Cosa si può desiderare di più di esser bella, elegante, intelligente, colta, ricca e per di più regina?
Ero tutte queste cose assieme, ma nessuna fu sufficiente a garantirmi la felicità.
Nemmeno l'esempio di mia madre Bianca, regina di Navarra, mi fu d'insegnamento per affrontare le esperienze più dolorose della mia vita.
Di lei purtroppo ereditai solo il nome e non il temperamento coraggioso e intraprendente.
All'epoca mia, le famiglie nobili dominavano i propri figli, i quali avevano una funzione sociale per consolidare, estendere, potenziare i diritti feudali su un territorio.
Il matrimonio combinato dai padri per i propri figli era in pratica un'espressione contrattuale per stabilire alleanze.
Alla corte di mia madre, analogamente alle altre corti europee, la pianificazione dei matrimoni dei figli costituiva un'ipoteca per il futuro.
Il mio destino fu deciso nel 1440, ai miei sedici anni, quando fui data in sposa a Enrico, l'erede al trono del regno di Castiglia.
Chiaramente era un matrimonio come tutti gli altri, ovvero di natura esclusivamente politica, per sancire condizioni di alleanza militare e dunque di pace nei diversi territori della penisola iberica.
La mia damigella di corte rimase molto turbata quando apprese la notizia delle mie nozze imminenti.
"Perché sospiri?", le chiesi incuriosita per il suo atteggiamento così palese.
"Perché ho saputo il soprannome che il popolo ha dato al vostro futuro sposo!", disse la giovane dama.
"E dunque???", chiesi spazientita.
Ma la ragazza non volle rispondere.
Io non sapevo nulla del mio futuro marito, non lo avevo mai visto nemmeno ritratto.
In fondo, per quale motivo avrei dovuto mostrare interesse verso un nomignolo, magari attribuito per sola goliardia di popolo, quando a mancarmi era l'intera conoscenza della persona?
Tuttavia, quando finalmente venni a sapere il soprannome attribuito a Enrico rimasi inebetita: ero ingenua e non sapevo il significato di certe parole.
In ogni caso, nei mesi che precedettero le nozze, io e la mia damigella fummo davvero occupate per i preparativi.
"Quattrocento perle!", disse la ragazza, "Il vostro velo nuziale ha un ricamo intrecciato con quattrocento perle di Maiorca: le ho contate!"
L'abito aveva un velo a strascico lungo quasi quanto la navata centrale della cattedrale di Vallodolid in cui si svolse il matrimonio.
Il ricordo della magnificente cerimonia nuziale mi rimase impresso per anni.
L'odore di incenso misto all'effluvio del bouquet di gelsomini bianchi era inebriante.
Anche questo ricordo olfattivo mi rimase impresso negli anni a venire.
Ma finita la festa e sancita l'alleanza politica tra le due casate non seguì il lieto fine delle favole... non vissero tutti felici e contenti.
Negli anni a seguire fui trattata come un'estranea in Castiglia e come moglie rimasi... un frutto non colto...
Enrico preferiva i suoi cortigiani...
Il suo nomignolo: Enrico detto l'Impotente.
Tuttavia la mia sofferenza più grande non fu causata dalla sua diversa predisposizione.
Era la sua totale indifferenza a farmi male perché mi ignorava a tutti i livelli.
Mi aggiravo nel palazzo come uno spettro.
Nemmeno la corte mi aveva accettata: venivo rispettata, ma trattata con diffidenza.
"Mia cara!", disse un giorno mio suocero.
Il re era l'unico ad avere per me del riguardo.
"Sei talmente bella che vorrei prender io il posto di mio figlio, ma non posso.
Enrico ha altre inclinazioni che lo allontanano da te.
Non è tua la colpa, ma ciononostante non posso aiutarti.
Quel che solo è in mio potere è giurarti l'appoggio della Castiglia, se un giorno ti troverai in difficoltà."
Al momento compresi questo discorso in modo superficiale.
Accadde in seguito che feci ricorso a queste parole quando, anni dopo, scoppiò una sanguinosissima guerra civile tra mio padre e mio fratello Carlo.
Un anno dopo il mio matrimonio morì la mamma.
La mia mamma era di indole autoritaria ma ora... come sono fiera di lei!
Il nonno, Carlo III di Navarra, l'aveva data in sposa, nel 1402, a Martino d'Aragona, re di Sicilia.
