Azzurrina




[Racconto di Paola Manoni]


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durata 29 minuti



Il prologo

Bianco, biancomangiare!
Ecco come lo si può preparare:

Prendi dei petti di pollo cotti e fanne delle strisce sottili, sottilissime.
Lava, poi, del riso, asciugalo e fanne della farina finissima.
Passa questa farina al setaccio e diluiscila con latte di capra, di pecora o di mandorla.
Metti a bollire in una pentola ben lavata e ben pulita.
Mesta e rimesta fin quando comincerà a bollire.
Allora aggiungi i petti con zucchero bianco e candido lardo.
Fai attenzione a che non s'alzi fumo e mescola, mescola, mescola a fuoco lento... fino a che non sia denso come riso!
Cospargi infine di zucchero in polvere e guarnisci con mandorle sbucciate.


Questo è il biancomangiare!
La mia mammina in gravidanza ne era vogliosa e ne mangiava in abbondanza.
Ebbe gli ingredienti della preparazione originale come prezioso e gradito regalo di Natale: era la ricetta scritta nel Liber de coquina, per preparare il bianco cibo ogni mattina.
Diceva senza indugiare: ho le voglie del bianco mangiare che divorava a volontà a completa sazietà!

Mamma, mammina, tu che alla luna piena intonasti la tua cantilena, promettendo che se fossi rimasta incinta ogni dì avresti bevuto di latte... una pinta!!!

Alla luce bianca della luna passasti il filo nella cruna, cucendo il segreto voto nei bianchi petali del fior di loto.
Mamma, mammina, chi ti parla è tua figlia Guendalina!

E finalmente, un dì glorioso con gioia annunciasti al tuo sposo:
"Oh Signore, signorotto di Montebello, deponi pure del cuore il tuo fardello:
Iddio vuole che tu abbia una prole, premiar la tua pazienza con la giusta discendenza!"

Ma la fine: tutti visser felici e contenti fu solo scritta nei tuoi sogni ardenti...
che furono infranti e che si dileguarono in pianti!!!!

Perché quel che è accaduto non va sottaciuto.

Ogni 21 del mese di giugno la mia storia svelo e propugno a tutti i passanti di Torriana che senza bere il vin d'Albana, da lucidi e sobri ascoltan gli obbrobri quivi avvenuti: d'un fantasma è il racconto che al far del tramonto s'ode dalle mura dello storico castello in quel di Montebello...



 

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Immagine di una regina (Per leggerne la descrizione proseguire nel link). Si vede il busto di una regina che presenta un occhio nero.Particolare del lato destro.Particolare del lato sinistro.
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L'ambiente storico

La mia storia si svolge a Torriana, un Comune della Provincia di Rimini, in zona collinare.
Qui sorge un castello, oggi noto come Rocca dei Guidi, perché di proprietà dell'omonima famiglia.
Un tempo era della mia casata: i Malatesta.
Qui sono nata e qui sono morta.
Anzi no, dovrei dire, scomparsa!
La Rocca è una dimora storica.
La parte più antica risale al terzo secolo, in tarda epoca romana: era una torre a pianta quadrata che fu successivamente inglobata nella struttura del castello.
Il primo documento notarile risale al 1186, quando un certo Ugolinuccio di Maltalone cedette al mio antenato Giovanni Malatesta la proprietà del castello.
La mia famiglia eresse tutto attorno una fortificazione per proteggere la dimora dai Montefeltro, gli storici nemici dei Malatesta.
Il castello sorgeva quasi al confine del territorio dei Montefeltro i quali, militarmente più forti, espugnarono i nostri possedimenti nel 1393 e li acclusero al loro feudo.
Ma nel 1438 il castello tornò ai Malatesta, quando Sigismondo Pandolfo fu in grado di occuparlo nuovamente... tuttavia la riconquista durò per poco tempo.
La fortuna militare declinò a seguito della sconfitta inferta dall'esercito pontificio nel 1462.
In seguito tutto il territorio venne inglobato nel feudo dei conti Guidi di Bagno e il castello, dal 1464 a oggi, rimase proprietà di questi ultimi.
La Rocca venne parzialmente distrutta durante la Seconda Guerra Mondiale e poi successivamente restaurata.
Oggi quel che un tempo fu la mia casa è stato trasformato in museo.
Infatti nel 1989 il castello è stato inserito tra i monumenti di patrimonio nazionale italiano per il suo alto valore storico.
Oltre alle storiche memorie, il luogo tramanda la mia storia, divenuta leggenda: la tragedia di Guendalina Malatesta, meglio nota come Azzurrina.



