Il cieco guida il vedente nella famosissima opera di Picasso del 1934 Minotauro cieco guidato da una bambina, appartenente alla Suite Vollard.
È un carboncino di una forza dirompente che, in una seconda versione, diventerà anche un'incisione.
Qui, il minotauro è alto, potente, sicuro, e posa la mano sulla testa di una bambina che, paradossalmente, sembra essere guidata da colui che è privo della vista.
Cammina dritto senza esitazioni, con fierezza e vigore, quasi a volerci dire che l'handicap non esiste.
Dirompente il messaggio del pittore.
Il minotauro cieco ha gli occhi levati al cielo, bianchi e vuoti.
La bambina ne è priva ed è impossibile non domandarsi chi stia guidando chi in quest'opera così forte.
La testa dell'animale è chiaroscurata, del corpo bianco è tratteggiato il contorno.
Uno sfondo tormentato e temporalesco ci racconta il nero di una notte perenne in cui il minotauro cieco vive, inesorabilmente.
Entrambi afferrano un bastone, ma è sempre il minotauro a determinare il percorso, proteggendo la bambina sotto il suo braccio muscoloso che ci indica la strada.
In realtà il minotauro guida tutti noi, tutti noi siamo quella bambina, perché tutti noi siamo poca cosa di fronte alla grandezza di quella figura mitologica.
Che ne è stato della furia, dell'aggressività, della brutalità di questa figura, la cui potenza distruttrice può essere devastante?
Si è improvvisamente fatta alleata dell'uomo?
È inaspettatamente diventata dispensatrice di dolcezza, di bontà d'animo, di solidarietà?
La bambina tratteggiata nell'opera del 1934 rappresenta forse tutta l'umanità con le sue debolezze, le sue incertezze, le sue carenze?
Lui, il minotauro, debolezze non ne ha e ci mostra prepotentemente la sua supremazia, ma lo fa con spirito solidale, mettendo da parte la sua proverbiale combattività.
Perché Picasso depone le armi in questo splendido disegno del 1934?
Sta forse riflettendo sul momento storico difficilissimo che l'umanità sta attraversando e che cambierà il corso della storia?
Sta forse dicendo all'umanità tutta che bisogna essere fratelli, accoglienti, che bisogna allearsi contro il nero che sta arrivando, per esempio, dalla non lontana Germania?
Il nero, il nazismo, la notte (ed ecco tornare il buio, qui rappresentato dalla cecità fisica, ma storicamente rappresentato da un buio morale, spirituale e culturale) avanzano pericolosamente.
Il 2 agosto del 1934, Adolf Hitler si autoproclama Führer.
L'opera di Picasso è dello stesso anno.
Impossibile non pensare che l'artista non sia fortemente segnato da ciò che succede nel mondo, a pochi passi dalla sua amata patria.
Forse il nero di cui si tinge l'Europa è un po' anche in quest'opera, e il grido d'aiuto che Picasso leva al cielo (come il minotauro, suo doppio) è il grido di un intero continente.
E chissà, forse la solidità del minotauro che, nonostante manchi della vista, cammina dritto e deciso, vuole rappresentare la fiducia di Picasso nel futuro, in quello che verrà dopo la bufera storica e morale che sta travolgendo l'umanità.
Picasso ci regala quindi, con questo carboncino, un messaggio di speranza?
Noi uomini, costretti alla cecità dal corso della storia, dobbiamo continuare ad andare avanti e credere che questa notte passerà.
Il minotauro cammina eretto e deciso e noi dobbiamo fare lo stesso.
Tori e Minotauri hanno costellato la carriera artistica di Picasso.
Perché?
Cosa rappresentavano per questo genio della pittura e della scultura?
"Se tutte le tappe della mia vita si potessero rappresentare come punti su una mappa uniti tra loro da linee, il risultato finale sarebbe la figura del minotauro", disse un giorno.
In effetti, la figura mitologica tanto amata compare nelle sue opere dal 1928 fino alla sua morte, nel 1973.
In lui Picasso vedeva un altro se stesso.
Questa figura ne era veramente il doppio.
Seppur cieco, è Picasso (cioè il minotauro) a dirci dove dobbiamo andare, lasciando poco spazio alla nostra iniziativa e alla nostra immaginazione.
