Un eroe italiano


Taliansky

(terza e ultima parte)




[Racconto di Giovanna Gra]


ascolta l'audioracconto[ascolta l'audioracconto]
durata 35 minuti



Naturalmente non stavo nella pelle da giorni.
Avevo curato ogni minimo particolare, verificato le fonti, visto centinaia e centinaia di immagini.
Avevo visitato Trento e, al Castello del Buon Consiglio, facendomi spazio fra bandiere e reperti d'epoca, avevo ammirato il ritratto di un uomo dal viso franco e aperto, dallo sguardo profondo, intelligente, intensamente saggio.
Mi sentivo il custode di un tesoro.
In fondo, ero uno dei pochi privilegiati a poter ammirare il volto di un nuovo eroe sconosciuto a molti che, forse, avrei avuto l'onore di raccontare.

Adesso, nulla poteva valere di più, per la mia ricerca, di un secondo incontro con il colonnello Fanciullacci.

Lui e il generale Cosma Manera avevano lottato e combattuto insieme, legati da un affetto e un'amicizia che, è il caso di dirlo, non conosceva ostacoli né confini.
E lui, Fanciullacci, mi aveva concesso un appuntamento.
Aveva un figlio a Roma.
Quindi il patto era che, al mio ritorno, avremmo usato per l'ultima volta la tratta Roma-Torino per completare la storia
del mitico capitano Cosma Manera.

Dunque ero lì, nel mio vagone.
Consultai l'ora, sbirciando in continuazione dal finestrino.
Ero impaziente.
Il treno sbuffò un paio di volte, poi fu lanciato l'ultimo appello per salire in carrozza.
Il treno si mosse.
Preoccupato, frugai nella borsa per cercare l'agenda dove avevo scritto i dettagli dell'appuntamento.

Quando alzai la testa, una mano tesa mi porse dei semi.
"Gradisce?"
"Ah... è lei!
Finalmente... temevo ci avesse ripensato...", ero sudato e in subbuglio, mentre lui mi guardava scuotendo la testa e sorridendo.

"Allora?", disse mostrandomi la mano.
"Cosa sono?", chiesi sospettoso.
Vedendomi storcere la bocca insistette.
"Sono buoni sa?
Semi di girasole."
Quindi si sedette di fronte a me e incominciò a sbucciarli con perizia.
Continuavo a guardarlo.

"Stavo pensando...", continuò lui scegliendo con cura maniacale il prossimo seme, "che sì, il capitano Manera ha permesso il rimpatrio di migliaia e migliaia di italiani, ma non dobbiamo dimenticare che, all'origine, il suo compito fu quello di rintracciarli, individuarli e convincerli a tornare indietro."
"Convincerli?!", domandai, "C'è bisogno di convincere qualcuno se, con una mano, lo si tira fuori da una trincea e con l'altra gli si consegna un biglietto per tornare a casa?"
"Sì", rispose lui placido, ma io lo interruppi con impeto.
"E chi mai sarebbe così stupido?"
"Eugenio, per esempio."



Turkestan, 1917.
L'esiguo drappello di militari italiani appena arrivato lasciò cadere pesantemente gli zaini sulle travi del pavimento di legno dello scarno alloggio.
Il capitano Manera si voltò verso i suoi giovani ufficiali con i baffi ancora imbiancati dal ghiaccio.
"Bene così, ragazzi.
Godetevi la libera uscita fino a stasera.
Ma non dimenticate il motivo della nostra missione.
Se avete l'impressione che sotto i panni di qualche contadino o bracciante si celi un italiano, cercate di avvicinarlo.
Con rispetto e cautela, ma non lasciate nulla di intentato.
In Italia troppe famiglie aspettano notizie dei loro cari dispersi.
E le aspettano da noi."

I militari non se lo fecero ripetere due volte.
Uscirono senza nemmeno cambiarsi, in cerca di cibo, tabacco e ogni altra distrazione possibile.

"Conosci un posto dove poter mettere qualcosa sotto i denti?", chiese il capitano al fedele Fanciullacci senza nemmeno voltarsi.
"Credo che per noi due vada bene anche la mensa militare.
Siamo ancora benvoluti qui e ne approfitterei", chiosò Fanciullacci, notando che il capitano dava per scontata la sua presenza.