 

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Immagine una dama (Per leggerne la descrizione proseguire nel link). Si vede il busto di una dama che presenta un occhio nero.Particolare del lato sinistro.Particolare del lato destro.
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La storia

Era il 1369 e una mattina, a conclusione dei doveri coniugali, mio padre disse, rivestendo il suo pingue corpo:
"Donna, mia sposa!
Se non mi dai un erede entro un anno io...
Non mi far dire, ma io... dovrò prendere provvedimenti!", concluse seccamente Ugolinaccio allacciandosi la cintura.
Poi, senza aggiungere altro, uscì dalle stanze di mia madre.
Mia madre, sconvolta, raccontò l'episodio alla sua comare e questa le disse:
"Figlia mia!
L'infertilità è causa di abbandono legittimo da parte dell'uomo!
Tu capisci che per una casata come quelle dei Malatesta, minacciata com'è dagli altri feudi, un discendente è una questione di vita o di morte!
Ti devi far aiutare!
Confessati tutti i giorni, fai ammenda dei tuoi peccati.
Indossa il cilicio e bagnati spesso le parti intime con olio di lino, trifoglio rosso e agnocasto, prima di coricarti con il tuo sposo..."
Inoltre una delle sue governanti, Gisella, la più perspicace, comprese il problema della mamma e un giorno le disse:
"Mia signora, la luna per le donne è come una medicina.
Salite la sera sulla torre e invocatela al plenilunio.
La luna vi ascolterà."
Insomma, la mamma era disposta a fare qualunque cosa per risolvere il suo problema.
Intanto i mesi passavano e nulla accadeva.
Poi un giorno la comare venne al castello perché la mamma non si sentiva bene.
"Che tieni, figlia mia?", chiese la comare.
"Ho un imbarazzo di stomaco", disse mia madre, "ma cosa porti nel tuo cestello?"
In effetti la comare aveva un cesto di vimini ricoperto di stoffa.
Lo aperse e tirò fuori un fagottello in cui vi era una ciotola piena di una pietanza cremosa, ricoperta di mandorle.
"E' il biancomangiare... l'ho portato per te!
Ma se non ti senti...", rispose la comare.
"Fammi provare...", disse la mamma che svuotò la ciotola con grande soddisfazione.
"Ne hai dell'altro?"
"Ma non hai detto di stare male di stomaco?", domandò stupita la donna che poi aggiunse:
"C'è solo un motivo per il quale una donna ha la nausea ma mangia...
Figlia mia... delle tue cose del mese: che conti hai fatto?"
"Non saprei... i conti mi metton l'ansia!", disse candidamente la mamma.
Insomma, comprese di essere incinta grazie al biancomangiare, una pietanza di origine araba, nota dal dodicesimo secolo e assai in voga nelle classi sociali più alte.
Da quel giorno mia madre, per tutta la gravidanza, pensando che quel nobile cibo le avrebbe fatto avere un figlio maschio, continuò a mangiarlo di continuo.
Ugolinaccio non si esprimeva e continuava a frequentare le stanze di mia madre solo per la sua rozza soddisfazione.
Arrivò il giorno della mia nascita nell'anno 1370.
La levatrice mi tirò fuori.
Mio padre sentì il primo vagito e spalancò la porta.
"Mostrami il sesso!", a questa pretesa volgare, la donna alzò le braccia tremanti e replicò con voce roca:

 

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Immagine di una donna stile anni '20 (Per leggerne la descrizione proseguire nel link). Si vede il busto di una donna, stile anni '20, che presenta un occhio nero.Particolare del lato sinistro.Particolare del lato destro.
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"Ma la dobbiamo ancora lavare!"
"Femmina!", urlò sguaiatamente Ugolinaccio e sbatté la porta.
Tutto qui!
Egli era davvero un uomo grossolano, privo di virtù, tant'è che resta sconosciuto alla storia se non per quel che fece di me.
Ricevetti il nome di Guendalina e nessuna festa al fonte battesimale.
Giusto lo stretto indispensabile per salvare un essere femmineo della cui anima non si avevan certezze.
Ma la mamma... la mia nascita l'aveva messa al riparo dall'abbandono: aveva dimostrato capacità riproduttiva!
Di conseguenza, la si poteva ancora considerare una buona fattrice di futura e maschia figliolanza...
Le donne della piccola corte dei Malatesta, le due fedeli governanti, si presero cura di me.
Ero una neonata bellissima con una carnagione candida candida, quasi trasparente, e gli occhi grigio-cerulei.
Ben presto mia madre e le donne fecero una scoperta sconvolgente.
Per quasi un mese era stato cattivo tempo e nelle stanze della mamma filtrava poca luce naturale.
Poi una mattina, ai primi raggi di sole, la mamma mi portò in braccio sulla loggia e lì si avvide che...
"Gisella, Gisella vieni qui!!!", urlò mia madre e la governante arrivò immediatamente.
"Comandate?!"
"Guarda la bambina!", le ordinò mia madre, "Cosa vedi?"
"Nooooo", disse Gisella facendosi il segno della croce, "chiamate un'esorcista!!!!"
"Tu non chiami nessuno!", disse mia madre mettendo a tacere la donna.
In me vi era un segno tremendo, un marchio indelebile, reso ora ben visibile alla luce chiara.
Ero una bimba canuta!
Ero albina!
Nacqui senza peluria e dopo qualche settimana spuntarono i primi capelli bianchi.
Una vera e propria iattura perché essere albini nel Medioevo significava vivere in odore di stregoneria.
Se poi l'albino era femmina, voleva dire che si trattava di un essere ancor più pericoloso, capace di qualunque sortilegio malefico.
Mia madre tenne a bada le governanti comprando il loro silenzio con monete zecchine mentre mio padre, quando purtroppo se ne rese conto, non volle più incontrarmi.
Mi chiamava la bestia e stabilì un perimetro, nel castello, che non avrei dovuto valicare per nessuna ragione al mondo.
E così fu.
Niente sole, niente giardini, niente scoperta del mondo nella mia infanzia infelice.

Ugolinaccio ci mise del tempo a perdonare mia madre per avere generato un essere demoniaco ma poi decise di darle una seconda possibilità, prima di ripudiarla con la figlia del male... e si impegnò a renderla nuovamente gravida.
Stavolta lei, in attesa di un secondo figlio, non rivolse più alcun pensiero alla luna né toccò il biancomangiare che venne per sempre bandito dalla tavola.
La mamma e le governanti cercarono delle cause indipendenti dalla spiegazione satanica.
Pensarono più bonariamente che il motivo del mio albinismo dipendesse da tutto il bianco ingurgitato in gravidanza così come dalla luce pallida della luna a cui mia madre si era lungamente esposta.
Avevano soprattutto necessità di trovare un motivo col quale rendere più lieve la convivenza con me, perché pensarmi creatura del maligno era per loro insostenibile.
L'istinto materno e protettivo prevalse con senso di pietà, anche perché ero una bimba buona e bellissima.


