Una voce sabbia e colla




[Racconto di Paola Manoni]


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durata 21 minuti - Credits


L'inizio dell'estate non è un periodo particolarmente magico per New York e ai primi di quel giugno 1974 c'era già un caldo torrido.
Per la prima volta sbarcavo nel continente americano... ero in visita per affari: la promozione del mio album Diamond Dogs con cui si inaugurava il tour negli Stati Uniti e Canada.
Il pubblico oltreoceano non era facile da conquistare e per i miei agenti la mia popolarità era considerata ancora troppo europea.
Per entrare nell'empireo delle rockstar avrei dovuto conquistare l'America.
Le aspettative erano molto alte.
Questa tournée avrebbe dovuto fare spettacolo e quindi prestai una particolare cura alla coreografia.
Il produttore fece un ingente investimento per le scenografie: 275 mila dollari in cartapesta...
Atterrammo a New York in serata.
Il JFK, dove arrivai con tutta la troupe, mi apparve immenso.
Ben presto compresi che negli Stati Uniti tutto è più largo e più grande: i paesaggi ma anche le strutture architettoniche e gli oggetti: le sale di attesa, le toilette, le stanze di albergo, i cartelloni pubblicitari, le tazze di caffè.
Persino gli scontrini di cassa sono il triplo dei nostri e sono utili nelle tasche per prendere appunti.
Il nastro trasportatore alla consegna dei bagagli sputava a getto continuo valigie, bauli e gli strumenti musicali della band.
Ogni tanto si inceppava e le valigie si ammassavano cadendo fuori pista.
Coco, la mia efficiente segretaria, intercettava le nostre borse voluminose, tutte marcate con il logo della MainMan Records, la casa di produzione che pagava questo soggiorno di sei mesi.
Un energumeno giamaicano, con una maglietta free joint sotto la divisa da
lavoro e al dito un anello con il teschio, impilava tutte le nostre cose in un pesante carrello, un parallelepipedo a larghe maglie di acciaio.
Mia moglie Angie, con una smorfia e gli occhiali da sole neri, aveva la sua solita aria, lievemente malevola e provocatoria.
Tutti gli altri che viaggiavano con noi erano invece ancora in fila al controllo di frontiera in uno stanzone pieno d'umanità multicolore.
A me e alle due mie signore era stato concesso il privilegio dei VIP - un controllo passaporti riservato per ragioni di sicurezza sebbene a quel tempo non so quanti fans si sarebbero accalcati per avermi...
Non ero Bob Dylan e nemmeno Bruce, the boss...
Il pubblico americano era ancora tutto da conquistare.

