Un eroe italiano


Taliansky




[Racconto di Giovanna Gra]


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durata 27 minuti



Il grigio e lungo treno ringhiò per una seconda volta.
Gli ultimi passeggeri si affrettarono a salire.
La porta scorrevole dello scompartimento, cigolando, scomparve nel suo scrigno di legno.
La locomotiva sbuffò contro le nuvole.
Un uomo si affacciò nel mio scompartimento, fino allora deserto.
Aveva il volto segnato e i capelli bianchi.
Fece un lieve cenno di saluto, accompagnato da un sorriso franco e cordiale.
Ricambiai, sprofondando subito nelle mie letture.
Per diverso tempo non mi accorsi che il mio compagno di viaggio osservava con curiosità il libro che avevo fra le mani.
Era un testo sulla storia dell'arma, dalla sua fondazione ai primi giochi olimpici.

Quando alzai gli occhi, lui mi sorrise e disse:
"Non troverà tutto là dentro, sa?"
"No?", chiesi perplesso.
"No", replicò deciso e mi domandò:
"Militare?"
"Giornalista, appassionato di storia e degli uomini coraggiosi che l'hanno vissuta", risposi.
Mi sentii improvvisamente un po' anacronistico nel dire quelle cose, ma in fondo, era la verità.
L'uomo sorrise
"Perché sorride?", domandai un po' contrariato.
"Perché vedo nei suoi occhi una vera passione e penso che...", esitò un istante.
"Ma no, mi scusi, non volevo strapparla dalle sue letture."

Quell'istante bastò a scatenare in me una grande curiosità e lo incalzai:

.".. E pensava che?..."
"Beh, che potrei avere una bella storia per lei."
"Una storia per me?"
"Già. Dov'è diretto? A Torino?"
"Sì."
"Anche io."
"E di cosa parla la sua storia?"
"La mia storia... la mia storia parla di un uomo straordinario.
E un eroe, per giunta", sussurrò guardando con nostalgia fuori dal finestrino.
"Difficile allora che non ne conosca l'esistenza, sono un vero cultore", risposi, più che mai convinto.



"E allora mi dica:
ha mai sentito parlare di Cosma Manera?"
"Cosma Manera... Cosma Manera... veramente no."
"Quindi, desumo, nonostante quel libro, che non abbia mai visitato il Castello del Buon Consiglio a Trento."
"No, purtroppo no", confessai.
Chissà perché davanti a lui, senza motivo, me ne vergognavo.

"Se ne avesse voglia, un giorno, fra bandiere, arazzi e medaglie... ecco... lì potrebbe trovare un suo ritratto."
Poi, quasi fra sé, aggiunse: "Sì, quello è il miglior ritratto di Cosma... non c'è dubbio."

Il treno ci strapazzò un poco prima di infilarsi come un siluro dentro una buia galleria.
Il mio interlocutore tacque e quando fummo fuori dal tunnel aveva gli occhi chiusi.
Per un attimo pensai che dormisse, invece, senza aprire gli occhi, incominciò a parlare.

"E' difficile accettare che il ricordo di un uomo d'onore, un tempo così amato da migliaia di famiglie italiane, possa andare perduto in questo modo.
Pensi che, all'epoca di cui le parlo, per una bella parte d'Italia lui era:
papà Manera."
"Accidenti... papà Manera?
... per un militare doveva essere una bella soddisfazione sapere che i suoi uomini lo consideravano una guida così intima e forte da guardare a lui come un padre."

Il volto dell'uomo s'illuminò e mi rispose in un sussurro:
"Guardi che stiamo parlando di un uomo molto, molto speciale.
Tutto di lui lo diceva."
"Quindi, lei lo ha conosciuto di persona?"
"Non parliamo di me", disse umilmente.
"Posso prendere qualche appunto?
Sa, è una deviazione professionale cui non riesco a rinunciare."
"Certo, certo, scriva:
Cosma Manera, nato ad Asti il 15 giugno del 1876.
Primo di sette figli di una famiglia dalle antiche e profonde tradizioni militari..."