Fuori il clima era terribile.
Lo spettro di un cane attraversò la strada correndo, spinto dai venti siberiani.
Un ragazzo coperto di stracci cercava d'inseguirlo con un bastone.
Negli occhi della bestia, la fame, mista al terrore e alla fatica.
Era lontano il tempo in cui qualcuno lo aveva considerato il migliore amico dell'uomo.

Ora fuggiva come una lepre e, forse, non avrebbe visto l'alba del giorno dopo.
Il capitano fissò il cane, poi il ragazzo, che aveva gli occhi iniettati di sangue. Due occhiaie livide e le mani blu, ostaggio del gelo.
Manera si tolse la grossa sciarpa per donarla al disperato.
Fanciullacci posò una mano sul braccio del suo capitano, fermandolo.
"Non farlo Cosma, non abbiamo altri indumenti e... non possiamo permetterci che tu prenda una polmonite."

Il ragazzo, spaventato dalla voce profonda del militare, era scappato via lasciando il cane al suo destino.

"Lo so.
Ma non riesco ad abituarmi all'immensa miseria di questa guerra.
E che siano russi, mongoli o italiani, non ne posso più di vedere ragazzi ridotti così."
Un moto di stizza scintillò negli occhi del capitano.
Occhi scuri e profondi con un riverbero argentino.
Pochi passi nella neve fresca e si ritrovarono alla mensa fatiscente.
Un piccolo comignolo disegnava scarabocchi neri nel cielo plumbeo e denso di nubi aggrovigliate gravide di gelo.

Una ridicola finestra divisa in quattro da asticelle di legno emanava una luce gialla e calda che confortò, per qualche istante, il cuore dei nostri due uomini.
Giunti davanti alla porta, si scrollarono di dosso la neve per entrare, ma l'uscio si spalancò di colpo e una secchiata d'acqua lurida fu gettata fuori, in direzione di alcuni barili arrugginiti.

"Accidenti, per poco non mi beccava!", sussurrò tra i denti Fanciullacci.
Il capitano, attratto da un mugolio che proveniva dai barili dietro alle sue spalle, esclamò:
"C'è qualcuno lì!"
L'uomo col secchio rise beffardo.
Aveva due mustacchi rossicci e gli occhi lievemente da mongolo.
Le guance erano striate da capillari di un rosso cupo, segno che non era esattamente astemio.
Indossava un grembiule ricoperto di schizzi di fritto, lardo e sangue rappreso.
Si chiamava Petrovic ed era una sorta di capo vivandiere assai noto nei dintorni per la sua scarsa misericordia.
Con marcato accento russo, Petrovic gorgogliò:
"Tu no te preoccupe capitano, lascia Macaroni fare suo mestiere di sorcio."
Il capitano scorse uno scarno lembo di braccio nascosto fra i barili arrugginiti.
"Ma... quello è un uomo!", osservò allarmato.
"Lo era.
Ora è più topo", sentenziò crudelmente Petrovic.

Fanciullacci fremette, ma rimase al suo posto.
Conosceva il capitano, non avrebbe mollato.
Fece un gesto all'oste affinché se ne andasse, ma questi rimase a guardare gli stivali del capitano Manera che affondavano fra i rifiuti e la neve.
L'uomo nascosto fra i barili si sentì scoperto e, assalito dal terrore, si nascose la testa fra le mani.
Visto che la razione di botte che si aspettava tardava ad arrivare, guardò con candore la faccia di quel militare che lo fissava con gli occhi lucidi e spalancati.
Il disperato mostrò il palmo della mano, come a voler rendere ciò che non gli apparteneva.
La mano era piena di frammenti che, lì per lì, il capitano non seppe distinguere.
Il pingue e lurido oste siberiano si lasciò andare a una possente risata, poi, leggendo la perplessità negli occhi dei due militari disse:
"Sono gusci di semi di girasole.
Lui scemo.
No capisce che qualcuno già mangiato prima di lui."

