La Guerra Bianca[Racconto di Paola Manoni] |
[ascolta l'audioracconto] durata 30 minuti |
C'era una volta uno stregone maligno che aveva inventato uno specchio dai poteri malefici: in esso i paesaggi più belli erano riflessi come i luoghi più spaventosi e le persone più graziose assumevano brutte sembianze. Ma soprattutto: chi si specchiava diveniva cattivo e perfido. Un giorno, per rendere ancora più diabolico il suo specchio, lo polverizzò e fece turbinare in aria tutti i piccolissimi frammenti che ricaddero su paesi e villaggi. Le schegge microscopiche, con le folate di vento, entrarono negli occhi della gente che iniziò a vedere tutto storto. In alcuni casi questo seme nefasto arrivò fin dentro i cuori, dissolvendone tutti i sentimenti. Le anime si corruppero, con grande soddisfazione dello stregone. La Regina delle Nevi, crudele alleata, completò l'opera coi suoi terribili incantesimi che avevano l'effetto di raggelare cuori, persone, animali e paesaggi. Al suo passaggio tutto si ricopriva immediatamente di brina che pochi istanti dopo si trasformava in lastra di ghiaccio: una morsa da cui difficilmente si poteva avere scampo. [Cfr. A. Hans Christian Andersen,La regina delle nevi (tit. orig. Sneedronningen), 1844] Sulle linee di cresta delle montagne delle Dolomiti, nel rigido inverno 1915, la Regina era sicuramente intervenuta. Nel presentarvi il tema della nostra seconda puntata... io, che sono la Guerra, vi voglio svelare un segreto. Ero proprio io a far giocare le nazioni con gli specchi deformanti, nel delirio di onnipotenza di ciascuno. Io a ideare il fronte in quota che per due anni e mezzo tenne prigionieri i soldati austriaci e quelli italiani i quali, se non morivano sotto qualche granata, assideravano nelle trincee ghiacciate e desolate, scavate sui fianchi dolomitici. Ebbene, voglio raccontarvi della guerra di montagna: la Guerra Bianca, una delle più difficili contese di posizione che voi possiate immaginare. Ma andiamo subito all'antefatto. Nel maggio 1915, solamente venti giorni prima della dichiarazione di guerra all'Austria, l'Italia strinse accordi segreti con i paesi dell'Intesa (Russia, Francia, Inghilterra) e, per convenienza territoriale, stracciò il patto con la Triplice Alleanza che da oltre trent'anni la legava militarmente all'Austria e alla Germania. Diciamo pure che si trattò di un'aggressione alle spalle, predisposta dall'Italia nei confronti dell'Austria! Sia come sia, la conseguenza fu il controllo e la conquista delle terre di confine sicché, dal 1915 al 1917, la linea che concatena i gruppi montuosi più grandiosi e rinomati fu di fatto un fronte di guerra ininterrotto, in cui i soldati sostavano per interi mesi. La Regina delle Nevi e il malefico stregone si sedettero sulle montagne orientali dell'arco alpino e attesero il corso degli eventi bellici. Lo schieramento italiano era di pertinenza della IV Armata, con il comando ubicato a Vittorio Veneto, mentre dal lato austriaco vi era l'ala orientale della 90. Divisione a cui, da entrambe le formazioni, si associarono altri corpi militari. La IV Armata fu la leggendaria compagnia di alpini, specializzata per l'operatività su terreno montano ma già ben nota all'opinione pubblica per essere entrata in azione nelle campagne coloniali in Eritrea e Libia. Il tipo di addestramento estremo cui erano sottoposti gli alpini si prestava anche in altri ambienti per i quali si richiedeva lo stesso spirito di adattamento e sopportazione della fatica che si imponevano in ambiente montano. I bersaglieri, in origine appartenenti all'esercito piemontese, furono addestrati e selezionati come truppe scelte da inviare nelle Dolomiti, come supporto alle divisioni degli alpini. Le truppe di fanteria costituivano sul fronte montano le seconde linee ma erano anche considerate come riserva e, nei casi più critici, vennero impiegate nelle trincee alpine. Le truppe imperiali austroungariche furono rafforzate per la guerra in montagna dal contingente tedesco del Deutsche Alpenkorps che fu operativo per tutto il 1915. Entrambi gli schieramenti