"Ah... quindi figlio d'arte?", domandai sorridendo.
"Ah, sì.
E il padre, Ferdinando, ci tenne a dare a tutta la famiglia un'impostazione molto rigorosa.
Dicono che per il giovane Cosma, la vita sotto le armi risultasse quasi comoda a fronte del rigore paterno."
"Anche un'educazione molto severa...", annotai.
"Anche", confermò lui, poi, subito dopo, aggiunse:
"Ma, vede, il Capitano Manera, oltre a essere figlio d'arte, come diceva lei, aveva anche le phisique du role per diventare un eroe a tutti gli effetti."
"Sarebbe?", domandai divertito.

"Intanto, era un uomo più alto della media.
Aveva un fisico atletico, forgiato da anni e anni di attività.
Poi aveva un bel viso franco, dallo sguardo profondo e penetrante.
Ragion per cui era molto difficile dirgli di no.
E questo...", sorrise fra sé, "credo che oltre a molti suoi commilitoni, glielo potrebbero confermare anche diverse signore dell'epoca."

Appuntai in tutta fretta scuotendo la testa:
"Beh, non c'è dubbio che ci sono tutti gli elementi per intravedere fra le sue parole un gran personaggio."

"Ma anche una grande storia, mi creda.
E, per sua fortuna, Cosma aveva anche il vantaggio di possedere una fibra davvero rara.
Sa cosa le dico?
Ho sempre pensato che poca gente sarebbe sopravvissuta, dopo quello che ha passato lui."

Mi protesi verso il mio interlocutore per non perdere nemmeno uno scampolo di quella intrigante conversazione e lo esortai:
"Abbiamo ancora molte ore di viaggio da fare.
Avanti, mi racconti la sua storia.
Sono in un giornalista e sono sempre in cerca di belle storie."

L'uomo sorrise, amaro.
"Mi fa venire in mente un suo lontano collega.
All'epoca aveva il compito di descrivere le gesta dei nostri contingenti, ma anche di aggiornare una certa Marchesa che fece molto per la nostra causa."

"Di quale causa stiamo parlando esattamente?", puntualizzai.

"Stiamo parlando della storia patria, stiamo parlando della grande guerra e di circa trentamila soldati di origine italiana arruolati nell'esercito dell'Impero austro-ungarico.
Forse lei non lo sa, ma molti di questi furono fatti prigionieri sul fronte russo e finirono in terribili campi di concentramento.
Si trattava di gente smarrita, senza patria e senza radici.


Fu allora che molte delle famiglie d'origine di questi soldati si rivolsero alle autorità italiane, e con l'Italia accorsero in loro aiuto personaggi di gran prestigio, come la Marchesa Gemma de Gonzaga, per esempio."

"Gemma de Gonzaga...", trascrissi.

"Sì, Gonzaga.
La marchesa era figlia di un diplomatico che aveva intense relazioni con la Russia.
Un vero patriota e, come la figlia, assai sensibile alle istanze del nostro popolo in difficoltà."

"Ok, ok... un attimo che faccio fatica a starle dietro", dissi strappando l'ennesimo foglietto dal mio taccuino.
"Sì, ha ragione.
Incominciamo dall'inizio."


FLASH BACK
§ 1. Novembre 1914 ore 15,30
Villa San Leonardo
Borghetto d'Avio
(territorio dell'impero Austroungarico)


Il frusciare dell'ampia veste della marchesa era l'unico rumore percepibile nel fastoso salotto.
Sua cugina Maria scosse la testa:
"E' mezz'ora che cammini su e giù... Calmati Gemma, arriverà.
Avrà avuto problemi al giornale."
La marchesa si voltò stupita verso la donna.
Aveva un incarnato pallido e le sue gote, velatamente rosa, erano la spia di un tumulto interiore forse rivelatore di una grande passione.
"Ma sì, lo so, è che Vincenzo è sempre così puntuale che anche un piccolo, insignificante ritardo mi mette in apprensione."

