La morsa della Sibilla




[Racconto di Paola Manoni]


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durata 22 minuti



Lo zio prete arrivò puntualissimo.
Io me ne stavo tranquilla in camera mia con un carboncino e un pezzo di carta nuovo nuovo.
Mi era venuta un'idea pittorica che non volevo scordarmi e me la dovevo appuntare.
Inoltre non avevo nessuna voglia di parlare col prelato di famiglia e di rivangare i ricordi dolorosi.
Vabbè, mio padre aveva denunciato il fattaccio, ma io volevo far pace col mondo e dimenticare... punto e basta.
Sembrava che non si potesse più vivere in pace... era una questione d'onore, mica solo una pena dolorosa per me!
La cosa, come si può dire...?
Era sfuggita di mano.
Allo zio prete gli scandali piacevano... e non gli pareva vero: ci voleva inzuppare il pane dentro a questa storia torbida.
Ecco perché, appena saputo della denuncia, s'era precipitato a casa nostra.
"Artemisia, è arrivato, scendi!", m'avvisava mia cugina che viveva con noi.
"Vi prego, lasciatemi perdere", avrei voluto urlare, ma non era possibile.
E poiché tardavo, per farvela breve, fu lo zio prete che venne in camera mia.
"Ego te absolvo!", esordì sulla soglia della stanza.
"Grazie zio prete", dissi io con la testa sul foglio, "ma non ho niente di nuovo da confessare", aggiunsi in modo un po' sfrontato.
Lo zio prete non era tipo da scoraggiarsi facilmente, dunque continuò e con voce mielosa mi rispose:
"Pace e bene, ma tutta Roma tra poco parlerà di te."
"Della mia arte?
Sono felice che tra tutti i pittori di Roma si parli de Susanna e i vecchioni, l'ultima mia fatica."

 

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"Artemisia... non parliamo d'arte.
Il fatto denunciato è serio e porterà a un processo", il tono di voce dello zio s'era fatto grave, "il giudice vorrà sapere tutto da te.
E allora, non pensi sia meglio iniziare a dir qualcosa al tuo caro zio prete?"
A quel punto, lo ammetto, rimasi colpita e mi venne l'ansia.
Strinsi il carboncino che mi si spezzò fra le dita.
"Io non so che dirvi... e sono sincera.
Piuttosto, parlate con mio padre che sa tutto", dissi per non andare oltre.
"Ma se è lui che mi ha detto di parlare con te!
Ah, voi artisti siete dei fenomeni!"
Compresi allora che per scrollarmelo dovevo dire qualcosa.
Mi misi seduta, allontanai il bozzetto e, con le mani sporche di carbone, raccontai com'era nata la storia.
"Il Tassi era un amico di famiglia e tutti si fidavano di lui... io ce l'avevo sempre alle calcagna e non lo potevo soffrire.
Ma mio padre s'era fissato che il Tassi poteva, pittoricamente, insegnarmi qualcosa.
Se qualcuno volesse capire il senso del mio quadro famoso, sarebbe chiaro che Susanna sono io e anche chi sono i vecchioni...
Avevo sempre il Tassi addosso che, parliamoci chiaro, come artista non aveva proprio nulla da insegnarmi.
Orazio, mio padre, mi aveva iniziata alla pittura, per seguire le sue orme... ma a tutti gli effetti il mio maestro, il Genio, restava Caravaggio, inutile dirlo!"
"Ma questa non è una buona ragione per fornicare col Tassi, eh!"
For...nicare?
Non ero sicura di aver capito quel termine... capisco meglio i pennelli che le parole, ma qualche sospetto ce l'avevo e quindi m'indignai.
"Ma come?! Oltre al danno, la beffa??!!
Dico... Con uno così brutto, quando mai?"
"Artemisia, non parlare così, o il giudice ti considererà una donna di malaffare!
Sono qui per consigliarti, dammi retta. Già sei un'artista... per giunta donna... che non s'è mai visto né sentito a Roma... quindi sei malvista.
E se tuo padre m'avesse cercato prima gli avrei detto di stare zitto, perché così per te è peggio!"
"Ah no, caro zio prete!
Io sono giovane e ingenua e il Tassi m'ha stuprata! Non c'è altro da dire!"
"Artemisia, e che mi dici di Tuzia?
Quella va in giro dicendo che tu eri compiacente e che lei t'ha vista col Tassi provocante e seminuda!"
"Dico che è bugiarda!
E' questa la sua gratitudine per la mia amicizia?
Le ho fatto anche il ritratto... a lei e a suo figlio!
Mio padre le ha aperto la casa e lei, per tutta risposta, si comporta così!"
"Lo scandalo sta dilagando, su questo non ci sono dubbi.
E non credere che il giudice farà giustizia", più lo zio prete parlava, più mi metteva paura.
Cominciavo a capire che il fatto d'aver subito, per nove mesi, tutti gli abusi da parte di quello schifoso, era verità sotto al sole, ma valeva per me e non per gli altri.
"Sono guai Artemisia e ormai tocca affrontarli."
A questo punto non ce la feci più e mi misi a piangere.
"Ma Orazio, tuo padre, dov'è?"