Il treno ci sbatacchiò furiosamente prima di naufragare nel buio di una galleria.
Rimanemmo in silenzio e, quando uscimmo, il mio amico allungò nuovamente la sua mano verso di me.
Pescai qualche seme di girasole e lo imitai, mettendoli in bocca.
Mi fissò divertito mentre cercavo di definire la sapidità di quei semi e disse:
"Ecco, adesso conosce il sapore delle trincee."
Non capivo e ripetei come un idiota:
"Il sapore delle trincee?"
"Già.
In Russia i pavimenti delle trincee erano tappezzati di questi semi.
I soldati russi adoravano consumarne in quantità aspettando il nemico e le bucce, spesso, erano l'unico alimento per i poveri italiani dispersi."
Sorrise, come se vedesse le immagini di quei ricordi lontani.
Poi riprese.
"L'uomo che viveva fra i barili e i rifiuti della mensa militare si chiamava Eugenio Tupini.
Era un italiano perduto."

TURKESTAN
Il capitano non ebbe bisogno di altre spiegazioni e con piglio autoritario si rivolse a Petrovic.
"Lo chiami Macaroni perché ha origini italiane?"
L'oste incominciò a intuire la malaparata.
Annuì e rientrò borbottando
"Al diavolo Macaroni!
Bastardi italiani...", disse, concludendo la frase in Russo.
La cosa non piacque affatto al capitano Manera che, utilizzando lo stesso idioma, gli rispose per le rime.

Eugenio Tupini, altri non era che il ragazzo che aveva inseguito il lupo e fu ammesso alla mensa.
Dopo essere stato rassicurato e rifocillato, entrò a far parte del contingente italiano.

"Ha recuperato italiani ovunque", osservai ammirato.
"Ovunque", mi fece eco il colonnello
.


TORINO
Il servitore spalancò l'immenso portone di cristallo e ferro battuto dove un esausto postino militare attendeva paziente.
Di fronte al cerimonioso inchino del servitore, il postino domandò:
"La marchesa Guerrieri Gonzaga?"
La marchesa apparve, pallida, alle spalle del suo servitore.
Poi, mostrando un piglio insolitamente volitivo, sfilò la busta dalle mani del milite sussurrando al suo maggiordomo:
"Andate pure Antonio."
Rivolta al giovanotto in divisa, confermò con modi affabili:
"Sono io."
La busta era gialla e macchiata di nero e caffè, e la carta era povera e immiserita dai tanti passaggi di mano in mano.
Quando Gemma entrò con la missiva stretta in pugno, la cugina Maria le andò incontro con aria sospesa.
"Se la stropicci in quel modo non ci sarà più nulla da leggere in quella busta", disse alla fine.
"E' una lettera di Cosma."
"Appunto", chiosò la cugina, "si vede che arriva da molto lontano."

Gemma si mise a sedere.
Da un polsino ricamato estrasse un fazzoletto con le sue iniziali e si deterse la fronte.
Quindi, lesse ad alta voce.
"Cara Gemma, nel cuore della notte, alla luce di questa piccola candela, regalo dei miei ragazzi che hanno fuso i rimasugli delle loro, posso finalmente scriverti.
Non sai quanto mi sia di conforto sapere che mi pensi e che partecipi con il tuo impeto e il tuo ardore a quel che accade quaggiù.
Perché il compito, qui, Gemma mia, è durissimo.
Durissimo è fare fronte allo sgomento di questi uomini così smarriti, tanto spaventati e lontani da casa.
Ho chiesto ad alcuni di loro di scrivere quello che gli è capitato e, fra le testimonianze raccolte, ce n'è una che mi ha colpito per il suo candore e che vorrei inviarti."
La marchesa passò alla seconda pagina, più sgualcita della prima, e lesse le seguenti parole:
"Il 16 agosto arrivammo in Galizia, vicino a Leopoli, in una zona di pianura.
Arrivammo col treno di notte, ed eravamo già sulla linea del fronte.
Noi eravamo nei campi di patate e i russi erano trincerati sulle colline.
Andammo all'attacco il giorno dopo.
Attaccammo coi cannoni e coi fucili e riuscimmo a prendere le trincee russe.
Mi ricordo che il fondo delle trincee era tutto coperto di scorze di semi di girasole che i russi mangiavano in continuazione.
Il 5 settembre attaccammo nella zona di Bels;
ma i russi riuscirono a chiuderci in una specie di ferro di cavallo.
Il 7 i russi attaccarono;
erano almeno il doppio di noi e ci ritirammo.
Io feci una lunga fuga di almeno un chilometro e finii in bocca a loro.
Fui fatto prigioniero nel paese di Rovaruska." (Testimonianza di Silvio Zucchelli Riva).