 

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Immagine di una donna moderna. (Per leggerne la descrizione proseguire nel link). Si vede il busto di una donna moderna che presenta un occhio nero.Particolare del lato sinistro.Particolare del lato destro.
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Mamma mi amava e per questo cercava disperatamente qualche soluzione al problema.
Io intanto crescevo e incominciavo a camminare e i miei capelli erano sempre nascosti da una cuffietta.
Ma una mattina la mamma ordinò:
"Portatemi la forbice e affilate un rasoio, di lama sottile, come argento!"
"Vieni Guendalina, vieni da mammina, da brava damina!", diceva suadente la mamma che mi prese in braccio e mi poggiò sulla sedia a dondolo.
Un po' mi dondolava e un po' mi rasava.
Poi raccolse i capelli bianchi, li impiastrò poco alla volta della sua saliva, come a esorcizzarli, e li gettò nel fuoco.
"E così sia!", concluse facendosi il segno della croce.
Nascondendo il bianco della mia capigliatura mia madre sperava di guadagnare la benevolenza di mio padre per convincerlo a concedere un maggiore spazio di libertà, almeno dentro il castello.
Per nessuna ragione al mondo Ugolinaccio voleva far trapelare il dramma domestico.
Se la gente mi avesse vista avrebbe tacciato il castello come luogo del demonio.
E la famiglia sarebbe caduta in disgrazia.
Ma ben presto la mamma e le governanti si resero conto che i capelli ricrescevano bianchi e sempre più rigogliosi.
Allora decisero un'altra strategia.
Le governanti facevano a gara per trovare rimedi:
"Tingiamola con la salvia... c'è un decotto che possiamo preparare!", disse Gisella constatando la robustezza dei capelli ricresciuti.