 

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"Sta al Casino delle Muse", risposi fra le lacrime, "a rimediare ai danni che ha fatto il Tassi sulle volte del palazzo."
"E dov'è 'sto Casino?"
"A Palazzo Pallavicini Rospigliosi."
"Devo parlargli quanto prima.
I giudici li conosco e dobbiamo agire, sennò, anche se sei dalla parte della ragione, sempre che tu ci sia davvero, rischi di finire condannata."
Senza attendere oltre lo zio prete se ne andò.
"Ciao Artemisia, fatti coraggio!
Chiedi l'intervento della Provvidenza che dispensa miracoli!"
"Grazie monsignore farò tesoro di questi consigli."
Là per là rimasi come se m'avessero dato una bastonata; poi ripresi il carboncino per completare il bozzetto e non pensare.
Arrivò Tuzia, l'ipocrita, e le feci dire che non la volevo vedere, ma quella insisteva e s'intrufolò in casa.
Sembrava che sapesse che ero a conoscenza del suo tradimento e di tutti i pettegolezzi che aveva spifferato in giro per Roma.
Allora senza sapere che dirmi, provò a parlarmi di Caravaggio: m'aveva fatto credere di essergli stata amica.
Ma io già non ci credevo prima a quello che diceva... figuratevi ora!
"Senti Tuzia", le dissi, "lascia perdere ché non ti credo e non pronunciare il nome del Maestro invano.
Vai a casa tua.
Non hai impegni?
Qualcosa da fare?
Beh, io sì e s'è fatto tardi, perciò... per favore: vattene!"
Tuzia se ne andò bofonchiando e poi, sulla porta, mi ribadì la sua amicizia.
"Sì, sì, va bene... sarà per un'altra volta!
Ci vediamo...", non avevo proprio nessuna voglia di sentire le sue bugie.
Ora aspettavo gli eventi: innanzitutto il processo che, a seguito della denuncia di mio padre, sarebbe cominciato contro Agostino Tassi.

 

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Quando vidi l'aula del tribunale pensai che di quella scena si sarebbe potuta fare una trasfigurazione infernale.
I giudici con le toghe come diavoli coi forconi... e la gente comune come l'orda dei peccatori.
Quando mi interrogarono la prima volta, raccontai tutti i fatti: quelli che accaddero il 6 maggio 1611 e quelli che continuarono nei mesi successivi.
Sento ancora la voce del giudice che, per prima cosa, mi chiede come mi chiamo.
"Artemisia Lomi Gentelischi, artista", dissi io.
E quello mi riprese.
Mi disse di rispondere solo alle domande... come a dire: chi se ne frega di chi sei e di quello che fai.
In pratica: gli scocciava che avessi aggiunto la qualifica!
Quando arrivammo al sodo, gli avvocati e il giudice mi chiesero chi fosse Agostino Tassi per me.
"E' un amico di mio padre Orazio, artista, il quale s'era messo in testa che Agostino mi potesse dare lezioni di prospettiva.
E guardate un po' come me le ha date!"
Poi vollero sentire il fattaccio dalla mia voce.
Io glielo spiegai a modo mio... e loro, poi, negli atti del processo, ripulirono le mie parole:

"Serrò la camera a chiave e dopo serrata mi buttò su la sponda del letto dandomi con una mano sul petto, mi mise un ginocchio fra le cosce ch'io non potessi serrarle et alzatomi li panni, che ci fece grandissima fatiga per alzarmeli, mi mise una mano con un fazzoletto alla gola et alla bocca acciò non gridassi e le mani quali prima mi teneva con l'altra mano me le lasciò, havendo esso prima messo tutti doi li ginocchi tra le mie gambe et appuntendomi il membro alla natura cominciò a spingere e lo mise dentro.
E li sgraffignai il viso e li strappai li capelli et avanti che lo mettesse dentro anco gli detti una stretta al membro che gli ne levai anco un pezzo di carne
."