E proprio in quell'istante, passi solerti e decisi solcarono il silenzio della casa.
La marchesa corse incontro all'amico.
"Quali notizie, dunque?", chiese ansiosa.
"Non buone, Gemma, ed è un dolore intimissimo e viscerale dover essere proprio io a farvi simile ambasciata."
"Dunque parlate, non tenetemi sospesa!"
"Le cifre parlano di tremiladuecento, ma c'è chi dice che siano molti, molti di più."
"E... le condizioni?"
"L'orrore è presso di loro e non li abbandona."
La marchesa ebbe un lieve mancamento e si lasciò andare su una poltroncina bassa dai rivestimenti damascati, che Maria ebbe la premura di offrirle.
"Accidenti a voi e al vostro sensazionalismo da cronista d'assalto, Vincenzo...", lo rimproverò Maria.
Vincenzo assunse un'aria mesta e si strinse nelle spalle.
Il silenzio cadde e s'infranse sullo sguardo impenetrabile della Marchesa.
"Questa situazione è intollerabile, intollerabile!
Come può il governo accettare che migliaia di nostri compatrioti marciscano nei campi di concentramento russo senza fare un gesto, senza dire una parola?!"
"Forse una speranza c'è, mia signora."
"Cosa dite?", ribatté lei quasi stizzita.
"Ora che l'Italia è entrata in guerra, il recupero dei prigionieri è nel diritto internazionale", disse Vincenzo.
"Ma certo!", esclamò Maria, "Ha ragione lui.
La Germania non può più nulla.
Adesso siamo liberi di agire."
"E' un'impresa titanica!", esclamò Gemma guardando oltre i vetri come se vedesse la scena.
"Lo sarà", gli fece eco il giornalista, "e vi dirò di più.
Si dice che ci sia un solo uomo in grado di essere l'anima di una simile avventura."
Vincenzo non completò la frase perché colse in modo inequivocabile lo sguardo di preoccupazione che Maria rivolse alla cugina.
Ma Gemma non era una donna come le altre e sapeva scorgere in un uomo il profilo dell'eroe, anche se questi le aveva involontariamente spezzato il cuore.
Dunque, senza tema, in un rapido soffio sussurrò:
"Sì, lo so.
E' il Capitano Manera."
Dopo un silenzio pieno di pensieri, la curiosità del cronista ebbe il sopravvento:
"Un uomo pieno di risorse e talenti incredibili, dicono, e si dice anche che il suo viaggio in Macedonia sia già leggenda.
Ma, francamente, non so se credervi."
"Dovete!", si scaldò Maria.
"Davvero? Conoscete i fatti?", domandò lui diffidente.
"Certamente!", replicò Maria con vigore.
"Ossia?"
La Marchesa si riprese dai suoi pensieri e disse:
"Cosma è un caro amico della nostra famiglia.
E' un uomo dal fascino magnetico con una cultura fuori dall'ordinario."
La curiosità del cronista crebbe.


E, anche se qualcosa come lo sguardo della cugina Maria gli diceva che non avrebbe in alcun modo dovuto insistere, insistette.
"Dunque è vero, come si dice, che è l'unico condannato a morte che può ancora parlare?
Conoscete i fatti?
Com'è stato possibile?"
"Mi pare di avervelo già detto", rispose la marchesa un po' irritata da quel sottile sarcasmo.
"Il Capitano Manera è un uomo speciale e molto colto:
conosce otto lingue, ha modi impeccabili e cortesi e capacità straordinarie."
"Suvvia, di fronte a una condanna a morte queste non sono doti sufficienti."

