Juraj Valčuha: Beethoven Concerto n 4 op.58, Hüseyin Sermet pianoforte
Auditorium Arturo Toscanini di Torino
Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai
Juraj Valčuha direttore
Hüseyin Sermet pianoforte
Ludwig van Beethoven (1770-1827)
Concerto n. 4 in sol maggiore op. 58
per pianoforte e orchestra
Allegro moderato
Andante con moto
Rondò. Vivace
Un concerto rivoluzionario
Tratto dal programma di sala dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai
La morte dell’imperatore Giuseppe II nel 1790 gettò Vienna in una grave crisi istituzionale. Le riforme illuministe e antifeudali scomparirono nell’ombra, la repressione politica divenne un’arte per nobili ingegni, la conservazione dei privilegi un’esigenza primaria delle classi aristocratiche. Francesco I progettò un raffinato regime di polizia; ed era inevitabile che a cadere sotto gli occhi del potere fossero gli intrattenimenti pubblici, eventi necessari, ma pericolosi. I teatri dovevano essere sottoposti a un controllo infallibile; ogni manifestazione artistica doveva passare al vaglio della censura. Ma per la musica, paradossalmente, questa situazione finì per dimostrarsi estremamente favorevole. Andare a sentire Beethoven era molto meno rischioso che affollare un teatro per vedere una commedia di Beaumarchais: per il pubblico del tempo la musica non era ancora un potente veicolo di significati, in grado di trasmettere messaggi di natura sociale o politica, e l’apertura dell’Ottocento fu accompagnata da un acceso interesse per un’attività concertistica, che proprio in quegli anni, grazie ad alcune decisive evoluzioni meccaniche, poteva avvalersi di un pianoforte rinnovato, pronto per conquistare la sensibilità dei contemporanei.
Beethoven fu il primo ad archiviare definitivamente in cantina clavicembali, clavicordi e spinette, per studiare a fondo le potenzialità espressive del pianoforte. Fin da giovanissimo aveva manifestato una grande attenzione per le tecniche costruttive, che proprio in quegli anni stavano contribuendo ad aumentare la sonorità e la versatilità dello strumento. «Si può far cantare il pianoforte», scrisse intorno al 1796, alludendo a una ricerca timbrica che si può toccare con mano in ogni pagina delle sue prime Sonate per pianoforte. E gran parte del suo successo iniziale fu dovuto a un virtuosismo pianistico, che rendeva Beethoven uno degli intrattenimenti privilegiati dalla comunità viennese.
Naturalmente quello del concerto solistico era un genere in grande espansione. Niente di meglio per coniugare il vecchio interesse nei confronti della spettacolarità esecutiva con il crescente appeal del linguaggio strumentale. Beethoven incominciò presto, nel 1794, a cavalcare quell’onda che si stava allungando sul pubblico delle maggiori capitali europee; e nel 1807 il Quarto concerto per pianoforte e orchestra indicò a tutti una strada che andava nettamente al di là del linguaggio Biedermeier, vale a dire quel modo di comporre all’insegna del virtuosismo brillante e delle buone maniere borghesi che molti avrebbero trovato perfettamente attuale ancora ai tempi di Chopin.
La prima esecuzione avvenne nel marzo del 1807 in forma privata a Vienna, nel palazzo del principe Lobkowitz. Ma per la prima presentazione pubblica si dovette attendere il 22 dicembre del 1808, quando al Teatro An der Wien di Vienna lo stesso Beethoven eseguì al pianoforte il suo nuovo lavoro, in una serata memorabile che prevedeva anche l’esecuzione di Quinta e Sesta Sinfonia, della Fantasia corale op. 80, nonché di alcune parti della Messa in do maggiore op. 86: totale, circa quattro ore di musica rigorosamente beethoveniana. L’abbuffata fu ai limiti dell’indigestione, ma a tutto il pubblico fu subito perfettamente chiaro l’alto grado rivoluzionario del Quarto concerto. A lasciare gli ascoltatori a bocca aperta non fu tanto il fatto che l’apertura fosse affidata al pianoforte; già il Concerto “Jeunehomme” di Mozart aveva sperimentato la stessa soluzione formale. Fu piuttosto la sua apparizione in forma pressoché improvvisativa a far trasecolare un pubblico abituato a considerare l’esposizione una solida dichiarazione di intenti: il solista sembra posare le mani quasi per caso su un accordo di sol maggiore; poi prende a ripeterlo, come se cercasse qualcosa; ma non si tratta di un’introduzione: sotto le sue dita sta già respirando il tema principale di tutto il primo movimento.
Come avviene in molta parte della produzione matura di Beethoven è il ritmo a portare per mano il discorso, lavorando su cellule minuscole perfette per tornare a bussare in tutte le sezioni della forma. Anche il conflitto tra i temi principali nasconde un Dna comune; ed è proprio il continuo picchiettio ritmico della prima idea a garantire l’emersione di numerosi episodi visionari in cui Beethoven sembra dimenticarsi momentaneamente del tempo.
Con l’Andante con moto l’impressione è che la sala da concerto si trasformi improvvisamente in teatro. Beethoven lavora sul drammatico confronto tra due personaggi contrastanti (Orfeo che placa le furie, avrebbe detto Liszt): da una parte i soli archi, alle prese con un’idea brusca e tagliente; dall’altra il pianoforte con il suo tema serafico e immateriale, che non tarda a contagiare la furia dell’orchestra. Ma proprio quando le forze sembrano essersi definitivamente spente, ecco emergere dall’ultima nota dell’Andante un Rondò energico e vivace, che nasce sottovoce prima di esplodere in tutta la sua robustezza emotiva. Il tema sembra perfetto per un finale virtuosistico da consegnare allo stupore del pubblico; ma non è nelle acrobazie del solista che risiede l’interesse di Beethoven: inflessioni cameristiche, episodi cantabili, oasi di distensione lirica e divagazioni sognanti si allineano in un percorso del tutto incapace di esuberanze puramente spettacolari.
I pianoforti di Beethoven
Per i primi tre Concerti solistici, Beethoven fece uso di pianoforti non molto diversi da quelli che fino a pochi anni prima passavano sotto le mani di Mozart. Il Walter e lo Stein, posseduti dal compositore, erano entrambi di fabbricazione viennese e provvisti di cinque ottave, esattamente come i clavicembali ancora in circolazione. A questi, però, si aggiunse nel 1806 un Erard, di fabbricazione francese ma con meccanica inglese, che vantava già sei ottave e ben quattro pedali: il primo sospendeva l’intervento degli smorzatori producendo il caratteristico effetto di risonanza, il secondo spostava leggermente in direzione orizzontale la meccanica costringendo il martelletto a percuotere una sola corda (invece di tre), la sordina avvicinava la posizione della martelliera rendendo più flebile il suono prodotto, e l’ultimo era un pedale timbrico che interveniva sulla vibrazione delle corde, ottenendo sonorità simili a quelle del liuto o dell’arpa. Fu l’Erard lo strumento su cui Beethoven compose i suoi ultimi due Concerti pianistici.