Sette anni dopo il matrimonio rimase vedova, assumendo il ruolo di regina vicaria di Sicilia.
Ma nel 1415 tornò in Spagna per sposare nostro padre Giovanni d'Aragona.
Non si può dire che la mamma sia stata fortunata con gli uomini.
Prima di rientrare in patria aveva scampato il rapimento del conte di Ragusa, Bernardo Cabrera.
Il conte era molto temuto nel suo territorio.
Aveva un esercito di uomini che rispondevano al suo comando e uno storico castello, fortificato dai Saraceni nell'anno Mille.
Un giorno il conte Cabrera si presentò all'udienza pubblica, presso la corte di mia madre.
Si fece anticipare da un'elegante composizione di zagare dal profumo penetrante, un dono floreale per la sovrana.
Cabrera era noto per essere un donnaiolo, nonostante fosse vicino alla vecchiaia e si muovesse con un certo impaccio per via dei dolori articolari che non lo lasciavano quieto.
Mia madre era nota per sua bellezza.
Quando attraversò il salone delle udienze, con l'andatura claudicante che lo contraddistingueva, trovò le zagare sistemate accanto al seggio dove sedeva mia madre.
"Signora, mia sovrana", disse il conte, "i fiori che vi ho offerto somigliano alla vostra candida bellezza..."
Poi con un gesto disinvolto estrasse da sotto la tunica un cofanetto di velluto nero.
"Ma voi siete più preziosa del dono che vi porgo..."
Con queste parole aprì il cofanetto e mia madre fu abbagliata dalla luce splendente di un diadema tempestato di diamanti.
"Signora, mia sovrana", disse con tono suadente, "vi offro il gioiello e il mio cuore."
"Conte Cabrera, vorreste forse aggiungere ciò che tacete?
'Vi offro il mio cuore affinché per vostro tramite io divenga re di Sicilia'", disse seccamente mia madre.
"Ammettete il vostro vero scopo!"
Il conte Cabrera cambiò espressione nel viso e si ritrasse.
Con evidente fatica indietreggiò di qualche passo, chiamando al contempo le sue guardie, rimaste sulla porta della grande sala delle udienze.
Entrarono due tipacci.
"Picciotti!", disse il conte, "La regina intende porgere visita al nostro castello.
Accompagnatela oggi stesso, il soggiorno l'aiuterà a meditare sulla scelta gravosa che dovrà compiere, per lei e per il futuro dell'Isola."
Le due guardie capirono subito ciò che era stato loro ordinato.
Un rapimento!
Dalla feritoia della sala fischiarono agli altri soldati del conte, i quali entrarono armati e portarono via la mamma.
La misero bendata in una carrozza che la portò al castello di Donnafugata, la residenza dei conti Cabrera.
Ma la mamma era benvoluta tra i suoi sudditi i quali sostennero la sua fuga.
La leggenda vuole che il nome del castello derivi da donna che fugge, in riferimento alla mamma che da lì fu abile a fuggire (anche se altre teorie derivano il toponimo da altro significato).
Di fatto si narra che Bianca riuscì a scappare per le gallerie che collegavano il castello all'aperta campagna e di lì, con le vesti strappate, seminuda e i capelli al vento, arrivò sino al porto, pronta a lasciare il paese.
I vitigni di Donnafugata ricordano il passaggio della mamma nel castello, della dama coraggiosa e in fuga che oggi si associa al buon vino siciliano!
Al rientro in Spagna, come dicevo, la mamma, conservando il titolo regale, sposò Giovanni e da lui ebbe diversi figli.
Quando Bianca morì, per diritto di successione, l'eredità del regno di Navarra sarebbe dovuto andare a mio fratello Carlo.
Ma il nostro perfido padre Giovanni, appellandosi all'interpretazione di una clausola testamentaria, usurpò il trono che spettava a mio fratello, auto incoronandosi re di Navarra.
"Che faccia pure il re, gli cedo lo scettro", commentò mio fratello subito dopo l'azione di Giovanni.
A Carlo non interessava il comando della Navarra, ma la conduzione di un certo intrigo politico in Castiglia che investiva il conestabile Alvaro de Luna.
Per un contrasto insorto proprio nei riguardi di costui, il dissidio tra Carlo e Giovanni arrivò a un punto di rottura molto alto e fu battaglia.
Il vento di guerra si propagò nel resto della Spagna.
Anch'io, ancora presso la corte di Enrico, presi una posizione nello scacchiere iberico.