"Siete cronista, giudicate dai fatti.
Ad ogni modo, in Macedonia, mentre organizzava una nuova gendarmeria, il Capitano è stato rapito da una tribù locale", continuò la Marchesa.
"... E la sorte ha voluto che il capo tribù si chiamasse con il suo stesso nome", aggiunse la cugina Maria con veemenza.
"Fatto che...", proseguì la marchesa, "... Cosma ha potuto sottolineare conoscendo a menadito il dialetto di quella gente.
Agli indigeni la circostanza è apparsa magica o, se preferite, decisamente significativa.
Questo gli ha permesso di diventare personaggio gradito al popolo e alle autorità in egual misura con i risultati che sapete.
In questi giorni, per altro, dovrebbe essere a Bengasi."
"E la condanna a morte è stata sospesa, arguisco", chiosò Vincenzo molto colpito.
"Miracolosamente sì", confermò la volitiva Maria, gettando uno sguardo d'affetto alla cugina, mentre quest'ultima aggiungeva: "... Oggi sembra che si divida fra Rivalta e il resto del mondo."
"Rivalta?", chiese stupito Vincenzo.
"Già, là vi è l'ufficio del suo cuore, da quel che dicono", sospirò Gemma.
"Pare che si sia invaghito della figlia del suo maestro, il colonnello Pozzòlo", aggiunse con tono da cospiratrice la cugina Maria.

Una cameriera entrò con delle tazze di cioccolata bollente e alcuni pezzi di torta Novecento.
Vincenzo ebbe un sussulto.
"Conosco la fama del colonnello Pozzòlo, dicono sia un uomo tutto d'un pezzo e di gran levatura...
Ah, adoro questa torta!
In tutta Torino si fanno scommesse per conoscere l'ingrediente segreto."
"Circa l'ingrediente segreto non saprei cosa dirle, ma per quel che riguarda il colonnello Pozzòlo, aspetti a conoscere l'allievo", sussurrò Maria versandosi una seconda tazza di cioccolata.

Il treno, con un irritante cigolio, si fermo in prossimità di una piccola stazione.
Ero affascinato dall'inizio di quella storia e, più ancora, da come quell'uomo la raccontava, poiché in ogni pausa, in ogni respiro, si coglievano i palpiti, l'entusiasmo e la passione.
"Bengasi?", domandai stupefatto.
Ma il mio interlocutore sorrise.
"No, la marchesa si sbagliava.
All'epoca il contingente del colonnello Bassignano, di cui faceva parte il Capitano Manera, era sicuramente già giunto a..."


FLASH BACK
§ 2. Pietrogrado, 2 agosto 1916.

La delegazione di ufficiali guidata dal tenente colonnello Bassignano percorse la strada per raggiungere i propri alloggi con passo deciso.

Per raggiungere Pietrogrado erano partiti il 16 luglio.
Avevano attraversato tutta la Gran Bretagna e la Scandinavia, e la stanchezza incominciava a farsi sentire.

Solo uno di loro si era attardato a entrare, attratto dalle urla di due uomini.

"Taliansky sporco taliansky!
Ridammi il mio pane!",
sibilava un uomo in divisa, dai tratti del volto tipici di uno slavo, a un ragazzo piuttosto malmesso che tentava, inutilmente, di nascondere nella giubba una bisaccia.
Quindi, il cosacco si era ripreso quello che era suo lasciando nel buio le scintille di una lama ben affilata, seppure assai arrugginita.

L'italiano, terrore negli occhi, si era guardato intorno.
Poco lontano c'era solo un ufficiale straniero che l'osservava incuriosito.
Il giovane si mise a gridare:
"Non sono italiano, io non sono italiano!"

Avvolto in un pesante e rigido cappotto militare, protetto da un colbacco e da un ampio collo di pelliccia per combattere il gelo, l'ufficiale si avvicinò e, in perfetto russo, si rivolse al cosacco:
"Te lo ha reso no?
Ora lascialo stare."
Il russo esitò qualche istante.
Non voleva noie e, tra l'altro, constatò che l'uomo, da vicino, mostrava un'altezza e una prestanza fisica di tutto rispetto.


