Pietro I, ma molto, molto più lontano di quanto sia possibile andare per un uomo.
La Belgica, la nostra regina ferita, resiste all'abbraccio mortale del pack.
Nessuno può spingersi fino a qui, intendo nessun essere umano; di conseguenza nessuno verrà mai alla nostra ricerca.
E' un'equazione semplice, il cui risultato è di una logica disarmante: ci siamo persi, forse per sempre e saremo presto dimenticati anche da Dio.
E se c'è una soluzione, se esiste da qualche parte un modo per uscire di qui e tornare alla vita, quella non si chiama Dio, si chiama cavarsela da soli.
Il pensiero che mi assilla però è un altro: anche se riuscissimo a disincagliarci, dove ci dirigeremmo per evitare di cadere di nuovo nella trappola dei ghiacci?
Qui intorno è tutto così, un mare bianco a perdita d'occhio.
Dopo più di un anno siamo ancora fermi, sopravvissuti alla notte polare, alla mancanza di cibo, alle cancrene causate dal ghiaccio, allo scorbuto che per poco non mi uccide, immobili, come se il tempo si fosse fermato e il suo scorrere si fosse congelato con tutto il resto.
Gli esercizi fisici che impongo ai miei uomini ogni giorno con gli sci per andare a caccia di pinguini dalle carni disgustose ma indispensabili, o facendo scavare canali attorno alla Belgica per rallentare per quanto possibile la stretta sullo scafo, possono ben poco contro la disperazione, non possono nulla contro la solitudine e la...
...cosa?
La follia?
Sì, proprio, intendevo dire, la follia.
La pazzia.
Questa mattina uno degli uomini guardandomi fisso negli occhi mi ha chiesto il permesso di abbandonare la nave e di raggiungere a piedi la sua città, in Olanda.
Sosteneva che se la sarebbe cavata.
E nei suoi occhi liquidi per qualche attimo interminabile ho visto riflessi i miei.
La follia è qui.
Anche ora, è qui, accanto a me.
Ha assunto le sembianze di un gatto ed è acciambellato ai miei piedi, sul tappeto della cabina che il destino mi ha concesso come ultima dimora.
Ho oscurato la finestra; l'ho coperta con le sudice pelli di pinguino, per non far entrare la luce e svegliare il gatto che dorme ai miei piedi.
La piccola fiammella del lume, alimentata dal poco grasso di foca che le concedo, vacilla turbata dai miei pensieri, come se questi fossero in grado di smuovere l'aria.
Oggi sento che la vita può spegnersi da un momento all'altro: sarebbe sufficiente un piccolo alito di vento, un soffio perdutosi tra le fessure del legno.
Basterebbe un...
Bussano alla porta.
"Chi è?
Chi mi disturba?
Non sapete che sto dormendo?
Tutti sulla Belgica dormono a quest'ora."
Bussano di nuovo alla porta.
"Entrate allora, cosa aspettate?
La porta è aperta."
La porta si apre cigolando sui cardini arrugginiti, amplificando il rumore dei venti in lontananza.
Istintivamente porto una mano sulla candela a protezione della fiammella, mentre una gigantesca figura, che si nasconde sotto strati di pelli ricoperte di neve, fa un passo sontuoso dentro la cabina.
"Chi siete voi?
Toglietevi quel mantello... insomma, fatevi vedere meglio alla luce del lume.
Siete uno dei miei marinai?
Chi potreste essere altrimenti?"
Poi lo sconosciuto si sfila l'ultimo strato di pelli che gli circondavano il volto, scuotendo la neve sul pavimento, pianta gli occhi su di me e dice:
"Il mio nome lo saprete, capitano de Gerlache, quando vi racconterò la mia storia."
"Io non vi ho mai visto sulla mia nave, dove vi nascondevate?"
"Nascondersi?", scoppia in una risata, "Non l'ho mai fatto in vita mia.
Nascondersi è da codardi."
"E cosa sono quelle carte che stringete al petto?", chiedo incuriosito.
"Queste carte...
Sapete, capitano? La carta di questi rotoli è ricavata dalla pelle di una gazzella, non è carta comune, è fatta per sfidare il tempo.
E io sono solo venuto per raccontarvi la mia storia."
Nella mia mente si fa strada l'idea che qualcuno dell'equipaggio mi stia giocando un brutto scherzo.