Il treno emise un fischio breve e due più lunghi.
"Beh, da queste righe sembra che quei poveri italiani fossero inviati contro le truppe russe senza grosse speranze.
Una situazione davvero difficile", osservai, rabbrividendo un po'.
"Già.
Difficile.
E per i primi italiani che giunsero al fronte, l'impatto fu traumatico.
Erano giovani, impreparati e, soprattutto, erano partiti con la convinzione che la guerra sarebbe stata veloce.
Purtroppo, come sappiamo, non fu così.
Ad ogni modo, il recupero degli italiani dispersi per il capitano Manera non era solo una missione ma una vera e propria ossessione.
Un'idea fissa, perseguita metodicamente con la perseveranza di chi ha la fede e la determinazione di un padre di famiglia.

Quando giungemmo a Kirsanoff la prima volta, il capitano non era ancora così famoso fra le truppe, ma di lì a poco avrebbe fatto la differenza per la vita di noi tutti
.


Là, fra i sopravvissuti, si respirava, nonostante tutto, un'aria di attesa.
Alcuni fra i più fortunati ce l'avevano fatta.
Perché, dunque, non sperare ancora?
Così, indicando un punto lontano, molto lontano, qualcuno speranzoso puntava il dito verso la via di casa.
Ma intanto per noi fu la volta di..."


VLADIVOSTOCK campo di raccolta
"...Per la via d'Arcangelo ti dico!", sussurrò un soldato semplice a un collega.
"E se i miei conti sono esatti, il primo contingente dovrebbe essere già a casa!
Dunque, perché non dovrebbe essere lo stesso anche per noi?", insistette il ragazzo, appeso coraggiosamente alle stampelle che gli consentivano di camminare, nonostante uno dei due arti fosse stato mutilato.

Fanciullacci si sedette su una staccionata e sfilò dal berretto un paio di sigarette malconce.
Il capitano Manera guardò il ragazzo mutilato per qualche istante, quindi si avvicinò al collega scuotendo la testa.
"Cosa c'è che ti preoccupa capitano?
Ti vedo teso.
In fondo attendono di essere rimpatriati, il peggio è passato.
Lo dicono tutti."

Manera espirò il fumo della sigaretta osservando l'effetto del freddo che disegnava nuvole lattiginose davanti al suo viso.
"Che lo dicano tutti non vuol dire che sia vero", osservò amaro.
Fanciullacci attese in religioso silenzio il seguito.
"C'è un ottuso ottimismo o, se preferisci, una disperata speranza che non ci fa vedere cosa sta accadendo in questa fredda terra, bellissima ma violenta."
"E sarebbe?"
"La rivoluzione, Fanciullacci.
La rivoluzione.
La spinta bolscevica non si fermerà, al contrario di quel che pensano in molti.
Conosco a fondo l'indole di questa gente e ti dico che a breve questo immenso continente sarà paralizzato dalla furia e l'orrore di una guerra civile che noi saremo costretti a subire.
E allora cosa ne faremo di quel ragazzo senza una gamba?
Come potremo rimediargli i medicamenti di cui ancora ha bisogno?
E come faremo con Giovanni?
Guardalo laggiù, mentre tenta di orientarsi fra i campi.
A parte lui, lo sappiamo tutti che la vista non gli tornerà e che presto avrà bisogno di cure molto migliori di quelle che possiamo offrire qui."


Il treno sfilò a gran velocità, tagliando in due prati appena coltivati, casette e colline.
"Ah, quanto aveva ragione!
Ma come per tutti coloro che vedono oltre noi, che non avevamo lo stesso dono, non lo comprendemmo subito.
Ci volle del tempo perché ci rendessimo conto del reale pericolo a cui stavamo andando incontro."
"Quindi, nell'attesa cosa fece?"
"Da un lato poté fare assai poco, ma si dedicò ad allenare i ragazzi"
"Eugenio era ancora con voi?"
"Certamente.
Cosma gli insegnò a leggere e a scrivere e la mattina presto gli insegnava a innestare velocemente la baionetta in volata.
Addestrò tutti quei ragazzi con la cura e la dedizione di un padre.
A quelli più sensibili diede orari e mansioni affinché avessero poco tempo per cullare le nostalgie, a quelli più esuberanti insegnò la pazienza e l'arte dell'attesa.
Spiegò loro la necessità di mantenere l'igiene, di curare il proprio allenamento, di valutare un nemico.