Qualcuno da lontano chiamò l'alto graduato.
"Ehi, Cosma!
Cosa fai laggiù?
Vieni dentro!"
Il cosacco lasciò il campo.
L'ufficiale si rivolse al ragazzo parlando italiano:
"E' così tanta la tua fame da rinnegare perfino la tua patria?"
"Cosa v'importa?
E chi siete?", rispose il giovane con il medesimo idioma.
"Sono colui che ti riporterà a casa, figliolo."
"Io non ho casa", rispose quello, ostile e disperato.
L'ufficiale frugò nella sua bisaccia ed estrasse un bel tozzo di pane e del formaggio e glieli porse.
"Sì che ce l'hai..."
Il ragazzo, patito, si avventò sul cibo come se non l'avesse mai visto.
L'ufficiale restò a guardarlo mangiare, infine gli chiese:
"Ti piace?", l'altro annuì appagato.
"Mai sentita roba del genere", rispose con impeto.
"E allora, per cominciare, sappi che questo è il sapore della tua terra."

Il mio insolito narratore incominciò a frugare nella sua borsa ed estrasse un piccolo vassoio di paste mignon.
"Gradisce?"
Annuii.
"Non mi stupisce che lo chiamassero papà Manera.
Doveva avere un carisma davvero particolare", commentai occhieggiando un pasticcino.
"Bene, sono contento se riesco a darle una giusta impressione."
"Me la d� eccome!
E la evinco, oltre che dagli straordinari fatti accaduti, ancora di più per come lei mi racconta queste cose", dissi optando per la pasta sfoglia di un diplomatico.

"Gliel'ho detto era una persona che lasciava il segno, sia che si trattasse dell'ultimo dei contadini sia che si trattasse dello zar", disse il mio uomo, pescando un secondo pasticcino alla frutta.
"Lo zar?!", domandai allibito.


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§ 3. Pietrogrado, corte dello zar Nicola II

"Capitano Manera!
E' un piacere riavervi a corte!", disse lo zar con sincero entusiasmo.
"Eccellenza, profondamente obbligato", disse il Capitano avanzando
lungo un magnifico Dorosh, un tappeto antico annodato su commissione della casa imperiale russa nella seconda metà dell'800 dove, nella parte alta, si poteva ammirare l'aquila a due teste. Era lo stemma degli zar russi, vi erano ricamate alcune lettere, probabilmente attribuibili allo zar Alessandro secondo.
Manera si profuse in un ampio inchino.
E mentre i convenevoli si prendevano il tempo necessario, un ufficiale del convoglio italiano, parte della delegazione, sussurrò a un collega:
"E' un sollievo averlo con noi..."
L'altro sorrise.
"Già, così dicono", rispose quest'ultimo molto scettico, e aggiunse:
"E dicono anche che lo zar, in una precedente missione, gli abbia regalato un orologio d'oro con tanto di stemma.
Ma io non c'ho mai creduto."
"Sbagli.
Perché io ero presente e l'ho visto con i miei occhi.
Tutti, fra noi, sanno che il Capitano Manera è una garanzia da queste parti.
A parte te, naturalmente."

Il treno continuava a sferragliare in modo turbolento, ma non riusciva ad affievolire l'entusiasmo della nostra conversazione.
"E poi cosa accadde?", chiesi sempre più avido di notizie.
"Accadde che, finalmente, lo mandarono a chiamare.
Cosma era già stato in Macedonia, dove aveva fatto fronte a una situazione assai complicata."
"Aspetti, aspetti... ricapitoliamo, non sono sicuro di seguirla", intervenni un po' smarrito.