Bollirono in una pentola di rame la quantità di due o tre bicchieri d'acqua con una tazza di foglie di salvia. Il recipiente doveva essere ben chiuso per evitare che l'acqua evaporasse.
A fine cottura aggiunsero alla salvia il succo di mezzo limone.
Una volta raffreddato, filtrarono il composto con una garza spremendo con forza perché fuoriuscisse tutto il liquido che applicarono subito sui miei capelli... i quali viravano in un colore più scuro, nella tonalità del rosso.
Ma la tintura non teneva e dopo qualche giorno prese una colorazione verso l'azzurro.
Mia madre provò con altre preparazioni: petali secchi di calendula e camomilla, uniti alla buccia di limone e diluiti con aceto di mele.
Ma la diffusione delle mele era assai limitata e dunque non era facile reperirle per ricavare l'aceto.
La ricetta dava un risultato migliore perché la tintura era più duratura sebbene il colore fosse ancora decisamente azzurro.
Stesso risultato con l'amla, un frutto preziosissimo, di provenienza orientale, che la mia mamma si era fatta comprare a Venezia.
Mamma coltivava l'amla per essiccarne i fiori e farne una polvere che mischiava al limone e alla camomilla.
Il risultato però era sempre una colorazione tendente all'azzurro.
Il pigmento bianco dei capelli interferiva con la tintura sicché l'unico risultato era sempre una sfumatura di azzurro più o meno intensa.
Ma questo colore non mi stava affatto male perché si intonava perfettamente coi miei occhi.
Come ho detto era molto graziosa sicché al mio compleanno dei due anni, per provare a impietosire Ugolinaccio mi vestirono sontuosamente con un abito di velluto turchese e azzurro e intrecciarono boccioli di rose nella mia capigliatura azzurra.
Così mi presentarono al mio signor padre il quale vide la sua bestia come una bimba graziosa.
Nonostante il suo pregiudizio fosse rimasto invariato, mi concesse una maggiore libertà di movimento nel castello.
"E va bene!", sentenziò Ugolinaccio, "Camminerà dentro le mura ma non fuori dal castello e sparirà ogni qualvolta che ci saranno visite!"
Poi la mamma ebbe il secondo parto.
La levatrice era pronta a subire lo stesso interrogatorio.
Ma stavolta Ugolinaccio fu soddisfatto:
"Un tocco di toro, nelle membra sode del mio erede.
Guardate che sesso e che vigore!
Oh donne, mescetemi il vino, brindiamo ai Malatesta!", ordinò alle governanti.
Mio fratello crebbe come un bambino viziato, grasso e molto prepotente.
Prendeva i pochi giocattoli che avevo per distruggerli se nessuno glieli toglieva.
Mi avevano inculcato l'idea che fosse migliore di me poiché non aveva difetti.
"Com'è forte e com'è bello, com'è bravo tuo fratello!", mi canticchiavano le governanti vestendomi la mattina.
Ma io non ero d'accordo: sarà stato normale ma non era affatto bello!
Quando imparò a parlare chiamava tutti per nome... tutti tranne me: non conosceva il mio nome e nessuno gli aveva detto che io fossi sua sorella.
Non aveva mai sentito il nome Guendalina perché da tutti venivo chiamata col nomignolo di Azzurrina, vista la caratteristica della mia capigliatura.
Anche la mamma, magari con intenzione benevola, mi chiamava col soprannome mentre Ugolinaccio mi ignorava e basta, cercando persino di non incontrare il mio sguardo.
Però una volta, prima di partire in battaglia disse ai suoi soldati:
"Andate su, dalla bestiola e badate che dorma.
Poi col coltello, tagliatele una bella ciocca azzurra."
I soldati eseguirono l'ordine e tornarono da lui con i miei capelli.
Ugolinaccio li strappò dal guanto del suo fido servitore e disse:
"Bene, allontanerà i nemici!", poi nascose la ciocca dentro il rivestimento di stoffa, nel fodero della spada.
"Servirà pure a qualcosa tenere a casa la creatura del demonio!"
Mio padre era volgare e aveva trasferito tutta la sua villania anche in suo figlio.
Guardavo la mia famiglia con distacco.
Ero abituata alla solitudine e stare in disparte era il mio ruolo, il messaggio mi arrivò chiaro.
Ad esempio, potevo partecipare alla Santa Messa ma senza essere vista.
Infatti nella cappella del castello era stata aggiunta una costruzione di legno, non lontana dal confessionale.
Era una specie di cassa di legno verticale, con una porticina sul retro e una finestrina sul davanti chiusa da una fitta grata.
All'interno vi era un sedile con un cuscinetto di canapa grezza.
Questo era il mio posto.
Venivo portata lì prima dell'inizio della Santa Messa, chiusa a chiave e poi prelevata quando tutti gli altri si erano allontanati.
"Dio non vorrà vedere la figlia del maligno", diceva mio padre, inginocchiato al primo banco.
La finestra della mia stanza aveva un piccolo balcone.
Qui arrivavano le fronde di un folto ippocastano.
Un giorno sul ramo che si appoggiava al parapetto trovai un gattino bianco e nero.
Era salito lungo il tronco.
Io lo attrassi a me e il gattino scese a farmi le fusa.
Chiesi a mia madre del cibo per il gatto e mia madre trasecolò e per tre volte si fece il segno della croce.
"Azzurrina... I gatti si arrampicano sulle mura dell'inferno... non toccare quella bestia!
Allontanala da te e recita tre Ave Maria!"
Quella volta, ma forse solo quella volta, mia madre mi guardò con sospetto.
Come se anche lei pensasse a me come alla creatura diabolica... e questo perché l'interesse per i gatti era un tratto tipico delle streghe!
Io non capivo: il micio era mio amico, era piccolo come me e mia aveva leccato la mano!
Voleva la mia amicizia, il mio affetto, che io non lesinai.
Da quel giorno ebbi un compagno segreto e per lui prendevo dal mio piatto i bocconcini di carne migliori che nascondevo nella manica della mia veste... e senza farmi vedere li portavo in balcone.
Oltre a stare con il gattino, di nascosto, passavo molto tempo a giocare, ovviamente da sola.
Il mio gioco preferito era correre dietro la palla di pezza.
L'avevano cucita per me le governanti, per il mio quinto compleanno.
Era ovviamente azzurra e ruzzolava che era una meraviglia.
Mio fratello ambiva ad averla ma per fortuna riuscivo a difendere la palla dalle sue grinfie.
Era mia e solo mia: glielo avevo fatto capire chiaramente.
Ma in sua presenza cercavo di non giocare.
Anzi, diciamo la verità, ero bravissima a schivarlo.
Come sentivo i suoi passi scappavo di corsa.