Trasmise loro i rudimenti delle arti marziali, le astuzie per il combattimento corpo a corpo, le possibili abitudini e i punti deboli di un potenziale nemico.
Diede loro un motivo per alzarsi ogni mattina, compiti per sentirsi indispensabili, compagni sempre nuovi per sentirsi nel gruppo.
Una nuova divisa per sentirsi italiani.
Lo adoravano e lui adorava loro."
"Di quanti uomini stiamo parlando?", domandai per appuntarmi sul bordo di un libro la cifra precisa.
"Circa tremila.
E tutti in attesa di rientrare in patria con il cuore gonfio di orgoglio.
Ma Cosma, come al solito, ci aveva visto lungo:
la forza bolscevica impiegò meno del previsto a mettere in ginocchio quella terra, e improvvisamente ci ritrovammo prigionieri nostro malgrado, mentre la Russia era in fiamme.

Quello fu il momento più delicato e cruciale di tutta la nostra missione."



VLADIVOSTOCK
Gli uomini si recarono a mensa con i volti tirati.


Nel cuore di ciascuno, la speranza di divenire il candidato scelto per essere finalmente rimpatriato.
E allora...
Chi recitava preghiere, chi teneva stretto al cuore un vangelo tascabile, unica eredità rimasta della famiglia.
Alcuni si presentarono al punto di raccolta con dagherrotipi che ritraevano figli e parenti, in molti la loro mamma, e qualcuno figlioli mai conosciuti.

Si erano trascinati lì per ascoltare le decisioni del capitano Manera fin dalle infermerie.
Uomini in maniche di camicia a torso nudo, avvolti in blande coperte, nonostante i 40 gradi sottozero congelassero le membra.

Poco più in fondo, altri uomini, mutilati negli arti e nell'anima, attendevano in piedi rigidi, orgogliosi, sorretti dai loro compagni.

Il capitano Manera era chiuso da ore in un piccolo sgabuzzino insieme al soldato semplice Giovanni Fracassini che aveva da poco perso la vista a causa di una granata.
Quando Fanciullacci bussò per avvertire che la mensa era piena di uomini che volevano ascoltarlo, il capitano rispose distrattamente.
Cosa stava facendo?
Fanciullacci vide con stupore che il capitano aveva realizzato un plastico del campo con pezzi di cartone, cerini e cera modellata, affinché Giovanni si potesse orientare su e giù fra i vari padiglioni sapendo sempre come raggiungere l'infermeria.

Manera posizionò la miniatura di una mitragliatrice FIAT REVELLI, modellata su un pezzo di mollica di pane gommoso e stantio, esattamente dove era ubicata nella realtà.
Quindi, prese le mani del soldato e le fece posare delicatamente sulla costruzione.
"Studia bene Giovanni, che da oggi in poi non voglio più vederti piangere."
"Signorsì signore!", esclamò il soldato Fracassini.
Poi, il capitano prese la giacca e uscì, facendo cenno a Fanciullacci di fare strada.

Il capitano Manera attese che tutti facessero silenzio, poi si rivolse alle truppe con il volto tirato e la voce roca.
"Nelle lunghe giornate trascorse insieme a voi in questo campo, ho imparato a conoscervi a uno a uno e oggi so di avere davanti a me dei veri uomini.
Vi ho visto reagire, vi ho visto combattere contro la sorte, il gelo, la disperazione, vi ho visti cadere.
E poi... vi ho visto risorgere.
Vi ho visto mordere la vita, agguantare il vostro destino e dire al mondo e a noi tutti:
'voglio andare avanti'.
Ora so di avere di fronte degli autentici italiani.
Gente che sa darsi da fare di fronte al 'tutto è perduto'."
La platea, attenta e commossa, esplose in un incontenibile urlo di gioia e liberazione.