Mi schierai a fianco di mio fratello.
Intanto in Castiglia le cose cambiarono e ancora una volta la situazione fu a mio totale svantaggio.
Nelle mutate alleanze venne meno il senso del matrimonio politico stipulato, attraverso di me, con la Navarra.
Erano passati anni da quel sontuoso giorno di nozze e il suo profumo d'incenso e gelsomini era divenuto un lontano ricordo.
Una mattina ero intenta a curare le piante sulla loggia del mio appartamento, quando sentii la presenza di qualcuno dietro le spalle.
Mi girai di scatto e lo vidi, a pochi passi dietro di me.
"Enrico! Cosa fate qui, che cercate?!", domandai allarmata.
Enrico era una persona stravagante, per nulla avvezzo alla politica né al governo.
Soprattutto, Enrico aveva una visione della vita fuori dai canoni del suo rango.
"Cerco la libertà!", rispose lui con un tono delicatamente annoiato.
Mi misi a ridere:
"Fantastico! Se cercate la libertà allora siete nel luogo sbagliato!", risposi sarcasticamente tornando subito al mio lavoro.
Ma Enrico non si mosse.
"Sapete che per via della mancata discendenza potrei chiedere lo scioglimento del matrimonio?", disse Enrico in modo scanzonato, mentre con una mano tracciava delle linee sulla terra fuoriuscita dal sacco, sul tavolo della loggia.
Fermai le mani e deglutii con forza per farmi coraggio.
"Ma non... osate!?!!", dissi io veramente sconvolta, "Con quale arguzia vorreste mettere a tacere la vostra vera natura!?"
Senza rendermene conto stavo gridando.
Avrei voluto scagliare contro di lui tutto il mio risentimento sedimentato in anni.
Lo avrei voluto chiamare per il suo appellativo e riscattare in tal modo l'ingenuità della mia adolescenza, ma qualcosa mi trattenne dal farlo.
Non ero in grado di compiere azioni eclatanti.
Infine un senso di distacco, il fatalismo con il quale si accettano passivamente le sconfitte, si impossessò del mio furore che si spense immediatamente.
"E voi, non oserete ostacolarmi!", replicò Enrico per nulla turbato dalla mie parole. "Questo matrimonio dovrà essere sciolto in un modo o nell'altro...
Farò istanza al Pontefice in Roma!"
Enrico senza altro commiato si allontanò.
Il pontefice era papa Niccolò V, il quale fu effettivamente interpellato.
Una delegazione di uomini di chiesa arrivò per constatare il caso matrimoniale.
Mio suocero, che mi aveva sempre rispettato, nominò un legale per tutelare i miei interessi.
L'avvocato, qualche tempo dopo l'apertura del procedimento canonico, mi convocò per rendermi edotta della situazione.
"Mia signora...", disse l'avvocato, "sto cercando di farvi uscire dal vincolo del matrimonio nel modo più soddisfacente per voi ovvero con la riconsegna della vostra dote; ciononostante non riesco a esentarvi da una cosa assai sconveniente...."
"E da cosa, di grazia?", dissi rincuorata dalla notizia relativa alla dote.
"Dovrete sottoporvi a una visita ginecologica pubblica", rispose l'avvocato abbassando il tono della voce.
"Io non mi spoglio di fronte a tutti gli uomini!", replicai, sentendomi già come un animale braccato.
Non ci fu nulla da fare.
La visita si svolse in un'aula del tribunale.
Mi dovetti adagiare su un banco di legno, alzare le vesti mentre un cerusico frugava e tastava le mie parti intime.
Poi riemerse dall'ispezione e disse rivolgendosi al prelato pinguemente adagiato sulla scranna:
"Ella è illibata!"
Gli uomini di chiesa vociferarono tutti sommessamente mentre io giacevo ancora sul tavolo, come a vergognarmi per una colpa non commessa.
La dispensa del matrimonio rato e non consumato arrivò da Roma.
Anziché la verità sul conto di Enrico, circolò un'altra spiegazione: la stregoneria esercitata da qualcuno, fu questa la vera cagione per la quale non si ebbe unione carnale.
Ci fu anche qualcun altro che preferì cercare nella consanguineità la motivazione fondante lo scioglimento del nostro matrimonio.
E' vero, eravamo cugini di primo grado: mio padre Giovanni era fratello di Maria, madre di Enrico... ma quanti matrimoni fra nobili e reali sono stati svolti tra cugini?