Raccontai anche che dopo questo fatto lui promise di sposarmi.
Io, a dir la verità, ci speravo, ma solo perché da violata nessuno mi avrebbe guardata per mettere su famiglia, anche se, ovviamente, mi ripugnava.
Nella mia ingenuità pensavo che sarebbe stata l'unica strada per riscattarmi perché capivo che una donna violentata alla mia epoca, era condannata all'abbandono sociale.
Così, con la scusa del matrimonio, lui continuò per mesi a abusarmi.
Il tribunale cercava le prove e, dopo la mia testimonianza, ci fu quella di Tuzia.
Il giudice volle interrogarla.
Io, a sentire tutte le sue bugie, le avrei dato due bei ceffoni davanti a tutti.
Aveva ragione lo zio prete: le cose non erano facili come m'illudevo io.
M'era presa un'angoscia che non riuscivo nemmeno a disegnare.
Il bozzetto a carboncino non l'avevo più guardato e tutte le mie giornate erano diventate nere... nere come la pece.
Non avevo ancora capito le vere intenzioni di Tuzia nel raccontare la storia in quel modo... ma purtroppo mentre io pensavo... pensavano anche gli uomini del tribunale, che infatti decretarono due cose allucinanti.
La prima: con la scusa che volevano controllare dove fosse la verità, decisero che avrebbero accertato con metodo scientifico quando avessi perso la verginità.

 