TORINO
L'ennesina letterina sgualcita si animava fra le mani tremanti della marchesa Gonzaga.
Vicino a lei, l'immarcescibile cugina Maria e una povera donna dall'aria patita con le occhiaie segnate di viola, già sentieri delle molte lacrime.
Si trattava di Enrica Franchetti, bracciante nelle terre della marchesa.
Colei con cui Gemma condivideva la pena e il ricordo del figlio Emilio, partito giovane per la Grande Guerra e dato per disperso da molti, troppi mesi.
"Leggete, leggete", disse Enrica quasi scoppiando in lacrime.
La marchesa con voce incerta lesse.

"Vladivostok, 24 dicembre 1918.
Gemma, l'ho trovato!
L'ho trovato!
Il nostro piccolo Emilio è giunto a Vladivostok ieri l'altro.
Ora è ricoverato in infermeria, gli hanno somministrato dell'adrenalina per evitare che muoia dissanguato, ma i medici sono ottimisti.
Fanciullacci non lo abbandona un istante.
La sorte ha voluto che un suo coetaneo ci lasciasse prematuramente. Purtroppo è il quinto uomo che perdo in questa missione, per cui siamo riusciti a recuperare anche alcune bende per contenere le ferite e tamponare il flusso.
Meglio di questo, credimi, non si poteva fare.
Fanciullacci mi ha promesso (e voglio credergli) che fra un paio di settimane potrò portarlo con gli altri agli allenamenti.
A ogni modo, rassicurate la cara Enrica:
veglieremo su di lui.
Con l'affetto di sempre, vostro Cosma."

Le tre donne si guardarono con gli occhi pieni di lacrime che si sciolsero copiose in un fraterno abbraccio.


VLADIVOSTOCK
I vetri della mensa erano appannati dai fiati di tutti quegli uomini in attesa.
Il capitano bevve un sorso d'acqua.
Nonostante il gelo, aveva la fronte imperlata di sudore.

"Ragazzi, vi ho riuniti perché proprio oggi ho ricevuto l'ennesima conferma che la via del mare ci è stata definitivamente preclusa."

Un'onda di sgomento attraversò la stanza.
Dopo un primo smarrimento, migliaia di occhi traboccanti speranza lo guardarono fidenti in attesa di un accento, un sostegno, una parola di conforto.

"Il porto di Arcangelo è stato chiuso e ogni mio tentativo per potervi imbarcare è vano.
Come tutti voi sapete, Arcangelo era l'unica possibilità rimasta per raggiungere la via di casa."

Mino, il più giovane della compagnia, cominciò a singhiozzare.
In molti misero mano al fazzoletto.
Le immagini ingiallite delle mamme e delle fidanzate in attesa, scivolarono dalle mani irruvidite dal ghiaccio nelle tasche lise e bucate delle uniformi.

Il capitano riprese con maggior vigore il suo discorso.

"Soldati.
So cosa ciascuno di voi sta pensando:
dovevo prendere l'Huntspeal [il piroscafo che condusse in Inghilterra il primo scaglione di redenti che poi raggiunsero la via di casa]!
Dovevo farlo allora, a Settembre!
Altrimenti potevo rientrare nel contingente che salpò a Novembre.
O magari infiltrarmi fra quei 665 fortunati che hanno preso il largo con i francesi....

Sapete cosa vi dico?
Non perdete energie perché ne avrete bisogno.
E' inutile accanirsi contro il destino.
La vostra sorte è questa, e se uscirete da qui con l'idea che il destino ce l'ha con voi, non uscirete da qui migliori.
Gli ostacoli che si metteranno sulla nostra strada possono essere subìti, oppure possono essere accolti e affrontati.
E vi dico anche che piangere o infuriarsi non rivelerà una nuova via.
Inoltre, non è nostra disciplina subire.
Perciò vi dico che noi, come un sol corpo, nonostante tutto, reagiremo!"

Gli uomini, a quelle parole, si caricarono ed esultarono col loro capitano.

