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Così, quando si giunse ad Asolo, il capitano Mai ci consegnò quattro scatolette per ciascuno, tanto per poter alleggerire il peso del carro.
Perché pure i cavalli non si reggevano più in piedi.
Venne la sera.
Io e un mio compagno, Andreoli di Modena, andammo da un contadino.
Aveva fatto la polenta.
Ci fecero festa e noi si approfittò della loro accoglienza.
Ci mettemmo a tavola e mangiammo una scatoletta per uno, sia io che il mio amico.
La sera di poi il Capitano ci mise in riga e volle vedere le scatolette che ci mancavano.
A ogni soldato che gliene mancava qualcuna lo faceva registrare dal furiere.
Là per là non ci disse niente, ma a sera ordinò di fare la tenda e passare alla prigione con quindici giorni di rigore.
In tutti eravamo 46, che ci mancava qualche scatoletta.
Io e Andreoli prima che ci dicesse della prigione eravamo ritornati da quel contadino che ci aveva invitato la sera precedente.
Quando il Capitano andò a fare l'appello ai prigionieri, gli si risultò mancanti.
Allora il furiere mandò due soldati a cercarci.
Ci trovarono e ci dissero quello che ci attendeva.
Il Capitano ordinò al tenente Giannuzzo che oltre i quindici giorni di rigore ci legasse alle ruote del cannone dalle ventitré alle due, per tre sere di fila.
Il capitano non tenne conto che le scatolette le avevamo trovate noi e che, se non si fossero prese, dopo qualche ora passavano nelle mani degli Austriaci.
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Non tenne conto che avevamo passato tanti brutti momenti e tanta fame.
Non pensò che quando ci eravamo messi in cammino per la ritirata eravamo centosessanta soldati, al completo della batteria, e al momento che ci ordinò di passare alla prigione eravamo restati solo novantasei.
In quel momento i servizi di guardia erano molti.
Così si accorse che, con quarantasei sotto la tenda, non poteva completarli.
Allora la mattina di poi mandò il sergente di settimana ad avvisarci che chi voleva fare servizio escisse fuori.
Così poteva usufruire del rancio, se arrivava.
Io per far piacere al capitano non volli escire.
Preferii mangiare pane e acqua.
Mi feci portare un quaderno e una matita e là, in quei quindici giorni, feci il mio diario della guerra.
La storia del cibo conservato e destinato ai soldati è lunga e ben precedente al conflitto mondiale.
Napoleone Bonaparte, condottiero attento anche agli aspetti più quotidiani della vita militare, fece personalmente indire un concorso per premiare i migliori cibi conservati e destinati ai soldati.
Il primo premio di 12 mila franchi andò allo chef Nicolas Appert il quale propose la bollitura dei cibi nella conservazione in barattoli di vetro al fine di bloccarne la fermentazione.
In seguito e sempre dalla Francia, per opera di Pierre Durand, si realizzò la conservazione del cibo nella lamiera: più economica e più pratica del vetro.
Durand ne realizzò un brevetto che poi vendette agli inglesi.
In seguito, la ditta Donkin e Hall perfezionò l'idea aggiungendo la saldatura del coperchio.
In Italia, la ditta Cirio inscatolò per prima i legumi mentre della carne si occupa prima di tutti gli altri la Sada di Crescenzago, nel 1881.
Nel 1915 nasceva infatti la Società Fratelli Sada che curava prevalentemente le forniture militari e propose la scatoletta dal nome Manzo alla militare: la scritta blu campeggiava in campo rosso e recitava, ai piedi di un medaglione bovino: grandi onorificenze.
Diversi erano i prodotti che vennero poi etichettati con nomi patriottici.
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Anche le altre case produttrici di cibo in scatola fecero a gara per trovare dei nomi stimolanti:
Antipasto finissimo Trento e Trieste oppure Alici alla Garibaldi e ancora: Filetti Savoia, Antipasto Tripoli dove, sovente, a campeggiare sui coperchi era il tricolore italiano.
L'alimentazione in scatola era comunque un'alternativa al rancio ordinario.
In linea teorica, le razioni alimentari dovevano assicurare al soldato circa 4.000 calorie.
Nella realtà, già alla fine del 1916, la razione venne ridotta con un conseguente disagio tanto fisico quanto psichico da parte dei soldati che oltre ai traumi e alle ferite morivano per via delle gravi carenze alimentari.
Sulla carta, l'esercito forniva ogni giorno ai suoi soldati 600 grammi di pane, 100 grammi di carne e pasta (o riso), frutta e verdura (se disponibili), un quarto di vino e del caffè.
L'acqua potabile era invece un problema molto importante e raramente superava il mezzo litro al giorno per persona.
Per i soldati in prima linea le quantità erano leggermente più consistenti.
Prima delle battaglie veniva distribuito cibo aggiuntivo: biscotti o gallette, scatole di carne, cioccolato e grappa.
Nelle trincee il vitto arrivava di notte, a dorso di mulo, mediamente tra le 22 e le 24, quanto il trasporto dei contenitori era meno pericoloso per i soldati di corvée.