Se è così, quel qualcuno la pagherà cara.
"Signore, abbiamo raccontato tutte le storie del mondo qui a bordo, reali e immaginarie."
"La mia è una storia che non avete mai ascoltato, capitano."
"Siete un demonio?
Siete venuto a prendere la mia nave?
Se ci riuscite la nave è tutta vostra.
Ma non si muove, sapete?
La Belgica è paralizzata, povera regina, non va né a destra né a sinistra, né avanti né indietro, tanto meno in alto o, strano a dirsi, in basso, verso il fondo giù nell'oceano...
Ve lo dico nel caso foste voi veramente quel demonio a cui accennavo e non ci fosse nessun dubbio sulla via di ritorno."
"Non sono un demonio, tranquillizzatevi, e sappiate che in questo momento nella nave dormono tutti, nessuno può ascoltare le vostre parole da teatrante.
Ma avete ragione quando dite che sono venuto per prendere la vostra nave, con tutto l'equipaggio, compreso voi.
Prima, però, come dicevo, ho una storia da raccontarvi.
Una storia che dovete ascoltare attentamente, capitano De Gerlache."
"Immagino che la burla preveda anche questo", replico oramai disponibile ad ascoltarlo.
"Quanto dovrà andare avanti questa storia?
Come vi siete accordati con quegli scansafatiche dei miei uomini?
Sappiate che il tempo non mi manca e se lo scherzo è breve farò buon viso a cattivo gioco.
Tenete presente che ho l'eternità a mia disposizione, potrei rimanere seduto in questa posizione per sempre, anche dopo morto, in saecula saeculorum...amen.
Potete cominciare."
"Ascoltatemi attentamente, capitano.
Il mio nome è Muhiddin Piri Reis, nipote del famoso corsaro turco Kemal Reis.
Sono nato a Gallipoli tra il 1465 e il 1470.
Nessuno, tanto meno io, sa dirlo con precisione".
"Non è possibile", lo interrompo subito, "siamo nel 1899...
Voi ora avreste più di quattrocento anni."
"Non interrompetemi, capitano, per il vostro bene e quello del vostro equipaggio.
Da mio zio ho ereditato la passione per il mare.
Sono entrato giovanissimo nella marina ottomana acquisendo in seguito l'alto grado di ammiraglio."
La pelle sull'oblò si scosta leggermente e un raggio di sole mi investe.
"Dannata luce, dove eri durante la notte polare?
Dunque...", aggiungo sarcastico, "dicevate di essere ammiraglio, dovrei portarvi più rispetto."
Il pirata non raccoglie la mia provocazione e continua: "Furono gli anni dei grandi combattimenti navali contro le flotte spagnole, genovesi e venete.
Partecipai alle famose battaglie di Lepanto, coprendomi di gloria, mentre mio zio Kemal continuava incessantemente la cattura di navi nemiche nel Mediterraneo.
Nel 1501, durante una battaglia contro una flottiglia di sette navi spagnole al largo di Valencia, mio zio catturò un marinaio."
Dopo una lunga pausa chiedo: "Perché vi siete fermato?
E' tutta qui la vostra storia?"
"Costui", riprende a raccontare il pirata, "aveva con sé documenti importanti.
Una ventina di preziose carte nautiche.
Una di queste sembrava essere appartenuta a Cristoforo Colombo.
Forse era stata disegnata da Colombo in persona il quale raccoglieva tutte le indicazioni che marinai e gente di mare erano in grado di fornirgli."
Nella nave regna un silenzio inconsueto.
Nessun rumore, nessun brusìo dei presunti uomini insonni, né lo scricchiolìo dolente dei fasciami in lotta con il ghiaccio, o quello della banchisa che si frattura...
Solo il lamento cavernoso di Muhiddin, che scuote la testa mentre fissa il pavimento.
Un sonno improvviso mi aggredisce e rischia di gettarmi in un pozzo buio, mi aggrappo al bordo di un pensiero cosciente, un appiglio alla realtà.
"Poi mio zio, Kemal, morì", dice a un tratto il pirata, "era il 1511 e io ereditai tutti i suoi beni.
Feci ritorno a Gallipoli e iniziai a scrivere Il libro della navigazione.
Ma, soprattutto, ritrovai i miei appunti che usai per completare quell'opera cartografica che sarà per i posteri oggetto di dilemma insoluto."