Non era questo un caso ammesso con dispensa?
Sia come sia... di fatto fui ripudiata e umiliata e feci rientro in Navarra.
"La mia bella bambina torna vergine dal talamo!"
Furono queste le parole di accoglienza di mio padre Giovanni.
Con lo scioglimento del matrimonio veniva logicamente meno la protezione di mio suocero e mio padre non dimenticò l'alleanza con mio fratello, soprattutto quando Carlo, nel 1452, subì una grossa sconfitta che diede l'opportunità a mio padre Giovanni di disporre l'arresto di suo figlio.
Carlo venne imprigionato e poi costretto ad accettare le imposizioni di nostro padre.
"Diletta sorella", mi scrisse mio fratello, "sono costretto da nostro padre a portare le catene, le quali potranno essere sciolte solo con l'accettazione dell'esilio.
Nostro zio, Alfonso V, mi offre di risiedere a Napoli.
Parto sena rivedervi.
Addio."
Ma anche io non ebbi una vita facile.
Ero in serio pericolo e nessuno si oppose ai provvedimenti paterni presi contro di me.
Per dieci lunghi anni subii miseria e segregazione.
Non avevo denaro, non avevo servitù e mi veniva servito solo cibo di scarto.
Invece Carlo, dopo la morte di Alfonso V e dopo essersi riappacificato con nostro padre fece rientro in patria pattuendo delle condizioni di vita sicuramente più accettabili delle mie.
Ero così emozionata di poter rivedere mio fratello, dopo tanti anni!
Per l'occasione mi cucii un vestito ricavandolo da ritagli di stoffa.
Non avevo niente e men che meno avrei potuto permettermi un sarto.
Ma volevo apparire bella agli occhi di mio fratello per essere all'altezza delle sue aspettative.
"Bianca, sorella adorata!"
Esclamò Carlo appena mi vide, ma subito dopo l'entusiasmo iniziale si accorse subito quanto fossi malandata.
Ero troppo magra e con prematuri segni del tempo sul viso.
Nei miei sogni si era accesa la speranza che mio fratello potesse intercedere presso mio padre e consentirmi uno stile di vita accettabile.
La qual cosa non accadde.
Carlo era interessato a mantenere il rapporto appena ristabilito con nostro padre e non fece alcuna mediazione di sorta per migliorare la mia condizione.
Inoltre, era interessato a stabilire un'amicizia con la sua seconda moglie, Giovanna Enríquez, figlia di Federico Enríquez de Mendoza, ammiraglio di Castiglia, signore di Medina de Rioseco e Conte di Melgar, una donna dinamica e con pochi scrupoli.
Carlo veniva a trovarmi solo per chiedermi qualche consiglio.
"Sorella mia, tu che conosci la famiglia del tuo ex marito, cosa ne pensi di un'unione matrimoniale tra me e la sorellastra di Enrico, Isabella di Castiglia?"
Io risposi stizzita:
"Il tuo problema non è in Castiglia ma qui in Navarra: Giovanni e Giovanna non acconsentiranno mai a queste nozze perché mireranno a trarre un vantaggio migliore con un'alleanza matrimoniale diversa... tu non gli servi!"
"Come sei acuta sorella!
Stai pensando al loro figlio Ferdinando?"
"Esattamente."
"Ma ha solamente sette anni!", obiettò Carlo.
"La qual cosa ha poco interesse", replicai, "si stipulano contratti matrimoniali senza sesso, che all'evenienza si eccepiscono con dispense papali... figuriamoci a chi importa se lo sposo è un bambino!"
Ma Carlo non seguì i miei consigli.
Fu insistente con nostro padre in merito a questa scelta e la tensione tra loro montò nuovamente.
Infatti nel 1460 mio fratello fu nuovamente agli arresti.
Io assistetti inerme al nuovo contrasto.
Tuttavia intervennero le cortes catalane nel febbraio del 1461, decretando che Giovanni dovesse liberare suo figlio e imposero al re un concordato con il quale veniva riconosciuta la legittima eredità di Carlo sul regno di Navarra e la luogotenenza della Catalogna.
Mio fratello aveva finalmente ottenuto la giustizia che tuttavia non poté gustare, per il semplice fatto che morì per avvelenamento tre mesi dopo.
Inutile dire che i sospetti, a ragion veduta, ricaddero su Giovanni e sulla sua consorte, i quali avevano tutto l'interesse a eliminare Carlo.