"Voglio dire che già allora, cioè in Macedonia, alla sua prima missione importante, ebbe modo di conquistarsi la fama di grande condottiero quale egli fu."
"Si trattenne a lungo?"
"Cinque anni.
Il tempo utile per insegnare a millequattrocento ragazzi, fra mussulmani e ortodossi, a convivere e a condividere la causa comune.
Fu il loro addestratore, preparatore atletico, confessore, padre, comandante.
Tutti coloro che lo hanno visto sul campo hanno raccontato di un uomo con un gran senso dell'onore, che non doveva mai alzare la voce, che si faceva seguire con l'esempio e con la disciplina."

"Si può capire, allora, perché i capi delle tribù...", cercai di aggiungere, ma lui mi interruppe.
"Lo rapirono?
Sì, si può capire.
Arrivo a dirle che anche che fosse visto come un diavolo... si può capire.
La civiltà è difficile da insegnare."
"E poi?"
"E poi, forse, è anche vero quel che dice il motto:
La fortuna aiuta gli audaci", chiosò lui convinto.

"Sì, certo, possiamo parlare di fortuna se pensiamo all'insolita vicenda di avere un nome uguale al santo medico protettore della tribù di cui era prigioniero, ma mi pare di aver capito che il Capitano Manera conoscesse molto bene i dialetti locali, ed è questo che gli ha salvato la vita."

"Sì, ed era cosa davvero rara per l'epoca."

"Pazzesco...
Non per mettere in dubbio le sue parole, ma credo che, alla fine di questo viaggio, farò una scappata a Trento.
Vorrei vedere il volto di quest'uomo con i miei occhi...
La sua storia è stupefacente!"

Lui sorrise, per nulla stupito di quanto fossi coinvolto dalla sua storia e aggiunse:
"In effetti, quel che le ho appena raccontato erano solo prove generali",
aggiunse riponendo nella sua valigetta, con una perizia quasi ossessiva, quel che restava del vassoio di paste.

Pensai che doveva essere anche lui un militare di lungo corso, anche se la sua umiltà e il suo rigore non mi avevano ancora permesso di capire chi fosse.


FLASH BACK
§ 4. Alto comando militare a Pietrogrado

Il colonnello dello stato Maggiore dell'esercito Achille Bassignano alzò la testa dal documento che stava leggendo un istante prima che bussassero alla sua porta.
Era un uomo con uno strano intuito e fra le sue truppe era noto per questo.
"Avanti", tuonò con la voce ruvida di chi non rivolgeva parola ad alcuno da molte ore.
"Maggiore."
"Capitano Manera, vi stavo aspettando.
Accomodatevi, prego."
I due si salutarono con vigore.
"Siamo tutti in attesa del vostro rapporto, Capitano, pertanto non mi perderò in inutili convenevoli."
"Gliene sono grato maggiore", disse il giovane Capitano il cui volto, secondo gli effetti della luce, rivelava i segni di un lungo viaggio o un'intensa e prolungata fatica.
Quindi si dispose a raccontare:
"Orbene, come sapete, siamo riusciti a visitare tutti i campi sparsi nei quarantacinque governatorati dell'impero zarista."
"E che notizie ci portate dei nostri connazionali?"
"Terribili, signore.
Ho incontrato solo italiani affamati, esposti al freddo e al gelo, alla violenza e alle malattie.
Faccio osservare, inoltre, che per molti gli italiani sono testimoni scomodi.
Per questo, credo che nessuno di loro sia al sicuro quaggiù."

Per qualche istante, il vento russo ebbe la meglio sui racconti del Capitano e fece vibrare gli interstizi delle finestre e delle porte con il suo sibilare acuto e tagliente.

Il maggiore, cogitabondo, fece il giro della stanza.
"Mi dicono che da molti giorni non dormite che mezz'ora per notte, e questo mi spiace.
Ma le voci che vi hanno anticipato dicono anche che il vostro nome ha scatenato un esodo fra i prigionieri irredenti.
Molti si sono presentati al comando sofferenti e privi di forze, ma pronti a seguire la vostra persona."

