Quattordici-Diciotto: Missive e dispacci

Missive e dispacci


 

 

Memoria di alpino:
testimonianza di Augusto Noacco



La notte del 26 dicembre, Santo Stefano, verso le due, fummo svegliati di soprassalto dagli scoppi delle granate, che l'artiglieria russa rovesciava sulle nostre linee.
Balzato fuori dal rifugio, come sottufficiale comandante della squadra armi d'accompagnamento, diedi subito l'allarme.
Proprio in quel momento il tenente mi portò l'ordine del comando di battaglione:
"Aprire subito il fuoco con i mortai, davanti alla compagnia 72 del battaglione Tolmezzo, attaccata da grosse forze nemiche".
Incominciammo a sparare con tutte e quattro le armi, a tiro rapido, per più di venti minuti e poco dopo ci fu comunicato che l'attacco dei russi era stato respinto dagli alpini di Tolmezzo, anche grazie al nostro intervento.
A me, però, era capitato un grosso guaio: nella fretta di aprire subito il fuoco, non avevo calzato i guanti ed avevo preso a mani nude le bombe per spolettarle.
Mi ero subito accorto che le dita rimanevano attaccate al metallo, come se le bombe fossero state unte col vischio, ma non ci feci caso e seguitai a spolettarle sino alla fine dell'azione.
Seppi poi, che quella notte il termometro aveva segnato 38 gradi sotto zero.
Quando rientrai al rifugio, mi accorsi che le dita avevano assunto un colore biancastro, cadaverico; presi subito a farmi energici massaggi con il grasso anticongelamento, ma senza risultato, anzi sui polpastrelli si vennero formando delle grosse vesciche, come delle scottature.
Gli alpini fecero la diagnosi: congelamento di primo e secondo grado.
Nel pomeriggio, visto che i massaggi non servivano a nulla, mi decisi di andare all'infermeria, dove il medico confermò:
"Congelamento, devi andare all'ospedale" [...]
Così compilò la mia 'bassa di passaggio' per la più vicina sezione di sanità.
Con la slitta che aveva recato in linea le 'casse di cottura' del rancio mi feci portare alle cucine, e lì passai la notte.
La mattina dopo, raggiunsi la sezione santità, dove un infermiere con il camice sporco di sangue come un macellaio, mi unse con molta pomata e poi mi fasciò le mani.
Non potei fare a meno di pensare con ironia come, dopo aver sempre cercato di salvare i piedi, mi ero congelato le mani.
Mi trasportarono con un'ambulanza a Rossosch in un ospedale da campo e poi in seguito a Rowenki, all'ospedale della Julia e poi ancora a Voroschilowgrad.
I giorni passavano uguali e lenti; a metà gennaio, dopo la medicazione mattutina, ci divisero in tre gruppi; i gravi sarebbero partiti per l'Italia, i guariti rimandati ai reparti, i recuperabili, fra i quali fui compreso, sarebbero rimasti in ospedale per ulteriori cure. [...]



[tratto da: a cura di Berto Minozzi, Alpini, racconti in prima persona, Milano, Cavallotti, 1979].

 

 

 

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