avevano elementi di spicco, molto esperti nell'affrontare le difficoltà alpinistiche. Si trattava di soldati che nella vita civile erano guide alpine, scalatori o anche cacciatori di camosci. Fin dall'estate del 1915, lo schieramento austriaco vide la formazione delle cosiddette Compagnie d'alta montagna, costituite dai maggiori esperti che selezionavano i fanti più idonei all'addestramento alpinistico. Gli italiani avevano invece il Reparto Scalatori, nato dall'esperienza di un reparto detto dei Mascabroni il quale, all'insaputa degli austriaci, tra febbraio e marzo 1916, occupò tutta la cresta sommitale della famosa Cima Undici. Al momento della sua costituzione, nel 1916, il Reparto Scalatori aveva un organico di 45 uomini, che divenne di 120 quando completò le sue operazioni, nel novembre 1917. Nel più terribile inverno 1916-1917 il gruppo presidiò il settore orientale del fronte dolomitico, nella zona montuosa Croda Rossa-Popera. La Guerra Bianca richiedeva diverse abilità che non s'insegnavano nelle accademie militari. Era la montagna a consentire o meno i passaggi, lo scavo delle trincee, gli attacchi, le ritirate. Subito dopo la dichiarazione di guerra da parte dell'Italia, i contendenti furono impegnati in Dolomiti in una sorta di sfida per occupare le posizioni in cima. I maggiori presìdi, per citarne alcuni, si trovavano presso le già menzionate Croda Rossa di Sesto e monte Popera ma anche sul Cristallo, sulle Tofane, sul Lagazuoi, sulla cresta della Marmolada. I percorsi più difficili venivano attrezzati con scale, corde, passerelle dove si svolgevano trasporti mirabolanti con funi, carrucole, scivoli approntati con assi per tirare su mezzi pesanti, munizioni, rifornimenti nascosti nel cuore delle montagne. Nella guerra alpina non si costruirono forti: erano le montagne stesse a fungere da fortezza. Fin dall'inizio del conflitto, un'attività quotidiana dei soldati era scavare: tunnel, gallerie, trincee, camminamenti, antri dove poter sostare. Insomma, una vita sotterranea, al riparo dal fuoco nemico e dalle intemperie. Queste cittadelle sotterranee sono oggi luoghi di visita, meta di turismo alpinistico-escursionistico ignaro dello svolgersi di tanto orrore tra quei paesaggi incantati. Un altro aspetto tipico della Guerra Bianca fu l'uso delle mine. Giacché le montagne erano divenute roccaforti praticamente inespugnabili, una delle strategie cruente per stanare il nemico e conquistare la posizione vide l'uso delle mine che, beninteso, impiegarono entrambe le parti. Ci furono almeno trentaquattro mine che brillarono nelle viscere delle montagne, creando devastazione e morte, modificando per sempre la morfologia dei luoghi! La prima mina fu degli austriaci, con cui augurarono l'Anno nuovo sul Lagazuoi, il 1 gennaio 1916. La deflagrazione seppellì i nemici sulla famosa Cengia Martini, al Lagazuoi piccolo. Sopra la cengia si trovava un enorme masso sicché gli austriaci scavarono un cunicolo dove posizionarono 300 chili di esplosivo, proprio alla base del macigno. Un'enorme massa di pietre e di neve venne giù lungo la parete, ma per una deviazione causata dai molti balzi rocciosi il disastro totale non avvenne e gli italiani non persero la loro posizione. Il 3 novembre 1917 fu invece la data dell'ultima mina, da parte italiana, sulla Marmolada. Qualche giorno prima gli austriaci avevano fatto saltare in aria la cresta del monte Sief con oltre 45 tonnellate di esplosivo, che aprì un cratere totalmente innaturale interrompendo per sempre la linea sommitale. Nella guerra di mine gli italiani si trovarono in una posizione vantaggiosa poiché quasi per tutto il fronte dolomitico erano posti più in basso rispetto al nemico sicché dovevano scavare in salita, eliminando più facilmente i detriti. Con l'uso delle cariche esplosive, la guerra in montagna impose una serie di principi fondamentali. Un'attenta sorveglianza del nemico: qualsiasi mossa, anomalo movimento di materiali, scarico di detriti (segnale di scavo), nuova apertura di finestra o feritoia nella parete, costitutiva un'attività