E' l'artista che guida il gioco ed è giusto che sia così perché è lui che si espone, che si mostra al mondo senza alcuna protezione gridando il suo io all'umanità.
Picasso non vuole che ci distraiamo e non vuole che stiamo tranquilli.
Questo, d'altra parte, è il compito degli artisti.
Ricordarci continuamente che, mentre noi siamo affaccendati in mille attività terrene, mentre ci occupiamo di ciò che è pratico, che riempie la nostra vita e le ore delle nostre giornate, intorno c'è un mondo fatto di pensiero, di bellezza, di orrore, di impalpabile che non è meno importante.
"La pittura non è fatta per decorare gli appartamenti.
E' uno strumento di guerra offensiva e difensiva contro il nemico"... offensiva e difensiva, dice Picasso.
L'artista è la sentinella che ci riporta continuamente a un mondo alto e altro, costringendoci a riflettere.
Anche solo fermandoci a guardare un quadro, in questo caso un carboncino, dove una figura mitologica è carica di messaggi di pace e di forza insieme.
Istinto e raziocinio lottano fra loro e generano l'artista Picasso.
Ovviamente non possiamo sottovalutare che Picasso è spagnolo e il toro è l'animale che più di tutti rappresenta la Spagna, non solo per l'immancabile corrida.
La corrida è un capitolo che Picasso affronta, naturalmente, ma l'animale è presente nella sua vita e nel suo pensiero, in ogni sua declinazione, fino al minotauro.
L'uomo spagnolo, secondo una dichiarazione che il pittore fece a Malraux, è buon cattolico alla messa del mattino, amante della corrida nel pomeriggio e assiduo del bordello alla sera.
Devozione, passione, istinto, furia ed espiazione: sono questi gli elementi che Picasso mescola nelle sue molte opere.
Nella corrida, infatti, il toro forte e aggressivo diventa vittima sacrificale: furia ed espiazione, appunto.
Il turbinio di sentimenti che l'artista prova e vive in prima persona sono perfettamente rappresentati dall'essere leggendario a lui tanto congeniale, il terribile, aggressivo minotauro, figlio di Pasifae e del Toro di Creta.
E, a conferma dell'amore di Picasso per il toro, c'è la sua ammirazione sconfinata e quasi infantile per Luis Miguel Dominguín, indimenticabile torero.
Con una modestia un po' sospetta, in odore di vezzo e di paradosso (considerata la debordante personalità di Picasso), parlando della capacità di Dominguín nell'arena, disse:
"Quella sì che è arte!".
Il grande torero firmò la prefazione del libro: Toros y Toreros, confermando che il legame fra di loro era veramente sentito.
Eppure, curiosamente, i due professavano una reciproca timidezza nell'approcciarsi vicendevolmente.
Dice Dominguín:
"Ho l'impressione che se io combattessi per lui e lui dipingesse per me, verrebbe meno la nostra relazione personale e ci lasceremmo trascinare sul piano professionale".
E Picasso è d'accordo, al punto da mostrarsi pudico nel rapporto col torero.
Stupisce questa ritrosia in un artista dirompente come Picasso.
Non l'ha certo avuta, per esempio, con le donne, che ha frequentò abbondantemente, collezionandole una dopo l'altra.
E' sempre del 1934 il coloratissimo Corrida, olio su tela che rappresenta la lotta strenua tra un cavallo e un toro.
Il cavallo sembra soccombere (e come potrebbe essere diversamente?), l'immagine è violentissima, dura, gridata, ma il colore, piatto e vivido, regala una suggestione d'infantilismo alla tragedia che si sta consumando.
Forse anche qui Picasso vuole rappresentare l'eterna lotta tra i sentimenti più primitivi e brutali e una sorta di bellezza ingenua e innocua, proprio come nel Minotauro cieco guidato da una bambina?
Avvicinare la spaventosa e feroce figura mitologica a una giovanetta è provocatorio quanto rappresentare lo scontro sanguinoso tra un toro e un cavallo adoperando il rosa, l'azzurro e il giallo, come avviene in Corrida.
Ma Picasso è provocatorio, lo sappiamo.
Anzi, è una provocazione in carne e ossa.
Il toro non può mancare anche nella più famosa delle opere di Picasso: Guernica.
Guernica è un grido straziante.