Lo scompartimento si spalancò per la consueta visita del controllore che, vidimati i biglietti, si ritrasse discretamente.
"Difficile tenere a bada tutti quei disperati", osservai.
"Impossibile, ma lui ci riuscì.
Ci lavorò indefessamente giorno e notte, notte e giorno, senza tregua.
Scrisse missive, inviò dispacci, trattò compensi, barattò merci.
Avevamo tanta e tale fiducia nelle sue capacità, che ci avrebbe potuti condurre attraverso l'inferno.
E questo fece."



VLADIVOSTOCK e dintorni
"Tien-Tsin?!
Ma capitano, è in Cina, come ci arriveremo?!!", domandò un tenente appena scampato a un'orribile polmonite.
"E' una scommessa già persa, un viaggio impossibile!"
"Signori", disse Manera perentorio, "ho promesso a questi ragazzi che li riporterò a casa e questo intendo fare.
Quindi, muoviamoci, che la buona sorte non sempre aspetta.
L'unico lembo di terra amica in quest'inferno è la concessione italiana di Tien-Tsin.
Ho studiato ogni eventualità e sono arrivato alla conclusione che questa è la sola soluzione possibile."


Così fu.

Alla stazione, l'intero contingente trovò nientemeno che quattro treni in attesa, per l'ammontare complessivo di ben 177 vagoni.
Nelle cuccette i soldati trovarono stufe, cucine, forni per il pane, alimenti e coperte.
Il capitano Manera prese posto per ultimo.
"Ho chiesto che il convoglio sia agganciato al raccordo Transiberiana-Pechino", annunciò ai suoi sottoufficiali ammirati.
Quindi, fu dato un segnale e il convoglio si mosse fra i pianti e la commozione di tutti quei soldati che inneggiavano al valore di papà Manera.

Dopo alcune miglia, il capitano si ritirò nella sua cuccetta e si assopì.

Il treno iniziò il suo lungo viaggio attraverso la Russia, mentre fuori la battaglia infuriava, sovente gelando ogni speranza e obbligando a lunghe e tediose soste.
Allora si taceva, in attesa che finissero gli spari pregando col timore che i bombardamenti si udissero ancora più lontani.
Tempi morti in balia delle temperature, del freddo, della fame e dei venti Siberiani.

In Manciuria, Fanciullacci chiese udienza.
"Hai assaggiato il nuovo pane fatto dal giovane Lazzaro Spontini?", domandò entusiasta il capitano.
"...Te lo consiglio assolutamente... ma... Fanciullacci, cos'è quella faccia?
Per caso ti sei messo di nuovo a dieta?"
Il tenente tacque.
Il capitano si fece serio.
"Sembra che tu abbia visto il diavolo in persona.
Cosa succede?"
"L'hai detto capitano, il Diavolo è fra noi.
E stavolta ha il nome di un batterio insidioso e resistente."
"Che sarebbe?"
"Il sottotenente Viganò, capitano.
Ora non ho più dubbi, ha contratto il colera."


"Oh cavolo!", esclamai esasperato, "Ma non è possibile!!!"
"Può dirlo forte", ammise il mio affascinante interlocutore.
"Perciò, il terzo treno fu costretto a fermarsi.
E fu imposta la quarantena.
Del resto, non si potevano correre altri rischi e il convoglio si fermò sulla spiaggia di Shaw- ha- Kwang.
Là, purtroppo, il soldato semplice Mario Angeletti, diciannove anni, lo ricordo come se fosse ieri, non ce la fece.
Si trattava di una malattia altamente debilitante."

Giunti a Tien-Tsin, per gli altri non vi fu nemmeno il tempo di riposare, poiché ci si doveva presentare alle autorità locali.
Il capitano era ansioso che i suoi ragazzi facessero bella figura mentre la gente del luogo affluiva per assistere alla parata.

Il corpo diplomatico prese posizione nel palco principale.
La gente si accalcava per sbirciare quel contingente di italiani che, da soli, avevano attraversato la Siberia e parte della Cina per arrivare fino a lì, a Tien- Tsin.
La gente fece presto i conti e risultò che avevano affrontato ben 17 paralleli!

Gli uomini del capitano Manera erano provati, ma uniti e orgogliosi.
Suonarono gli inni e i battaglioni dei Redenti all'unisono, marciarono davanti alle autorità con un tale vigore e un tale piglio che pareva di vederli indossare, al posto delle divise stinte e lise, smaglianti uniformi nuove di zecca.