"Mi dispiace deludervi", replico assonnato, "ma non ne ho mai sentito parlare.".
"Già, infatti passerà ancora un po' di tempo prima che l'umanità ne venga a conoscenza.
Nel 1513 disegnai la mia mappa, la carta di Piri Reis e nel 1521 completai il mio libro non senza aver ripreso il mare e combattuto contro gli egiziani tra il 1516 e il 1517.
Tra un secolo la Marina turca si ricorderà di me e intitolerà a mio nome navi e sottomarini."
"Muhiddin", sussurro lottando contro il sonno, "sappiate che di me e di questa nave presto si perderà il ricordo. Il vostro racconto è tempo perso, davanti a voi c'è un uomo destinato a morire; cosa se ne fa del vostro racconto un uomo con il mio destino?
Scusatemi ma all'improvviso sento solo un gran bisogno di dormire.
Dite ai vostri compari che lo scherzo è stato divertente e che in fondo l'ho apprezzato... un po' di svago bisogna pur concederglielo, non saranno puniti, lo giuro, ma ora per favore lasciatemi solo, devo dormire."
"Un'ultima cosa capitano.
Ascoltatemi attentamente, aspettate prima di abbandonarvi al sonno.
Il sultano entrò in contatto con me e conobbe il mio libro e i miei lavori cartografici.
Le mie carte nautiche entrarono nel palazzo imperiale di Topkapi a Costantinopoli.
E sarà proprio il passaggio al Topkapi a tracciare le vicende future di questo documento.
Perché è lì che saranno ritrovate fra 30 anni, nel 1929; mi avete capito capitano?
E' importante che voi lo capiate, è lì che dovranno essere ritrovate.
Il punto preciso è scritto sulle carte."
"Fra trenta anni, nel palazzo imperiale...", rido scuotendo la testa, "voi leggete nel futuro, siete un chiromante, forse? Nessuno conosce il futuro, mon amiral, e forse è un bene.
Ora però vi prego nuovamente di uscire, di raggiungere gli altri sul ponte e fare festa in mio onore ma senza di me, io... io vorrei solo dormire."
"Addio capitano de Gerlache, vi lascio riposare.
Ma guardate, la fiammella del vostro lume rischia di spegnersi.
Mettiamola qui, al riparo dal vento.
Addio... capitano. Fate tesoro di quello che vi ho detto."
Il pirata apre la porta.
Il rumore della bufera in lontananza riverbera nella cabina e io, oramai sopraffatto dal sonno, ho solo la forza di farfugliare qualche frase sconnessa.
"Solo una cosa... io... non ricordo l'anno in cui... era più di quattrocento anni fa... un'eternità."
Qualche ora più tardi, un giovane ufficiale della marina, il mio attendente per la precisione, entra nella cabina.
"Capitano, capitano, svegliatevi per amor di Dio".
"Cosa... cosa è successo?"
L'ufficiale tira un sospiro di sollievo: "Ah, meno male.
Vi ho trovato sul pavimento e per un momento ho pensato che foste..."
"Morto?
No, non lo sono.
Almeno non credo."
"Vi è successo qualcosa, capitano?", domanda l'attendente mentre mi aiuta a rialzarmi.
"No... assolutamente nulla.
Nulla.
Solo un brutto sogno.
Devo essermi addormentato sulla sedia e poi... beh.
Gli uomini hanno fatto baldoria questa notte, e scommetto che anche tu eri della partita..."
"Ma cosa dite, capitano?
Di quale partita parlate?
Gli uomini sono già al lavoro con le pale e i picconi, sulla neve, per sgomberare il canale".
"Già, già... il canale.
Bisogna tenerlo sempre aperto il canale, lavorare di giorno e la notte dormire"
"Vi sentite bene capitano?"
"Mi sento bene, ti ho detto.
D'altra parte, sono ben disposto ad accettare uno scherzo, se rimane nei limiti della decenza.
Serve a tirarci un po' su il morale."
Lo sguardo del giovane ufficiale sempre più perplesso si sposta sul piccolo scrittoio all'angolo della cabina.
Alza lo sguardo su di me e chiede: "Cosa sono queste carte sul vostro scrittoio, capitano?
Questi rotoli.
Non li ho mai visti prima."
"Carte?", replico cascando dalle nuvole, "Quali carte?