Tuttavia una volta non riuscii a evitarlo.
E fu per me una volta fatale.
Era il 21 giugno 1375.
Una terribile giornata di cattivo tempo, buia quasi come la notte.
Solo i lampi illuminavano il cielo e i tuoni facevano tremare la terra in modo spaventoso.
Il mio gatto, al primo scroscio d'acqua, scappò via dall'albero e si mise a riparo sotto il tetto.
Il vento muoveva gli alberi e faceva sbattere le porte e le finestre del castello.
Le governanti che si prendevano cura di me avevano paura dei tuoni e recitavano il rosario.
Mia madre era fuori, impegnata nella visita di una parente.
Il temporale mi faceva paura ma lo spettacolo era bello.
Mi nascondevo, attendevo il fragore del tuono per scappare in un altro angolo della stanza.
Pensai allora di inventare un nuovo gioco con la palla di pezza.
Cercavo di sincronizzarmi col tuono che seguiva al lampo per lanciare la palla assieme al boato.
Questo gioco mi richiedeva una certa concentrazione.
Andò perfettamente bene una volta... poi la seconda volta lanciai la palla in aria in ritardo.
Riprovai e andò ancora a segno... e poi ancora bene per altre due volte.
Ma quando stavo per rilanciare, a seguito di un fulmine potentissimo, apparse all'improvviso mio fratello con un brutto ghigno sul volto.
Veniva verso di me.
Allora gridai e persi il controllo del lancio.
La palla rotolò via e andò giù per le scale, la grande scalinata che non avevo il permesso di scendere da sola.
Mio fratello mi rincorreva e io volevo raggiungere la palla prima di lui sicché non rispettai il divieto.
Al piano terreno, ai piedi della scalinata, vi erano come sempre i due soldati di guardia.
Mio fratello scese di corsa.
Io non mi frenai: scendevo urlando.
Se fosse arrivato prima di me si sarebbe impossessato della palla che non avrei più avuto indietro.
Avevo un vantaggio su mio fratello: ero più grande e dunque con le gambe più lunghe.
Arrivai io per prima ma inciampai sulla palla che così continuò a scendere, giù per il sottoscala.
Caddi in terra, mi rialzai e continuai la folle corsa.
Le guardie non mi fermarono e mi consentirono di oltrepassare il posto di guardia.
Proseguii ancora giù e giù, verso le segrete del castello, dove vi era la ghiacciaia.
Giù e giù e giù... ancora giù, dove non era più percepibile la voce di mio fratello!