Il taxi attraversò Manhattan e ci lasciò davanti allo sfarzoso Sherry-Netherland Hotel.
Avevamo una prenotazione fino a dicembre in una suite con vista e terrazzo sul Central Park.
Angie si tolse gli occhiali da sole e ammiccò un sorriso. Al centro del grande salotto con enormi finestre a giorno, moquette bianca, mobilio vittoriano e un impianto stereo di ultima generazione trovai un pianoforte a coda.
La scelta dello Sherry-Netherland era strategica per i nostri affari.
Era assolutamente facile attrarre qui il jet-set con un festino di droghe bianche, musica e champagne.
L'ampia alcova circolare nella stanza da letto, con vista sulla skyline dei grattacieli, avrebbe fatto il resto dell'attrazione.
Come per tutti, anche per noi fu indispensabile un periodo di ambientazione.
All'inizio provai a condurre un tenore di vita clean, salutista.
Mi illudevo che fosse un'ottima occasione per disintossicarmi dalle abitudini e dalle droghe.
La presenza di quel magnifico polmone verde che è il Central Park mi aveva ispirato delle colazioni vitaminiche e jogging nel parco.
Ma il vassoio di Coco per la mia abituale colazione a letto, a base di croissant francesi, succo d'arancia e caffè nero si accompagnò ben presto ad altre dosi mattutine e le corsette al parco durarono solo una settimana.
Ero un tossicodipendente, inutile trovare eufemismi.
Tuttavia ero impeccabile nel lavoro e puntualissimo alle prove.
Il 14 giugno il Diamond Dogs tour avrebbe debuttato a Montreal.
Mike Garson, il pianista, era proprio di New York e aveva trovato un posto perfetto per le prove, in uno degli immacolati brownstone di Brooklyn Heights, nascosto fra gli alberi potati, di fronte all'East River.
Cominciai a rilassarmi, a prendere il ritmo giusto e a godere la città.
Lavoravo e facevo il turista, bighellonando al Greenwich Village in cerca di sbornie e avventure sexy.
Il debutto a Montreal, in Canada, andò in modo strepitoso.
L'approccio teatrale del concerto fu assolutamente giusto: la critica canadese lo accolse entusiasticamente e apprezzò gli espedienti scenografici, enfatizzando l'uso della mia immagine riflessa in specchi.
A seguire, in ogni tappa del tour fu un tutto esaurito e la mia suite allo Sherry-Netherland si affollò di appuntamenti e di feste che Coco destreggiava in agenda.
Angie era come sempre una maga nel selezionare groupies di ogni sesso e colore.
Ma quello che accadeva di notte doveva al mattino sparire dalla mia vista.
L'unico risveglio gradito era con Mick il quale, con i Rolling Stones, aveva già sfondato a New York, due anni prima di me.
Io ero sempre sopraffatto dal suo look aggressivo e da quell'irresistibile glamour...
Jagger era presente in molte delle mie allucinazioni.
Lui era rosso... e io blu... lui era un cavaliere errante, il mio angelo che vedevo volare.
Mick era mefistofelico con le droghe: le gestiva con una disinvoltura da far paura.
La polvere bianca era la nostra prediletta... nella suite la tenevamo nel portacipria del bagno, per libero consumo nostro e degli amici.
L'angelo Jagger attraversava spesso i miei cieli.
Vedevo le sue ali rosse palpitare a mezz'aria e una volta cercai di aprire la finestra e volare anch'io.
Fortunatamente mi fermò: era sempre più lucido, in ogni cosa più avanti di me.
Nessuno osava commentare il nostro rapporto.
Angie ci trovava insieme la mattina e sapeva di non potersi intromettere in alcun modo fra noi; Coco invece mi portava la colazione, abituata a qualunque mia stravaganza.
Mick entrava nel mio letto, nella mia vita, e liberamente ne usciva, in una perfetta discontinuità voluta da entrambi...
Andava assolutamente bene così!
Il tour bruciava le tappe e io conquistavo a una a una le stelle e le strisce...
L'appuntamento con Los Angeles, a settembre, si svolse in una settimana al mitico Universal Amphitheatre...
Aver conquistato la California mi faceva stare bene!
Una mattina di ottobre stavo lavorando con Coco godendoci sul terrazzo dell'albergo la luce purissima del sole che infuocava il giallo e il rosso del fogliame del parco.
Iniziava la parte autunnale del tour e stavamo studiando l'agenda delle interviste.
Facevamo questo lavoro ascoltando la radio a volume basso che diventava solo un brusio a ogni suono di sirena proveniente dalla strada.


Si dice che il transito di un mezzo di soccorso a Manhattan sia ogni due minuti.
Tuttavia tra il nostro parlare e i rumori della città riuscirono a distinguersi chiaramente le note introduttive di Lay lady lay.
Rimasi in silenzio e non risposi alle domande che Coco mi stava rivolgendo.

Rimasi ancora assorto, cercando di ricordare l'anno della canzone.
Sì, Dylan la scrisse nel 1969, l'anno di Space Oddity...
"A quel tempo entrambi avevamo già chiuso con l'arte."
Vidi sul volto di Coco un espressione interrogativa, aveva ragione, non stavo spiegando il filo del mio pensiero.
"Dovrei raccontarti tante cose che non sai...
Ma forse è giunta l'ora... soprattutto perché siamo nel posto giusto per questa confidenza."

