Sir Andrew Davis: Chopin Concerto n. 2 op. 21, Nikolai Demidenko pianoforte
Auditorium Arturo Toscanini
Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai
Sir Andrew Davis direttore
Nikolai Demidenko pianoforte
Fryderyk Chopin (1810-1849)
Concerto n. 2 in fa minore op. 21
per pianoforte e orchestra
Mestoso
Larghetto
Allegro vivacep
Dalla Polonia, con amore
Tratto dal libretto di sala dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai
Da sempre si ha l’abitudine di sparare sul pianista, o meglio su Chopin: i suoi concerti sarebbero la prova tangibile di una sostanziale inettitudine a scrivere per orchestra. È questo l’unico j’accuse che pesa da sempre sul repertorio chopiniano: musica che deve nascere e morire con il pianoforte. Ma prima di premere il grilletto, occorre tenere presente alcune coordinate storiche. Siamo a Varsavia tra il 1829 e il 1830; da quelle parti i Concerti di Beethoven erano praticamente sconosciuti, mentre non c’era frequentatore delle sale da concerto che non conoscesse i lavori di Kalkbrenner, Hummel e Field, i rappresentanti del Biedermeier, quel modo di concepire e di produrre all’insegna della coscienza tranquilla e dei buoni affari professionali. La storia della cultura romantica, sempre alla ricerca di miti sui quali proiettare le proprie aspirazioni, stava creando la figura del grande virtuoso; ma non era ancora arrivato il momento dei concerti-spettacolo riservati a un solo grande showman; l’orchestra poteva tranquillamente adagiarsi sullo sfondo, ma serviva per fare serata. Il fiorire di questo nuovo interesse per il genere concertistico si diffondeva anche nei piccoli centri, dove le compagini strumentali erano spesso di matrice dilettantesca.
Dunque lo schema non poteva che cristallizzarsi in una struttura tutta ritagliata attorno al ruolo prevaricante del solista. E allora l’inettitudine di Chopin a maneggiare tutto ciò che non è pianoforte? Un’accusa inaccettabile per il semplice fatto che nessuno, da quelle parti, si sarebbe sognato di porsi il problema; tanto meno Chopin. La scelta era dettata da una consuetudine artistica, figlia di una precisa identità culturale. Casi come il Concerto in la minore di Schumann (1841-1844) devono essere considerati un’eccezione, non la regola. E Chopin, a vent’anni, non vedeva altro che il pianoforte; i concerti gli servivano come bagaglio da portare in valigia nelle tournée europee; e la questione dell’orchestra andava liquidata rapidamente; nessuno vi avrebbe fatto troppo caso. Il Concerto in fa minore, secondo del corpus ma primo in ordine di composizione (1829-1830), è figlio di quel pensiero estetico. L’orchestra, da manuale, espone i due temi principali. Poi attacca il pianoforte, abbandonandosi a una serie di divagazioni che si perdono per strada il materiale della prima esposizione. Il solista deve subito entrare in scena con il suo potenziale virtuosistico; e la coerenza tra i temi e le figurazioni che scorrono sotto le sue mani si fa secondaria; tanto che anche lo sviluppo conserva del tematismo iniziale solo la cellula melodica introduttiva, portandola a spasso per le varie sezioni dell’orchestra. Del secondo tema si perdono le tracce; ma è solo un espediente per farlo rifulgere in tutto il suo splendore in corrispondenza della ripresa, sezione nella quale Chopin sperimenta l’abolizione del primo tema, proprio come avverrà nelle due Sonate op. 35 e op. 58. Lo squarcio lirico del Larghetto resta una delle pagine più felici della produzione polacca di Chopin. L’atmosfera è quella del notturno sospeso nel vuoto: impossibile da maneggiare con gli strumenti della concretezza. Certo, non citare le possibili influenze operistiche sarebbe assurdo, visto il recitativo affidato al pianoforte sul tremolo degli archi. Ma la pagina sfugge a ogni contatto fisico, per volatilizzarsi in quel misterioso cono d’ombra che separa l’immanente dal trascendente. Per tornare con i piedi per terra ci vuole tutta la tellurica irruenza del rondò conclusivo: una mazurca che tende a trasformarsi in valzer, senza disdegnare l’apertura tutta romantica dei corni rubati alle battute di caccia.
Il cuore di Chopin
I due Concerti per pianoforte e orchestra furono gli ultimi lavori che Chopin scrisse in Polonia. La partenza alla volta delle grandi capitali europee si rese necessaria nel 1830, quando Varsavia si rivelò ormai inadeguata a ospitare un talento maturo per il grande pubblico. Da allora la lontananza da una patria che stava soffrendo sotto i colpi della dominazione zarista rimase una ferita aperta nell’emotività di un compositore costretto a seguire da Parigi le drammatiche vicende della sua gente. La malattia di Chopin non fu tanto quell’incurabile problema polmonare che divenne fatale nel 1849; fu piuttosto un senso di inadeguatezza sociale e insieme esistenziale che nemmeno il successo parigino fu in grado di curare. Schumann diceva: «Chopin non può scrivere niente che alla settima o ottava battuta non ci porti a dire: “È suo”»; ma quel marchio di fabbrica veniva dal dolore lacerante di chi è costretto a vivere da straniero anche in una terra amata. Solo dopo la morte Chopin poté ricongiungersi con le sue origini: il suo corpo fu interrato a Parigi, la città in cui si svolsero le esequie funebri con il massimo degli onori presso la chiesa della Madeleine, ma il suo cuore fu traslato a Varsavia, dove ancora oggi è conservato nella Chiesa di Santa Croce.