sospetta. Una strategia, impiegata da entrambi i contendenti, era ingannare il nemico con scavi fittizi per poi colpire altrove. Così si vide entrare in scena il geofono, una specie di stetoscopio con cui auscultare la roccia, rilevando vibrazioni sospette. Quando veniva individuata una vera e propria attività di perforazione, l'unica difesa possibile era scavare la cosiddetta galleria di contromina, ovvero un tunnel che giungesse in prossimità di quello avversario e che potesse distruggerlo o far sfogare i gas dell'esplosione, al fine di diminuirne l'intensità. Questa lotta sotterranea non ebbe vincitori ma solo vinti, inclusa la montagna. Un ben noto esempio: le mine sul Lagazuoi piccolo, di cui la prima fu quella già ricordata, fatta brillare per il Capodanno 1916. A questa ne seguirono diverse altre. Quella del 14 gennaio 1917 squarciò la parete dividendo per sempre il passaggio sulle cenge, tra la postazione austriaca e quella italiana. Effetti ancor più devastanti li ebbe quella del 22 maggio 1917: oltre 24 tonnellate di esplosivo che provocò la frana di oltre 100 mila metri cubi di roccia. Vennero cancellate numerose guglie, torrioni, pilastri. La parete fu devastata per un'area di oltre 130 metri per 200 di altezza, un vero e proprio scempio morfologico che fortunatamente non vide altre perdite umane, giacché gli italiani si erano ritirati su posizioni arretrate. Ma a questa vi fu la risposta italiana, nella zona che congiungeva l'anticima alla cresta sommitale. I cunicoli scavati per condurre alla camera di scoppio sono tuttora visibili, dove la galleria principale s'inerpica in salita per una lunghezza di circa un chilometro. I soldati-minatori italiani scavarono a ritmo di 5-6 metri al giorno. 33 tonnellate di esplosivo vennero fatte esplodere la notte del 20 giugno, con un effetto devastante. Si aprì un cratere sul lato occidentale dell'anticima. Gli italiani raggiunsero la sella, ignari che ad aspettarli vi fosse un fronte di fuoco micidiale, con il cannone di Lagazuoi grande puntato su di loro. Gli italiani occuparono l'anticima nonostante le ingenti perdite ma non arrivarono sulla cresta. Il duello di mine vide altre esplosioni e terminò solamente nel novembre 1917, a causa della famosa ritirata dopo Caporetto, di cui parleremo in una prossima puntata. Tutte queste esplosioni non ebbero i risultati sperati, anche se in taluni casi portarono ad avanzamenti di posizione come nel caso delle mine italiane in Tofana, nella zona del Castelletto, e al Col di Lana - due scenari di guerra montana che vi voglio narrare. Il Castelletto è un'appendice rocciosa della Tofana di Rozes. Prima della guerra questa zona era chiamata Punta di Col dei Bos, ribattezzata dagli austriaci come Roccia del Terrore e dagli italiani, semplicemente, come Castelletto. Si trattava di una zona strategica poiché consentiva agli austriaci di controllare dall'alto un buon tratto della Strada delle Dolomiti. Impediva agli italiani movimenti diurni al Passo Falzarego e controllava tutta la Val Travenanzes. Come è prevedibile, quest'avamposto austriaco divenne ben presto un obiettivo italiano. Ma la zona era piena di cecchini e mitragliatrici sicché ogni tentativo di fanteria italiana era risultato vano. I fanti sardi provarono a più riprese l'avvicinamento verso la Forcella del Col dei Bos, così come la risalita del Canalone centrale che separa il Castelletto dalla Tofana, con rovinose scariche di fuoco da parte del nemico. Durante il 1915 vennero effettuati diversi tentativi fino a che gli italiani non riuscirono a conquistare stabilmente la Forcella, espugnandola di sorpresa. Tuttavia il Castelletto rimaneva imprendibile, nonostante l'epica scalata della Tofana per conquistare una nicchia e posizionare una mitragliatrice, orientata sul lato orientale. Una minaccia dall'alto della Tofana, raggiunta successivamente lungo il cosiddetto Scudo con una scala di corda composta da 380 scalini, non era risultata efficace per prendere l'avamposto austriaco, anche se per gli austriaci lo Scudo costituiva una sorta di spina nel