E', pare, l'opera d'arte più famosa del secolo in cui è stata realizzata.
E anche la più controversa.
Celebrata per decenni come omaggio commemorativo alla cittadina spagnola omonima bombardata dall'armata tedesca nel 1937, negli anni successivi ha fatto capolino anche una tesi decisamente meno onorevole per l'artista.
Esiste infatti una voce che ci dice che la tela di 3,51 metri per quasi 8 metri di lunghezza sia stata creata dal famoso pittore in onore di Joselito, un famoso torero che perse la vita in una corrida.
Joselito era molto giovane quando un toro lo uccise con una cornata in pieno stomaco, provocando lo sconcerto e il dolore di moltissimi spagnoli che accorsero in massa al suo funerale.
La morte di Joselito colpì e addolorò a tal punto Picasso,nche realizzò l'enorme tela per omaggiarlo in gran pompa.
Ma, quando, nel 1937, in piena guerra civile spagnola, chiesero a Picasso un'opera per l'Esposizione Universale di Parigi del 1938, sembra che lui sostituisse rapidamente la dedica scegliendo proprio la grande tela come perfetta commemorazione dei molti defunti che il bombardamento della Luftwaffe aveva provocato.
È verità?
È bugia?
Magari non conosceremo mai la vera storia di Guernica, ma è innegabile che la potenza dell'opera travalichi il motivo della sua nascita.
Se Picasso la creò per celebrare un torero o una cittadina rasa al suolo, ai fini della fruizione di noi comuni mortali poco importa.
Guernica esiste, e anche lì c'è un toro che ci riporta all'io picassiano.
Il toro di Guernica non è però furioso come il minotauro.
Il toro di Guernica assiste allo scempio del dolore di cui la tela è imbevuta.
In teoria questo ci porterebbe a privilegiare la tesi che vuole l'opera come celebrazione di un paese brutalmente bombardato, più che come lamento funebre del torero Joselito.
In questo secondo caso, infatti, ci aspetteremmo forse un toro più attivo, più protagonista.
Più cattivo, magari, essendo il vero e unico responsabile della morte del matador.
Ma queste sono supposizioni che lasciano intatto il dubbio sul motivo per cui Guernica è nato.
In definitiva, sono chiacchiere.
La potenza dell'opera c'è e trova la sua ragione d'essere nell'esistere, punto e basta.
Tori, Minotauri, Corride, Tauromachie.
Quasi come i celeberrimi Arlecchini di un altro periodo creativo dell'artista, questi animali, veri o mitologici, sono un marchio di fabbrica di Pablo Picasso.
Dobbiamo perciò considerare anche la Minotauromachia del 1935, un'acquaforte piena di sentimenti contrastanti.
Anche qui c'è la figura di una ragazzina innocente, pura, quasi una bambina.
A dispetto della moltitudine di figure drammatiche che popolano questa potentissima incisione, la bambina giganteggia con la sua calma sul dramma che viene rappresentato.
Il minotauro straziato, il cavallo che porta in groppa la donna che tenta di uccidersi con la spada, le figure femminili nere come nubi che incombono sull'azione, tutto viene illuminato dall'innocenza della giovane con la candela in mano e il mazzo di fiori.
In quest'opera dolorosa e cupa le figure femminili sono determinanti.
Rappresentano la morte, il maligno compiacimento del dolore altrui e la splendida purezza e limpidezza, incarnate, appunto, dalla bambina che porta la luce in quel mondo di dolore urlato, all'apparenza invincibile e inevitabile.
Tanti stati d'animo, tante nature diverse, altrettanti modi di vedere la donna.
E, forse, la giovane Marie Thérèse Walter, sua amante proprio in quel periodo, dal 1927 al 1935, vive nella candida ragazzina che troviamo in Minotauromachia.
L'inquieto artista, lasciò la moglie, Ol'ga Chochlova, per questa modella francese che abitava vicino a lui e che vide nel genio spagnolo il padre che le era mancato.
Ma fu a sua volta abbandonata per la fotografa e modella Dora Maar, di cui Picasso s'innamorò e con la quale ebbe una relazione.
Irrequieto Picasso.
Irrequieto come i tori che tanto amava e che non si stancava di rappresentare, anche nelle ceramiche del suo ultimo periodo.