Dopo un ultimo rombo di tuono la pioggia si calmò e l'aria si schiarì.
A mezzodì fece ritorno mia madre che subito mi cercò.
Domandò alle governanti che non compresero cosa fosse accaduto perché erano rimaste a recitare le litanie.
Le guardie non parlarono.
Mio fratello, al suono del mio nome, digrignò i denti e non aggiunse altro.
Il castello fu pervaso dalla voce della mamma che continuava a chiamare, invocando il nome di Azzurrina e infine, stremata, anche quello di Guendalina.
Ma nulla, nessuna risposta.
In seguito una guardia parlò, raccontando di aver visto la palla andare giù nel sotterraneo con la bambina che l'inseguiva.
Allora venne perlustrato il sottosuolo in lungo e in largo ma, di me, nessuna traccia.
Le ricerche si protrassero per giorni.
Ugolinaccio venne informato della mia scomparsa.
Il signor padre non fu in grado di dissimulare la sua soddisfazione.
La bestia era scomparsa, la casa e l'onore erano salvi!
La strega era cacciata!
Ora la famiglia sarebbe stata perfetta.
Tre, come la Santissima Trinità.
Non c'era più alcuno di troppo.
Finalmente il castello avrebbe potuto rivivere.
Sì, avrebbe dato una festa, una grande festa ora che non c'era più nulla da nascondere!
Era il 21 giugno 1375.
La mia morte fu rapida.
Le guardie, furono le guardie che, sopraggiunte nelle segrete, mi pugnalarono alle spalle e fecero sparire il mio corpo.
Una morte crudelissima a soli cinque anni.
Ugolinaccio, tempo addietro, aveva dato ordine ai suoi sgherri di assassinarmi appena se ne fosse presentata l'occasione.
Il delitto era perfetto.
Io ero sola e nel buio delle scale, la mamma era assente, le governanti in preghiera e i tuoni a coprire il tumulto, l'orrendo omicidio.
Finii nelle segrete, ma per rimanerne intrappolata.
Il mio corpicino esanime, con molta probabilità, fu murato oppure gettato nelle fognature di cui il castello si serviva, essendo stato edificato su costruzione romana.
Ma l'atrocità del delitto, insoluto, non venne cancellata.
Cinque anni dopo, sempre il 21 di giugno, al solstizio di estate, un pianto di bimba lacerante si avvertì nel castello.
Mia madre svenne, mio padre ordinò alle guardie di trovare l'intrusa.
Ma fu una vana ricerca.
Le urla strazianti di bimba risalirono le scale e risuonarono nelle orecchie di Ugolinaccio e del suo orribile figliolo.
Da allora si perpetua la leggenda del mio fantasma che ha reso famoso il castello.
Nell'arco di diversi secoli vi furono numerosi accadimenti a Montebello: lotte tra casate, distruzione, restauri e ammodernamenti; tuttavia nel castello, ogni 5 anni e sempre il 21 di giugno, si odono lamenti di bimba provenire dalle mura!
Questo è quanto la gente ha raccontato e racconta.
La memoria della mia storia fu tramandata oralmente finché nel diciassettesimo secolo il parroco di una chiesa romagnola la mise per iscritto, unitamente ad altre misteriose circostanze accadute nella regione della bassa Val Marecchia.
Ci sono molte persone interessate a fenomeni paranormali che tuttora indagano.
Ma io, fossi in voi, non mi fermerei alla fantasia popolare che crede nei fantasmi e che ancora oggi mi cerca... ma piuttosto rifletterei sulle vittime accusate di stregoneria: in Italia come nel resto d'Europa.
Pensate a me, strega-martire di soli cinque anni, condannata a morte per essere nata con il colore di capelli sbagliato.
Ugolinaccio si auto-assolse, nel delirio che lo colse in punto di morte:
"Non io il carnefice ma il suo salvatore!
Fu come giumenca sgozzata.
Mea culpa!
Ego te absolvo!
Ma cos'è mai un colpo di lama, uno solo, a paragone di un rogo!
Ars moriendi excusat!
Sì, sì, un rogo ci sarebbe stato!
Arsa viva, strega azzurra condannata e famiglia calunniata.
Morbus insanabilis!!!
Fuochi degli inferi, no... non me, non l'anima mia!
Il Pater dà la vita, il pater dà la buona morte.
Ad mortem!!!!!
Un colpo di lama, sì, sì, uno solo!"
E dopo queste parole, con un rantolò spirò.
Insomma, si convinse che il mio assassinio fu molto più lieve del rogo che mi sarebbe sicuramente toccato se fossi rimasta in vita.
Sicché devo ringraziare l'azione paterna per avermi procurato una morte migliore!
E qui si conclude quanto avevo da raccontarvi... e questa, agli atti, è la versione di Eva.




 

 

 

 

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