Mi tolsi gli occhiali e guardando le punte degli alberi del Central Park dissi:
"All'inizio pensi che la tua carica artistica debba solo esplodere e ti senti come un pezzo di artiglieria quiescente, senza un'orologeria programmata ma che deve bruciare qui e ora.
Poi comprendi che non è così perché devi mirare con precisione, fare tuo un genere, un'espressione specifica e allora concentri tutti i tuoi sforzi dove pensi di riuscire meglio.
Negli anni '60 essere creativi era un imperativo per la nostra generazione.
La musica poteva non essere tutto... e io volevo di più.
Frequentavo la Beckenham Technical School a Bromley e l'insegnante di arte era Owen Frampton, il padre del mio amico Peter, compagno di scuola.
Volevo emergere come artista; Owen non mi incoraggiava più di tanto ma nemmeno mi aveva fermato...
Quando provai a cimentarmi nelle arti visive fu un vero insuccesso, diciamolo pure.
Ma Owen mi fu sempre vicino... spinse Peter verso la musica e si propose di disegnare le cover per i miei tre album: Space Oddity, Hunky Dory e Ziggy Stardust della cui importanza non devo dirti...
Sai cosa mi accomuna a Bob Dylan?
Il fatto che entrambi abbiamo puntato sulla pittura, per incarnare il ruolo dell'artista, ma è andata male a tutti e due!
Nel 1966 Dylan ebbe un brutto incidente in moto.
Rimase immobile per diversi mesi durante i quali si mise a giocare coi colori.
Ma l'art therapy non genera creazioni d'arte... tuttavia Dylan decise di prendere lezioni di pittura da Norman Roeben... e come a me, anche a lui andò male."
"Ma perché mi racconti tutto questo?!"
"Passava una sua canzone alla radio..."
"Sarà... ma secondo me non è questo il vero motivo."
"E va bene!
Il motivo è che Dylan non è mio amico... non vuole esserlo!
Non ti sto a dire quante buche mi ha dato in passato... ora siamo nel suo paese, qui a New York da giugno, e ancora una volta non avrò modo d'incontrarlo..."
Questa conversazione con Coco scivolò via in una normale mattina di lavoro.



Passò del tempo, diedi ancora diversi concerti in giro per l'America, continuai a trangugiare droga con alcol e sesso ... e arrivammo praticamente alla fine dell'anno.
Il tour era finito il 1 dicembre ad Atlanta ma la nostra partenza era prevista dopo Capodanno.
Una mattina, portandomi come sempre il vassoio della colazione, Coco mi disse:
"Il 12 sera c'è Danna Gillespie al Reno Sweeney!"
"Reno Sweeney??! E' un posto che non conosco."
"Sì, è un night che va molto di moda al Village... è sulla 13a."
"D'accordo ma non è per questo locale che me lo proponi... no?"
"Posso combinarti un tavolo con i Manhattan Transfer, Bette Midler e Bob Dylan."
Là per là non dissi nulla.
Scostai il vassoio della colazione.
Mi sentii piccolo, piccolo nel mio letto circolare, ero rimasto ipnotizzato dalla parole di Coco.
Non dissi di no e quindi era un sì.

Il night era assordante e al tavolo si beveva molto. Provai a sorridere a Dylan ma lui non fu incoraggiante e non mi rivolse la parola. Mantenne per tutta la sera un atteggiamento distaccato e sospettoso.

"Penso che Dylan mi odi", dissi a Coco l'indomani, le raccontai dell'indifferenza di Dylan e lei provò a minimizzare, senza riuscire nel suo intento.
Finii la colazione e mi vestii con abiti caldi.
Era una giornata di sole, fredda e ventosa.
Angie non era rientrata e la suite mi sembrava un posto completamente estraneo e freddo.
Volevo uscire, stare all'aria aperta.
Mi trovavo bene a New York ma per la prima volta stavo desiderando di rientrare nella vecchia Europa.
Fermai un taxi all'incrocio con la 59a.
Volevo fare una passeggiata lungo l'Hudson per cancellare la delusione della serata precedente.
Il taxi mi lasciò non lontano da Battery Park.
C'erano dei pullman da cui scendevano gruppi di turisti, pronti a prendere il traghetto con destinazione Ellis Island e Statua della Libertà.