fianco. Ogni tentativo di attacco diretto era risultato vano sicché si decise di passare alla guerra sotterranea. Gli italiani si affidarono a Eugenio Tissi, esperto perito minerario, il quale progettò il tunnel dove collocare una grande carica esplosiva. Gli scavi iniziarono nel gennaio 1916, nonostante la neve e le intemperie. Ma solo in aprile s'iniziò il lavoro con le perforatrici meccaniche. La galleria iniziava ai piedi della Tofana, vicino la zona sottostante lo Scudo, e venne realizzata da 120 uomini, organizzati in turni di sei ore di lavoro. L'ambiente era assai insalubre, per via delle polveri e dei gas delle esplosioni, nonostante l'apertura di una finestra in parete che facilitò lo scarico dei detriti. Gli austriaci compresero ovviamente il pericolo e intensificarono i tiri di lanciabombe contro le linee italiane ma questo non disturbò più di tanto lo scavo della galleria. Il nemico tentò anche lo scavo per una contromina ma si mosse in ritardo, lasciando agli italiani la possibilità di terminare il lavoro: una galleria di trecento metri con una camera di scoppio posta sotto la sella, tra la Tofana e il Castelletto. Il Battaglione Belluno dispose in tre notti oltre 350 quintali di esplosivo; infine chiuse la galleria col cemento per circa 30 metri e attese l'ordine di scoppio. Intanto accorsero gli alti vertici nell'accampamento posto in Cinque Torri: il comandante della IV Armata, Nicolis de Robilant, il generale Cadorna e il re d'Italia in persona. Nelle baracche si attese il momento della conflagrazione che arrivò alle 3.30 dell'11 luglio 1916. La sella sprofondò nel cratere di rocce frantumate, ancora oggi visibile. Massi di ogni dimensione volarono per un raggio di oltre un chilometro. I pinnacoli meridionali del Castelletto furono polverizzati per sempre. Gli austriaci ebbero perdite di vite fra le guardie, fra i soldati di stanza nelle caverne. Gli italiani riuscirono ad avanzare, conquistarono la sella, la zona detta del Sasso misterioso ma caddero in una trappola tesa dal reggimento bosniaco, sopraggiunto sul luogo... E la guerra, ovviamente, continua! Un altro momento importante della guerra in montagna è nella battaglia del Col di Lana, montagna posta in un punto veramente strategico sulla linea di confine fra il Regno d'Italia e l'Impero austro-ungarico. Per gli eventi che vi si svolsero, tra la sua cresta e il monte Sief, la montagna venne rinominata come Col di Sangue: vi persero la vita oltre 8.000 soldati, tra italiani e austriaci. In effetti, i primi fischi di granate gli abitanti della zona li sentirono fin dal giorno stesso in cui l'Italia entrò in guerra. Poi, verso luglio 1915, si videro i primi trinceramenti delle creste. Iniziavano i presìdi del confine. Gli italiani attaccarono il 7 luglio 1915 ma le postazioni austriache erano decisamente avvantaggiate per via della conformazione del terreno. Sicché dalle pendici del monte colò subito tanto sangue, nel tentativo di ottenere trinceramenti contrapposti sempre più ravvicinati. L'inverno non portò pace: i fanti andavano all'attacco scavando gallerie nella neve. Al 15 dicembre 1915 si totalizzarono ben novantasette assalti e alla fine della stagione gli italiani arrivarono a soli 80 metri sotto la cresta, dove correvano le trincee austriache. La cima sembrava tuttavia lontanissima e si pensò a una soluzione radicale: far saltare le difese nemiche con una mina. La decisione fu presto presa: a metà gennaio 1916 iniziarono i lavori. La qualità della roccia non era delle migliori e il rumore della perforatrice, insospettì gli austriaci i quali si affrettarono a organizzare una contromina. Ma nonostante il suo scoppio, i lavori italiani non si arrestarono. La data della conflagrazione fu fissata al 17 aprile, dopo un intenso fuoco delle artiglierie. Lo scavo italiano culminava in due camere di scoppio, poste sotto la parte avanzata della trincea austriaca. La carica esplosiva era esattamente di 5020 chili e quando la detonazione fu innestata, un boato fece tremare la montagna. Il comandante Anton von Tschurtschenthaler