Quando non arrivava significava che la colonna era stata attaccata nel tratto retrovia della prima linea.
Il rancio tipico si componeva di una razione di pasta in brodo, portata in marmitte ermeticamente chiuse, in grado di conservarne il calore, un pezzo di carne lessa, trasportata nei sacchi, una pagnotta di pane, una tazza di caffè, qualche decilitro di vino e (raramente) un pezzo di formaggio.
Due oggetti personali indispensabili e legati al cibo del soldato erano il tascapane e la gavetta.
Il primo, di tela impermeabile grossa, era indossato a tracolla e conteneva oggetti di prima necessità che permettevano al soldato una minima sopravvivenza.
In esso confluivano: pane, scatolette di cibo, gavette, cucchiaio, coltello e tazzina così come il pacchetto di primo soccorso.
La gavetta invece era il recipiente per consumare il rancio e poteva funzionare anche come pentolino per scaldare le razioni in scatola.
Le gavette distribuite agli alpini erano più grandi, per un rancio doppio che includeva quello del compagno incaricato di portare la legna.
Ciascun reparto era anche dotato di casse di cottura con fornello e soprattutto delle marmitte da campo (che funzionavano come una specie di pentola a pressione) che venivano utilizzate quando vi era la disponibilità di viveri da cucinare.
Le truppe di alta montagna avevano come supplemento il lardo, la pancetta e il latte condensato.
La distribuzione del cibo avveniva una volta al giorno, come pure quella dell'acqua: solo mezzo litro.
Poteva capitare che qualche soldato consumasse di nascosto le cassette d'acqua destinate al circuito di refrigerazione delle mitragliatrici.
Sicché, per evitare l'inconveniente, i ranghi alti ordinavano di aggiungere petrolio all'acqua, affinché non venisse bevuta dalle truppe.
Si dice che i soldati italiani fossero meglio alimentati di quegli austriaci.
La razione alimentare distribuita ai Kaiserjäger austroungarici durante la guerra era inferiore a quella dei colleghi italiani tanto che il governo imperiale si trovò nella necessità di dover importare scatolame dalla Norvegia.
Durante la guerra, a prescindere dai fronti, il cibo che assunse un'importanza strategica fu il pane.
La razione giornaliera non veniva mai completamente consumata: un pezzo lo si teneva nel tascapane se il fante non riusciva a fare rientro nella trincea.
In caso di attacco chimico il pane bagnato, dentro un fazzoletto a coprire bocca e naso, aiutava i soldati sprovvisti di maschere antigas.
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Il pane, inoltre, era utile per il baratto.
Emilio Lussu, nel suo diario Un anno sull'Altipiano racconta di cartocci, con pane e qualcos'altro, lanciati verso la trincea nemica (quando le linee di confine erano ravvicinate) per avere in cambio tabacco per pipa, sigari e sigarette.
Vi erano tregue spontanee dovute dalla fame per le quali tuttavia i soldati rischiavano condanne fino a dieci anni di carcere.
Sempre in tema di rancio, per i prigionieri italiani in Austria o in Germania i problemi alimentari erano consistenti.
Secondo la Convenzione Internazionale dell'Aja del 1907, il prigioniero aveva diritto alla stessa razione del soldato che lo aveva catturato, cioè 250 grammi di pane, 100 grammi di pasta, 80 grammi di carne, frutta, verdura, caffè.
Ma nella pratica i prigionieri morivano di stenti.
Nel caso dell'Austria, i problemi di approvvigionamento alimentari costrinsero a ricorrere anche a surrogati.
Per via della mancanza di farina, per rispettare la grammatura prevista per il pane si utilizzarono paglia, ghiande, segatura e al posto della pasta si dava una broda con bucce di patata e cavolo, con conseguenti carenze alimentari di non poco conto per i prigionieri.
In tutta l'Austria, per militari e civili, gli ultimi due anni di guerra furono veramente duri dal punto di vista alimentare.
Dopo l'inverno 1916/1917, nelle campagne austriache oltre alle rape, di solito usate come cibo per il bestiame, non c'era quasi niente da mangiare, inclusi i generi alimentari di base.
Il cibo doveva andare soprattutto ai soldati al fronte ma era comunque insufficiente e i morti per fame furono in questi anni a migliaia.
Il governo dovette chiedere più volte all'alleata Germania aiuti in cibo oltre che in armi e munizioni.
La popolazione civile era stremata e allo scoppio dell'influenza spagnola nel 1918 vi furono centinaia di migliaia di morti fra gli austriaci malnutriti.
Ma la fame al fronte non risparmiò alcuna nazionalità e serpeggiò fra tutti gli eserciti.
Sempre dalla penna di Emilio Lussu abbiamo un esempio emblematico della fame dei soldati in prima linea.
E' un episodio del ribelle Tenente Ottolenghi, raccontato nel diario Un anno sull'Altipiano, una razzia al deposito alimentare della divisione nelle retrovie:
... Il magazzino di sussistenza era in una grande baracca di legno, posta lungo la strada fra Campomulo e Foza, in un piccolo avvallamento che lo nascondeva agli osservatori nemici.