Attraversai il piccolo parco dove gli scoiattoli salivano e scendevano dagli alberi in cerca di cibo.
I cumuli di neve dell'ultima nevicata erano disordinatamente ammassati ai bordi delle strade e ancora non si scioglievano al sole per via di un vento gelido che spirava da Sud.
Prima di incamminarmi verso la pista ciclabile, che costeggia il fiume, diedi uno sguardo alle Torri Gemelle che svettano sfavillanti nel cielo azzurro.
Erano state inaugurate solo l'anno precedente e quando andai a cena alla torre Nord, al 107� piano, rimasi veramente impressionato da quella finestra sul mondo da cui si poteva sorvolare tutta la città.
Il percorso della ciclabile era molto frequentato dai newyorkesi sfaccendati.
Cani a passeggio e ragazze in assetto da jogging sfilavano veloci.
Un ragazzo in bicicletta si fermò davanti a me.
"Scusi... è lei, David Bowie?!?"
Non avevo la minima intenzione, quella mattina, di essere riconosciuto.
Il pubblico mi voleva, il tour aveva avuto un'eco impressionante e questo ragazzino ne era un sintomo.
"No, ma vorrei tanto avere i suoi soldi!"
Il ragazzo ascoltò ammutolito la risposta per poi balbettare una scusa e andare via di filato.
Questa battuta era più che sperimentata.
Me l'aveva insegnata John Lennon e io la trovavo geniale.
Non era solo negare l'evidenza, ma scoraggiare qualunque altra congettura.
Vorrei avere i suoi soldi rendeva evidente il fatto di non essere il fortunato miliardario VIP ma solo un verosimile povero diavolo...
Mi venne in mente un incontro casuale, assai simpatico, in piena Soho a Londra.
Ero al mercato della West End quando sentii alle spalle qualcuno che mi chiedeva:
"Scusi... è lei, David Bowie?"
Io enunciai meccanicamente la fatidica risposta...
Ma quando costui urlò: "Bugiardo!", mi girai di scatto.
Era proprio John che tra le risa aggiunse:
"TU vorresti avere i miei soldi!"
John era un vero amico, era unico... era un genio!
La prima cosa che feci a New York fu chiamarlo.
Lui mi invitò subito nella sua casa, al Dakota Building, il più misterioso edificio di Manhattan, con affaccio sulla 72a e sul Central Park West.
Dylan invece non voleva proprio fare amicizia.
E questo pensiero stava rendendo cupa la mia passeggiata.
Il vento faceva mulinelli delle foglie e agitava le acque dell'Hudson.
Alzai il bavero della giacca perché era molto freddo.
Dylan non mi aveva rivolto la parola né aveva accennato un minimo commento alla mia musica sul giradischi.
Un palese non mi piace avrebbe avuto un esito più facile da metabolizzare rispetto a tanta indifferenza!
Un ciclista passò lasciando una scia di musica emanata dalla sua radio, montata sul manubrio della bicicletta.
Erano le note della mia canzone...

Song for Bob Dylan

Ascolta questa, Robert Zimmerman
Ho scritto una canzone per te
Su uno strano giovane
Di nome Dylan
Con una voce come sabbia e colla...


La lacrima che mi scese sul viso era salata ma si asciugò immediatamente al vento freddo.
Avevo conquistato l'America ma non Bob Dylan!
Sarei partito senza avere di lui un buon ricordo e intavolai con me stesso un monologo interiore:
"Per me, Bob, rimarrai Robert Zimmerman.
Abbiamo condiviso il vino ma non la parola.
Hai solo taciuto.
Tu sì che sai gestire il silenzio!
Non una parola, come per il tuo album Blood on the Tracks, che hai appena registrato.
Tutti lo attendono e tu, argutamente, ne vuoi ritardare l'uscita.
Tu conosci come mandare in delirio il tuo pubblico ma resti imperturbabile.
Ehi, Zimmerman... Io ho scritto una canzone per te che forse non hai nemmeno sentito..."
E voi... sì, proprio voi che mi state ascoltando...
sapreste indovinare la parodia cui si allude nella mia canzone Song for Bob Dylan???

 

 

 

 

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