Infatti, per più di vent'anni, Picasso creò piatti, brocche, vasi e oggetti di varie fogge in questo materiale apparentemente meno nobile, che lo colpì come un fulmine nel 1946 mentre visitava la mostra annuale di ceramica a Vallauris, in Francia.
Lì conobbe una nuova passione e, come sempre prolifico e generoso, ci lasciò una collezione di oltre 600 pezzi in edizione limitata, oltre a molti pezzi unici.
E, ovviamente, anche qui non potevano mancare i tori, rappresentati magistralmente con la sintesi di un tratto sapiente e dinamico.
Matador, corride, tori potenti e scalpitanti sono fra i soggetti preferiti delle ceramiche di Picasso.
E' del 1948 il bellissimo Taureau dans l'Arène in ceramica invetriata.
L'animale fiero e immobile attende il sacrificio in un'arena piena di persone indistinguibili, stilizzate, figure tutte uguali che celebrano il protagonista indiscusso: il toro.
La disposizione degli astanti lo circonda e, in qualche modo, lo imprigiona.
Ma la grandezza è nella sua forza e il suo essere preda stride con la maestà del suo corpo statuario.
Taureau dans l'Arène è , come moltissime opere di Picasso, un prodigio di sintesi.
Profilo, del 1956, rappresenta sì un profilo, ma non di un essere umano, bensì di un toro.
Un bel toro su ceramica, nero su bianco.
Questo toro è mite, diremmo affettuoso, con uno sguardo interlocutorio, quasi umano.
Ha perso tutta la potenza del minotauro degli anni precedenti.
I bellissimi Tori su ceramica del 1951, invece, si godono una meritata immobilità, dopo essere stati per tanti anni protagonisti spesso sanguinari delle opere del maestro.
Forse Picasso stesso ha perso un po' di furia, ancorché creativa?
Pare che la ceramica sia stata per lui una scoperta pacificante, dispensatrice di entusiasmo infantile, tanto che si dice che il giorno stesso in cui mise piede nel laboratorio Madoura di Suzanne e Georges Ramiè a Vallauris, cominciò subito a creare, pur non avendo mai affrontato la lavorazione di questo materiale.
Ecco chi era Picasso: un bambino entusiasta e prolifico di creatività.
Uno spericolato dell'arte.
"Se si sa esattamente che cosa si farà, perché farlo?", sentenziava convinto.
Per concludere questo viaggio dentro e fuori uno dei più grandi artisti del nostro tempo, non possiamo non citare un'opera che sposa perfettamente il concetto di sintesi col tanto amato toro.
Tra il 1945 e il 1946 Pablo Picasso si dedicò all'opera El toro dove, sottraendo dettagli di disegno in disegno, produce una stilizzazione in sequenza della figura dell'animale di grande efficacia e forza grafica.
Partendo da un disegno molto realistico di un possente toro, semplifica il disegno stilizzandolo sempre di più.
Così quel toro tanto riconoscibile, a poco a poco trasforma il suo aspetto senza perdere minimamente la sua identità.
Il toro rimane sé stesso nonostante tutte le linee che lo compongono mutino in funzione di un tratto sempre più elementare.
Sempre più semplice.
Attenzione: semplice, non semplicistico.
E allora ecco che un disegno che appaga lo sguardo di tutti, quello iniziale, dove ciascuno di noi non può non vedere il toro del titolo, alla fine diventa l'unione di pochi punti, un percorso di linee pulite ed essenziali.
E siamo di fronte all'arte primitiva.
Questa generosità didattica di Picasso è sorprendente.
Il suo prenderci per mano e condurci attraverso il processo di sintesi dell'arte è una vera e propria lezione che ci permette di fare un viaggio intorno ai suoi pensieri, ci fa entrare nella sua testa, ci fa capire quello che lui ha imparato nel corso della sua vita artistica fino a quel momento.
El toro è una visita guidata dentro Pablo Picasso.
"A quattro anni dipingevo come Raffaello, poi ho impiegato una vita per imparare a dipingere come un bambino".
Questo diceva di sé.
Ci vuole coraggio per scardinare le convenzioni e buttarsi nudi e impudichi in pasto al pubblico.
Ci vuole coraggio per provocare, e per non stancarsi di farlo.
Questa è la lezione di vita più importante che Picasso ci ha lasciato.
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