Attorno, la neve vi era molto alta.
Ottolenghi e gli sciatori lo conoscevano bene per esservi passati vicino, in precedenti escursioni.
Il magazzino conteneva un ricco deposito di generi alimentari per la truppa e per le mense ufficiali di tutti i reparti dipendenti dalla divisione.
Vi erano, in abbondanza, anche bottiglie di vino e di liquori, prosciutti, mortadelle, salami e formaggi.
La squadra fece un largo giro per sorprendere il magazzino dall'alto e per rendere irriconoscibile la provenienza delle piste degli sci.
Verso il calare del sole, arrivarono uniti a un chilometro al di sopra della strada.
Di là, sempre insieme, discesero, puntando nella direzione del magazzino.
Arrivati a qualche centinaio di metri, la pattuglia si divise.
Ottolenghi, il sergente e sei soldati formarono la prima squadra, la "tattica", divisa in due gruppi; gli altri cinque, con il caporale, formarono la squadra "logistica".
Con questi nomi, Ottolenghi aveva battezzato le due squadre.
La prima squadra era destinata ad agire di fronte, in faccia al magazzino, la seconda alle spalle.
La prima squadra partì in discesa, lanciando bombe e petardi, e urlando.
Gli urli e gli scoppi richiamarono l'attenzione dei militari addetti al magazzino.
Tutti si slanciarono fuori.
Lo spettacolo era straordinario.
Con abili evoluzioni, gli sciatori accompagnavano il lancio degli esplosivi.
Gli uomini passavano veloci in mezzo alle nuvole dei petardi fumogeni e agli scoppi delle bombe, dando l'impressione di due pattuglie, una attaccata dall'altra, con furia.
Ai pacifici militari della sussistenza, sbalorditi, sfuggiva che i petardi, che scoppiavano a fior di neve, erano tutti "offensivi" e quindi presso che innocui per quelli che li lanciavano, e che le bombe più pericolose scoppiavano molto più lontano, in basso, sprofondate nella neve.
Era un'eccezionale e reale visione di guerra.
I militari del magazzino, sempre addetti ai servizi di sussistenza delle retrovie, non avevano mai visto un combattimento.
E quello era assordante e terribile.
Per un attimo, sembrò loro che quei combattenti folli si sarebbero tutti squarciati eroicamente a vicenda, sotto i loro occhi.
E l'ammirazione cedé il posto al raccapriccio.
Mentre il combattimento si svolgeva sotto gli occhi esterrefatti dei custodi del magazzino, la squadra "logistica", alle spalle, agiva con minore intrepidezza.
I cinque uomini, slacciati gli sci, per le finestre saltarono dentro il magazzino, e ne uscirono carichi.
Ottolenghi li aveva equipaggiati di tascapani, sacchi alpini e cordicelle.
Essi ridiscesero imbottiti e coperti di prosciutti, mortadelle, salami e bottiglie.
Riallacciati gli sci, sparirono nella vallata opposta a quella di Ronchi.
L'operazione ardita era riuscita brillantemente, in ogni sua parte.
La sera, alla mensa, Ottolenghi ci offrì quattro bottiglie di Barbera, per l'onomastico di suo nonno.
Suo nonno? pensavo io.
All'indomani mattina, mi sorsero i primi sospetti.
Un fonogramma circolare urgente del comando di divisione raccontava l'accaduto e ordinava che i comandi dipendenti iniziassero pronte indagini per scoprire i colpevoli.
[Emilio Lussu, Un anno sull'Altipiano, Torino, Einaudi, 1975, p. 187-189]
Per affrontare i problemi alimentari della Grande Guerra insorti soprattutto nell'ultimo anno di guerra, il Regno d'Italia istituì uno specifico dicastero, il Ministero degli approvvigionamenti e dei consumi, costituito con regio decreto il 22 maggio 1918, per potenziare gli incarichi del precedente Commissariato degli approvvigionamenti e consumi alimentari.
Uno dei suoi compiti principali era imporre il razionamento del cibo.
Ad esempio: la riduzione del grano per la panificazione nei comuni italiani o le quote di formaggio prodotto, oppure il divieto della produzione di svariati generi dolciari a eccezione del cacao in polvere, di alcuni tipi di cioccolato, biscotti e altri generi alimentari da destinare all'esercito.
Sono proverbiali i manifesti del Ministero con cui si ordinavano le requisizioni.
Alcuni emblematici esempi sono le ordinanze relative alla denuncia e la requisizione del granturco così come del frumento, dell'orzo e della segale per il raccolto del 1918.
Il produttore doveva necessariamente denunciare il raccolto al Comune il quale comprava a un prezzo calmierato i prodotti requisiti mediante le cosiddette Commissioni di requisizione.
Al produttore rimaneva il solo quantitativo di prodotto per la semina del successivo anno agrario e per il soddisfacimento delle necessità alimentari della famiglia, dei coloni e dei salariati nel rispetto del "beneficio supremo del Paese".
Il Ministero rimase molto attivo anche nei mesi successivi al termine della Guerra per regolamentare i consumi e la distribuzione del cibo sul territorio.
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