"Ah, quelle carte?
E ricordami tu, insomma, cosa vi è scritto su quelle carte."
"Se non lo sapete voi, capitano.
E' una carta strana al tatto, sembra fatta con la pelle di qualche animale. C'è disegnato il profilo di un continente, e..."
"E cosa?"
"E' delineato con una precisione topologica straordinaria, tutto il profilo della costa dell'Antartico.
Come è possibile?
Mai visto nulla del genere prima d'ora, ve lo giuro, capitano.
Sembra un documento molto antico, e reca una data."
"Leggila, dunque", gli dico cercando di reprimere la curiosità.
L'attendente mi fissa negli occhi, cercando di capire per quale motivo il suo superiore non sia a conoscenza di quella data, tanto meno di quelle straordinarie carte riposte sul suo scrittoio.
Ma non osa chiedermelo un'altra volta, scatenerebbe il mio imbarazzo e la mia ira, per cui si limita ad abbassare gli occhi e a leggere.
"Anno islamico 919, che se non erro corrisponde al gregoriano..."
"1513?", termino io la sua frase, con un filo di voce.
"Sì, esatto, 1513.
Ma comè possibile, capitano, che una terra ignota come questa, voglio dire l'Antartico, venga tracciata così nel dettaglio trecento anni prima della sua scoperta?
La spedizione dell'ammiraglio Cook, il primo ad avvistare il continente, risale a poco più di un secolo fa.
Non può esistere una carta così antica e così dettagliata.
Eppure, sembra vera."
Io non lo ascolto più.
La mia mente sta tornando indietro, fino alla notte appena trascorsa.
Ripenso alle parole del pirata: "Il regno di Salomone I... il Topkapi...
1929... per il vostro bene e quello del vostro equipaggio... sono venuto per prendere la vostra nave, con tutto l'equipaggio... compreso voi!"
Improvvisamente queste parole hanno un senso.
Erano degli inviti, erano la mano tesa dell'uomo di mare che salva i marinai dall'annegamento, erano il dio del mare, signore dei venti e delle onde...
L�ufficiale interrompe i miei pensieri: "Cosa dite, capitano?"
"Nulla... nulla."
"Capitano... da dove vengono queste carte?
Sono straordinarie, non credevo neanche che esistessero, e perché non le abbiamo consultate prima di... voglio dire, prima di finire qui."
"Taci", lo interrompo stizzito, "non le abbiamo consultate prima semplicemente perché prima non le avevamo.
Prendi quelle carte e raggiungiamo gli uomini, forza."
"Sissignore."
"Se usciamo da questo incubo", dico addolcendo i toni, "ricordami di fare un viaggio in Turchia, a Costantinopoli.
Dobbiamo rimettere a posto dei documenti di nascosto e tu mi aiuterai."
"Sissignore... dove ha detto signore?"
"A Costantinopoli.
Il punto esatto è scritto sulle carte.
Ora seguimi..."
Esco dalla cabina e, sotto un nevischio fitto e leggero, mi allontano sul ponte per raggiungere gli uomini giù allo scafo, ma faccio in tempo con la coda dell'occhio a scorgere il mio giovane impaurito attendente scuotere la testa, preoccupato per l'integrità mentale del suo capitano, ignorando che in realtà da quella notte il gatto acciambellato ai miei piedi non si sarebbe più svegliato.
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5 novembre 1899.
Diario del capitano della marina belga Adrien Victor Joseph de Gerlache de Gomery.
Riprendo solo oggi la penna e il calamaio, che avevo chiusi nel cassetto, per scrivere poche righe.
Il 15 febbraio riuscimmo a percorrere il canale che avevamo sgomberato nelle settimane precedenti; impiegammo un mese per percorrere 7 miglia, ma sapevamo esattamente dove andare, quali canali seguire; era tutto scritto sulla carta di Piri Reis.
Essere in possesso di quella mappa così dettagliata, ha centuplicato le nostre forze.
Il 14 marzo riuscimmo a liberarci dai ghiacci e poco dopo a conquistare il mare aperto e il dolce alternarsi del giorno e della notte.
Nel frattempo, le pelli di pinguino sono finite in mare, insieme alle loro carni disgustose.
Dalla cabina della mia indistruttibile regina norvegese ora vedo in lontananza la costa belga.
Tra poche ore attraccheremo al porto di Anversa.
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