Tuttavia le cortes non ebbero prova della loro colpevolezza e dunque poterono fare ben poco, se non vietare loro l'accesso alla Catalogna senza l'opportuno permesso.
Da un punto di vista legale divenni io, de iure, l'erede legittima al regno di Navarra!
Una parte della nobiltà navarrese era pronta a sorreggermi e insorse contro mio padre.
Il mio ex suocero, uomo di parola, mantenne la sua promessa nei miei confronti circa il suo appoggio.
Enrico, il mio carissimo ex marito, costretto da suo padre dovette intervenire militarmente.
La Castiglia si univa alle cortes catalane per costringere Giovanni a rinunciare alle sue mire politiche e espansionistiche e soprattutto a desistere dall'assedio di Barcellona.
Forse sono solo io a leggere in tal modo le motivazioni dell'intervento della Castiglia nelle avverse sorti della guerra per la successione della Navarra.
La situazione era comunque instabile e gli interessi in gioco erano molto alti per tutti i diversi schieramenti... sicché interpretai gli interventi che si susseguirono secondo la mia necessità.
Volevo credere che qualcuno fosse con me, che qualcuno volesse intervenire per stare al mio fianco, soprattutto dopo l'ultimo tradimento.
Pur di non perdere potere e consegnarmi il regno di Navarra, come sarebbe stato legittimo, Giovanni strinse un'intesa col suo genero Gastone de Grailly, il conte di Foix che mia sorella Eleonora sposò a soli 11 anni.
Gastone era anch'egli poco più che un bambino quando si celebrò il matrimonio; tuttavia, come si usa in questi casi, l'alleanza tra le due famiglie era sancita e il matrimonio fu consumato in accordo alla loro maturità sessuale.
Gastone era divenuto alleato di Giovanni per sostenere il potere di Eleonora!
Invero era un'idea di Giovanna quella di metter noi sorelle l'una contro l'altra.
Giovanna vide chiaramente questa possibilità quando intuì la totale disarmonia nel nostro rapporto.
Del resto era sufficiente osservare lo schieramento della famiglia nella guerra civile: Eleonora sostenne nostro padre, mentre io ero a fianco di Carlo!
Protestai presso mio padre quando fu sancito il passaggio di poteri sulla Navarra in favore di Eleonora.
La reazione non si fece attendere.
Con la complicità di Gastone fui imprigionata a Orthez, nell'attuale dipartimento francese dei Pirenei atlantici.
Il castello di Moncade divenne la mia prigione.
Eleonora mi veniva a trovare quasi tutti i giorni, sontuosamente abbigliata e profumata.
Io invece era una prigioniera sporca, lacera e affamata.
"Potresti migliorare la tua condizione se solo volessi desistere dal tuo orgoglio...", mi diceva Eleonora rimirandosi gli anelli preziosi alle dita.
Io avevo sete, avevo fame, ero allo stremo, ma non avevo perso la lucidità mentale.
Non rispondevo alla provocazione e continuavo a sperare in qualche intervento esterno in mio favore.
"Un tempo la tua bellezza era rinomata", disse infine Eleonora l'ultima volta che la vidi, "ti ho portato uno specchio: rimira le tue sembianze."
Mi apparve una vecchia avvizzita, coi cappelli unti e lo sguardo vuoto.
Ma non desistevo dal mio proposito: non abdicai.
Eleonora non avrebbe mai avuto da me un documento legale per la successione al Regno.
Mio padre fu sempre propenso alle soluzioni drastiche e, come per Carlo, mi riservò una dose di veleno.
Ma stavolta, per lavarsi la coscienza e non commettere per sua mano un secondo crimine, demandò il lavoro alla sua amatissima figlia, la contessa Eleonora di Foix, la quale ottenne in tal modo la luogotenenza sulla Navarra.
Mia madre fu in grado di scappare da sola da un castello saraceno.
Io invece morii prigioniera, ad Orthez nel 1454.
Avevo il nome della mamma, ma non la sua tempra.
Ma se esser deboli è una colpa, allora sono manchevole e non ho gloria alcuna.
Che la mia voce sia levata adesso, a redenzione di tutti i perdenti e per il riscatto di tutte le donne, mogli per strategie politiche, che nell'ombra hanno sofferto imposizioni e soprusi.
Che sia dunque agli atti, la versione di Eva!
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