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"Ancora?", pensai io e avrei voluto dir loro, "Ma che controllate se per mesi e mesi questo porco è andato avanti..."
Non avevo proprio capito dove volessero andare a parare... e alla fine mi prese un colpo: mi obbligarono a sottopormi a una visita ginecologica.
Me lo disse mio padre che non ebbe il coraggio di precisare che la visita sarebbe stata pubblica, dentro al tribunale...
Di tutto 'sto schifo, l'ispezione delle ostetriche fu il vero colpo basso, anzi, bassissimo.
Ma non c'era niente da fare.
Neppure lo zio prete, che era un ecclesiastico di rango, riuscì a perorare la mia causa per evitarmi quest'umiliazione.
Dovevano verificare pubblicamente.
Il giorno stabilito ero pallida come un cencio... sembravo morta.
Avevo indossato un abitino di panno che le due rozze ostetriche sollevarono di malagrazia, dopo avermi fatto sdraiare su un tavolaccio messo in mezzo all'aula e ricoperto da un lenzuolo.
Intanto la gente parlottava in sottofondo.
Certi vecchi sbirciavano pregustando la scena.
C'era anche chi faceva risolini e chi mi girava le spalle in segno di disgusto.
Vigliacchi, mica avevo la rogna!
E poi c'era quel porco di Agostino Tassi, che ebbe il coraggio di farmi l'occhiolino.
La sua arroganza mi fece salire il sangue al cervello e mi tirai su di scatto.
Allora mi stesero a forza sul tavolaccio, ma la faccia di quel porco mi rimase stampata in mente... un incubo.
Intanto, le due levatrici, Diambra Blasio e Caterina della corte di Masiano, si davano da fare: una mi piegava la gambe mentre l'altra si lavava le mani nel catino dell'acqua per iniziare la visita.
Prima m'ispezionò una e poi toccò all'altra.
E confabulavano fra di loro, tant'è che il giudice le invitò a sbrigarsi.
Alla fine dissero ai signori della corte che non ero più vergine.
"...E da un bel pezzo!", aggiunsero.
Ma come potevano affermarlo?
Scoppiò una gran caciara e tutti mi guardavano con disprezzo mentre ancora giacevo bocconi.
A quel punto non ci vidi più.
Scesi dal tavolaccio e mi misi a urlare:
"Disgraziate!!!
Ma che bugie state dicendo?!
E voialtri, finitela, che non si fischia e non si schiamazza... altro che signori siete!
Io sono una povera artista, una donna abusata: e questa la chiamate giustizia?
Andatevene a casaaa!!!
Massa di cafoni!!!"
Il giudice sbatteva il martelletto ma nessuno gli dava retta.
Scoppiai a piangere, mio padre venne verso di me, mi abbracciò e mi portò via.
Anche se cercava di nasconderlo, piangeva anche lui: si sentiva in colpa d'aver mosso tutto questo caos con la denuncia...
Aveva ragione lo zio prete.
Girammo per i vicoli di Roma e trovammo una locanda appartata, per stare in pace due minuti.
Mio padre mi chiese:
"Che ne dici di questo vinello, piccola mia?"
"Buonissimo padre, va giù che è un piacere", risposi sorseggiando e schioccando le labbra.
Quando uscimmo eravamo tutti e due piuttosto brilli.
Rincasammo che era già sera e mia cugina disse che era venuto lo zio prete, aveva aspettato per ore e poi se n'era andato.
Pare che avesse una notizia da darci, cioè, il secondo fatto... allucinante.
Quella cugina era una un po' impicciona, noi eravamo talmente ubriachi che non le badammo più di tanto e filammo a letto.
La mattina mi svegliai col mal di testa.
Qualcuno si mise a bussare al portone di casa.
M'affacciai alla finestra furibonda:
"Allora?
Chi vi manda?!", urlai sporgendomi per vedere chi fosse.
"Il tribunale, aprite!"
Mi misi una vestaglia e scesi.
Mio padre aveva già aperto la porta e stava leggendo la missiva del tribunale.
"Ma voi siete completamente pazzi... volete farmi veramente arrabbiare!", mio padre era pallido.
Io cercai di sbirciare: era un'ordinanza.
Sapevo leggere, oltre che disegnare, ma non capivo cosa c'era scritto.
"E adesso, che c'entra l'oracolo?", gli chiesi... avevo letto qualcosa a proposito della Sibilla.
Mio padre tergiversava... non mi voleva spiegare.
Dopo pochi minuti di silenzio si sentì male.
Lo vidi sbandare nell'atrio di casa.
Il portone era ancora aperto, così mi misi a urlare in strada.
"Aiutatemi che mio padre sta morendo!!!"
Arrivò subito il salumiere amico nostro.
Mio padre era svenuto e intorno a lui si stava radunando un capannello di curiosi.
"Largo, fategli aria!", urlai io mentre il salumiere gli metteva sotto il naso una bottiglia d'aceto.
Poi raccolse da terra l'ordinanza.
Era un uomo buono, ma non sapeva leggere molto bene... diciamo che s'arrangiava.
Prese il pezzo di carta e si mise in disparte.
Leggeva col dito sulla riga e muoveva la bocca.
Poi si fermò di scatto.
"Ma... davvero?!"
Mio padre, intanto, aveva riaperto gli occhi e replicò, dato che la gente se n'era andata.
"Hai letto bene.
E non so come spiegarlo alla mia Artemisia..."
"Ehi!", intervenni, "Io sono qua e vi ascolto!"
Alla fine, con molta difficoltà mi spiegarono.
Sul foglio avevo letto della Sibilla... ebbene, il giudice, visto il caos che si era scatenato con la visita ginecologica... per capire se la mia testimonianza fosse stata sincera ordinò una tortura: la morsa della Sibilla!
Era un supplizio per le prostitute... perché, infatti, il Tassi s'era difeso dichiarando ch'era andato con una prostituta compiacente!
Comunque, penso che abbiate capito bene: stiamo parlando di una tortura vera e propria.
La chiamavano come il famoso oracolo perché era considerata una prova per capire se veniva detta la verità.
Ti prendono le mani e ti legano le braccia.
Poi t'infilano una morsa di ferro arrugginito con un meccanismo che stringe le dita.
Il giudice domanda e tu rispondi.
Il boia che ti tortura da un giro di vite alla morsa.
Poi il giudice ti ripete la stessa domanda.
E tu rispondi.
Il boia da un altro giro e così via, fino a che non ti zampilla il sangue dalle mani.
Mi misero la morsa della Sibilla e io gli ripetei sempre le stesse cose.
Le uniche che sapevo: la verità.
Non so dire quanto durò la tortura ma urlai e urlai dal dolore e urlai e urlai anche dopo che mi tolsero i ferri.
Il sangue era ovunque e lo zio prete si commosse: lui e mio padre mi portarono via in braccio.
Mi vide un cerusico, amico dello zio, che mi cauterizzò le ferite e mi fasciò le mani.
Le bende m'impedirono di disegnare per più d'un mese.
A causa dello stritolamento avevo anche un paio di ossa rotte.
Ma poi mi lasciarono in pace e le mani guarirono.
Il processo durò ancora alcuni mesi e, finalmente, il 27 novembre 1612 Agostino fu condannato: 6 mesi di lavori forzati, oppure l'esilio da Roma.
Mio padre, invece, s'era dato da fare per trovarmi un bravo pittore fiorentino che volesse sposarmi, un certo Pierantonio Stiattesi.
Io non desideravo più niente, la vita mi pareva solo piatta e non disegnavo neanche più, ma non avevo la forza di ribellarmi a questa decisione.
Da una parte l'idea di sposare un artista e di cambiare aria non mi dispiaceva: volevo lasciare Roma che tanto amavo, ma che con questo processo era diventata invivibile.
Ironia della sorte, mi sposai due giorni dopo la condanna di quel porco, nella chiesa di Santo Spirito in Sassia.
E, manco a dirlo, ci sposò lo zio prete, che mi permise di vestire di bianco... ma io rifiutai e scelsi un violetto pallido senza strascico.
Misi solo qualche fiorellino tra i capelli.
Questa scelta estetica fu la mia sola trasgressione a tutta la vicenda.
Subito dopo il matrimonio riparatore mi trasferii a Firenze, a casa di mio marito, e in seguito tornai a Roma solo per un breve periodo, perché poi andai a Venezia, a Napoli e pure in Inghilterra.
La cosa più bella della mia vita restò sempre l'arte che m'accompagnò ovunque: fu lei la mia unica compagna.
Ecco, ve lo volevo dire, volevo raccontarvi come andarono le cose.
Punto e basta.
E che sia dunque messa agli atti questa versione di Eva!


 

 

 

 

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