"Non so se questo sia vero, eccellenza, ma so che essi hanno bisogno di noi", disse il Capitano aggiustandosi un lembo della divisa.
"Mi è stato detto che in taluni casi li avete già soccorsi e organizzati..."
"Sì, e le famiglie non sempre comprendono l'odissea di questi disgraziati..."
Manera sorrise fra sé.
"Cosa c'è?", chiese Bassignano.

"El xe partido col botton de Francesco Giuseppe sul capel, el xe tornado col carciofo de bersaglier... questo dicono alcune madri a cui riconsegni i ragazzi", commentò amaro il Capitano.
"Capisco.
Tuttavia, sono certo che saprete cosa fare.
E' noto a noi tutti quel che avete compiuto circa il riordino della gendarmeria Macedone.
So anche che avete comunicato con questi uomini usando i loro stessi dialetti.
E che molti, specie i più giovani, ora vedono in voi un padre che li riporterà a casa e gli darà la dignità e l'onore perduti.
Una bella responsabilità."
"Farò del mio meglio", disse Manera attingendo alla scatola di sigari che il Maggiore gli stava porgendo.
"Ne sono persuaso, Capitano.
A tal proposito ho una notizia da darvi."
"Agli ordini maggiore...", disse Manera senza tradire alcuna emozione o aspettativa.
"Le circostanze richiedono la mia presenza in Italia.
Ragion per cui, da oggi, la sorte dei prigionieri irredenti, nonché degli italiani dispersi in Russia, dipenderà dalla vostra persona."
Gli occhi neri del Capitano Manera, alla luce fioca delle lampade che illuminavano l'ufficio del suo superiore, brillarono come carboni ardenti.
Bassignano lo guardò con benevolo affetto.
Conosceva bene la passionalità e il furore del suo sottoposto, quindi, gli ordinò:
"Fate il vostro dovere Capitano.
l'Italia guarda a voi con speranza.
La marchesa Guerrieri attende vostre nuove per confortare le famiglie dei dispersi e voi sapete bene quanto questa vicenda stia a cuore a lei e al suo consorte, il defunto generale Gonzaga."

Manera scattò in piedi con vigore, fece parlare i tacchi dei suoi stivali e con tono fermo disse:
"Non vi deluderò!"
Poi, senza frapporre indugio, uscì dalla stanza urlando:
"Fanciullacci, Longobardi, Puleo e De Giovanni, a me!"
Erano i nomi di quei sottoufficiali che, invero, lo accompagnavano in tutte le sue incredibili imprese.

Nello scompartimento si affacciò un controllore dall'aria annoiata.
Il mio misterioso interlocutore gli porse il biglietto con cui aveva giocherellato durante tutto il racconto.
Poi, rivolto a me, con gli occhi lucidi disse:
"Condivise con quei giovani ufficiali tutte le sue avventure e presto divennero inseparabili."
Gli sorrisi.
"Ah, lo credo bene!
Quando si passa anche molto meno di quello che vissero i nostri soldati nel corso della grande guerra, non si può che condividere un senso altissimo di appartenenza", ammisi ammirato.

"E così ricevette l'incarico... senza colpo ferire.
Che coraggio", chiosai ammirato.

"Oltretutto, le dirò che, a ripensarci oggi, nessuno poteva essere preparato rispetto ai fronti di guerra che si andavano delineando.

Lui ricevette l'incarico e partì per la sua missione senza mai voltarsi indietro, senza pentirsi mai un istante.
Era fatto così.
Era il Capitano Manera."



FINE PRIMA PARTE

N.B. I fatti narrati sono su base reale ma le circostanze e l'intreccio dei personaggi sono inventati e drammatizzati.
Per un riscontro biografico su Cosma Manera, attivare il link.

 

 

 

 

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