scrisse in una memoria: Il monte tremò, come se volesse crollare su se stesso. Tutti balzarono in piedi e volevano uscire ma l'ingresso era intasato dai macigni e dal materiale crollato; eravamo imprigionati. Attraverso un piccolo buco rimasto aperto ci arrivavano il frastuono e lo sconquasso dei massi che rotolavano e delle pietre e macerie che precipitavano, i sibili e gli schianti delle granate che si rovesciavano sui superstiti, le urla di dolore e le grida di aiuto dei soldati orribilmente mutilati o scagliati nella gola del Sief". [A. von Tschurtschenthaler, Col di Lana 1916, Innsbruck 1957]. L'azione bellica era riuscita ma la lotta non era finita poiché il vicino Monte Sief era ancora austriaco e rimaneva un punto strategico per limitare il passaggio verso l'Alta Badia. Ora fu la volta della mina austriaca che scrollò il monte Sief dai soldati italiani. Il 27 ottobre 1917, 45 mila chili di esplosivo procurarono morte e distruzione della cresta sommitale in cui rimase inciso il cratere di 80 metri di diametro. Nei piani austriaci vi era il progetto di una nuova mina ma, di lì a poco, gli italiani avrebbero ripiegato sulla linea del Piave, lasciando nelle mani austriache quanto avevano conquistato. Tutto è vano nella guerra, ciò che si conquista oggi, si perderà domani! E nonostante ciò, l'essere umano cade facilmente in questa vacuità e rapidamente oblia la morte di tanti fratelli. La Guerra Bianca ne è uno dei più clamorosi esempi durante il primo conflitto mondiale. E se non fui io a tagliare per le Parche il filo di tante vite, ci pensò la montagna stessa, come a ribellarsi dell'occupazione militare. Sulla Marmolada ma anche presso altre cime e versanti, le valanghe provocarono un numero di vittime quasi più alto di tanti combattimenti. Vi furono infatti numerose sciagure e tra le più importanti si ricorda quella del 9 marzo 1916 che travolse i ricoveri delle truppe italiane presso Tabià Palazze, la seconda linea italiana del Fedaia. Sotto la neve rimasero circa 200 soldati e, sempre lo stesso giorno, altre due slavine si staccarono: in zona di Malga Ciapela, procurando la morte di altri 60 soldati, e sulle pendici della Val Pettorina. Ancora un altro disastro, stavolta austriaco. Il ghiacciaio della Marmolada occupa una conca compresa tra Punta Penia e Punta Serauta. La sua base è delimitata da tre imponenti speroni di roccia: il Sasso delle Undici, il Sasso delle Dodici e il Col de' Bous. A nord-ovest di quest'ultimo vi era l'accampamento austriaco di Gran Poz, che garantiva i rifornimenti a tutte le altre postazioni della cosiddetta Città di Ghiaccio. Qui, la Regina delle Nevi giocò ancora un tiro funesto. L'autunno del 1916 iniziò con abbondanti nevicate. Il 12 dicembre la temperatura ebbe un sinistro rialzo che provocò il distacco di un'enorme valanga la quale crebbe fino al punto di far precipitare a valle circa un milione di metri cubi di neve. La massa nevosa seppellì l'accampamento di Gran Poz facendolo completamente sparire, scaraventando le baracche, collocate sulla sua micidiale traiettoria, a oltre un chilometro di distanza. Le operazioni di soccorso furono rese difficili da una nuova bufera sicché si dovette cercare i corpi per giorni e giorni. Ma un giovane soldato, rimasto sotto la valanga, riuscì a sopravvivere per 4 giorni scavando con le mani un cunicolo d'aria e fornendo poi utili indicazioni per individuare i punti di seppellimento. Si trattò della più grande sciagura di neve che la storia ricordi in questo speciale capitolo della Guerra Bianca: i morti furono 300, molti dei quali poterono essere recuperati solo nel maggio 1917. Riferimenti bibliografici essenziali - Langes, G., La guerra fra rocce e ghiacci. La guerra mondiale 1915-1918 in alta montagna, Bolzano, 1991. - Striffler, R. Guerra di mine nelle Dolomiti. Lagazuoi-Castelletto 1915-1917, Trento, 1994. - Striffler, R. Guerra di mine nelle Dolomiti. Col di Lana, Trento, 1996. - Vianelli M., Ceracchi, G. Teatro di guerra sulle Dolomiti, Milano, 2006. |
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