Il passo deciso, gli sguardi attenti fissi davanti a sé, proseguirono così, impeccabili, cantando gli inni che li avevano sostenuti durante il disperato ed eroico viaggio da Arcangelo a Kirsanov.

"Io solo so cosa pensò il capitano Manera quel giorno", disse Fanciullacci.
"Cosa pensò?", chiesi.
"Tornò con i ricordi a qualche tempo prima.
Al giorno in cui, leggendo una missiva, la rabbia e l'offesa lo armarono definitivamente per quella missione.
Me lo confidò tempo dopo... ecco guardi, le ho anche portato il dispaccio.
Legga, legga pure."

Presi il foglio e lessi ad alta voce:

Comando Supremo Imperiale e Reale Austriaco dalla sede di campo 6 agosto 1915
"Come risulta da un rapporto pervenuto dal comando del fronte Sud-Ovest, i soldati di nazionalità italiana non hanno corrisposto durante il combattimento alle nostre aspettative.
Per l'impiego al fronte Sud-Ovest, le compagnie di marcia dovranno pertanto essere costituite da elementi di pura razza tedesca...
Gli elementi di nazionalità italiana dovranno essere assegnati a quelle unità che combattono sul teatro di guerra del fronte Nord-Est (fronte russo).
Spetterà al comando supremo di suddividere in tanti piccoli gruppi questi elementi fra molti reggimenti.
La divisione netta dell'elemento di nazionalità italiana da quello di nazionalità tedesca deve avvenire subito e oltre a ciò le unità di marcia formate da elementi italiani dovranno essere oggetto di una disciplina più severa e di una costante sorveglianza da parte dei superiori tutti."

"Accidenti, a distanza di tutto questo tempo questo dispaccio fa indignare anche me", osservai, sinceramente colpito.

"Già.
Ad ogni modo, quel giorno, a Tien-Tsin, nel cuore della Cina, era nato un nuovo, piccolo esercito italiano di tutto rispetto.

Alla fine della parata, prima di sciogliersi, la voce argentina del giovanissimo Mino intonò una canzonetta a cui gli uomini si unirono.
La conosce?
La cantavamo quando si era giù di morale, per reagire al freddo e al gelo, quando avevamo fame.
Faceva..."
Il colonnello si mise a canticchiare.

"La bela Gigogin la dis, la dis che non vol magnar polenta, bisogna aver pazienza e lassarla maritar.

Beh, lei non ci crederà, ma in quel momento, per la prima e ultima volta in vita mia vidi il capitano, il mio capitano, piangere di commozione.

E mi crede se le dico che, alla fine, molti di quegli uomini, giunti a casa, preferirono estendere la ferma e restare nell'esercito?"
"E il capitano?", chiesi.

"Il capitano Manera tornò in Russia e in Jugoslavia, in cerca di altri italiani.
Ne strappò altrettanti alla morte e a vite vissute di stenti.
Per le sue imprese ebbe ben 27 onorificenze.
Ma senza dubbio, il titolo più alto per lui, fu quello di
papà dei Redenti con cui ancora oggi viene ricordato da chi gli sopravvisse."

Il treno giunse in stazione.
Il colonnello fu preso dalla sua solita premura.
"Forse odia gli addii", pensai fra me e me.
Poi mi disse:
"Faccia buon uso delle cose che le ho raccontato, perché non credo che ci rivedremo e molti di quei fatti non li troverà scritti da nessuna parte.
E parli di lui come di un eroe, perché non ha mai sbagliato ed è stato un faro nella notte per tutti noi."

"Non dubiti, non mancherò!"
Mentre lo vedevo allontanarsi ancora fiero di quel racconto, vidi passare davanti a me la storia e il valore di quella gente e mi accorsi che più di una lacrima mi aveva bagnato il viso
.


FINE DELLA TERZA E ULTIMA PARTE

N.B. I fatti narrati sono su base reale ma le circostanze e l'intreccio dei personaggi sono inventati e drammatizzati.
Per un riscontro biografico su Cosma Manera, attivare il link.

 

 

 

 

 Torna all'elenco dei racconti  Torna al sommario