M. Albrecht: Richard Strauss: Träumerei am Kamin - Vier letzte Lieder
Tratto dal programma di sala dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai
Träumerei am Kamin, Interludio dall’opera Intermezzo op. 72
Intermezzo borghese (1916-1924)
Subito dopo la fine della Prima guerra mondiale, il direttore d’orchestra Robert Storch lascia la casa di Grundsee per andare a dirigere alcuni concerti a Vienna. In sua assenza la moglie Christine accetta l’invito di un’amica: gita in slitta, con tanto di pettegolezzi tutti al femminile. Il pomeriggio, però, si fa più problematico del previsto, perché sulle piste innevate Christine centra in pieno un barone in giro per la valle. Nessun danno, per fortuna; ma il signore ne approfitta per chiedere ospitalità alle due donne. Christine inizialmente è affascinata da quell’uomo senza scrupoli; poi, però, si avvede della sua vocazione al parassitismo, e lo liquida rapidamente sistemandolo nell’abitazione di un amico. Nel frattempo, a casa, trova una lettera nella quale Mieze Maier, donna nota in paese per le sue civetterie, invita il ‘signor Storch’ a un convegno amoroso. Furibonda, Christine scrive un telegramma al marito nel quale gli annuncia di aver chiesto il divorzio. Robert riceve la missiva mentre sta giocando a skat; allibito, cerca di approfondire quella strana vicenda; e in breve tempo scopre l’arcano: la lettera di Mieze non è indirizzata ‘al signor Storch’, ma ‘al signor Stroh’; è lui l’uomo invitato al convegno amoroso; e tutta quella storia non è altro che un bizzarro equivoco. I signori Storch possono fare la pace, senza negarsi il piacere di fantasticare sulle reciproche scappatelle immaginarie.
È una storia borghese quella raccontata da Intermezzo. Strauss cominciò a pensarvi nel 1916, completando il lavoro giusto in tempo per la prima rappresentazione di Dresda del 4 novembre 1924. Dopo tanti soggetti ispirati al mito, alle vicende bibliche, alla storia del Settecento, anche lui sentiva il bisogno di tornare per un istante - un intermezzo appunto - con i piedi per terra. Hugo von Hofmansthal, il librettista di Elektra, Rosenkavalier e Ariadne auf Naxos, non era tipo da subire il fascino della quotidianità. Fu così lo stesso Strauss, dopo l’ulteriore rinuncia di Herman Bahr, a cimentarsi con il testo. Il risultato è un’opera che stringe l’obiettivo sullo scenario borghese, sfiorando i confini del racconto biografico. Nel 1904 la Sinfonia domestica aveva messo in musica il ritratto musicale di una vita in famiglia. Ma Intermezzo forza la mano in una direzione ancora più esplicita, lavorando su scoperte corrispondenze tra finzione e realtà: la vicenda raccontata dall’opera, difatti, non è altro che la trasposizione scenica di un piccolo qui pro quo avvenuto in casa Strauss. Richard diventa Robert; Strauss (che in tedesco vuol dire struzzo) diventa Storch (cicogna); la moglie Pauline diventa Christine; e così via con tutto il contorno: la scenetta familiare animata dal figlioletto Bubi, dalla cameriera di casa, dalle partite a skat (grande passione del compositore); tutti pezzi di un quadro che sta perfettamente all’interno della cornice domestica straussiana. Naturalmente anche la musica contribuisce alla raffigurazione realistica. Un’opera in cui si parla tranquillamente di marmellate, uova sode, gargarismi e slitte non poteva certo abbandonarsi a ricercati simbolismi. Così, dopo gli estremismi vocali di Salome ed Elektra, Strauss poteva provare a ricreare anche sulla scena la duttilità del linguaggio parlato, con passaggi in prosa, melologhi, recitativi secchi e accompagnati.
Tutto di guadagnato, naturalmente, per le grandi apparizioni liriche, con quelle straordinarie pennellate di emotività che possono prendere forma anche tra le quattro pareti di un’abitazione borghese. Gli intermezzi, in particolare, sono uno strumento essenziale per suggerire i trapassi interiori dei personaggi: sfuriate di gelosia, sospetti, ricordi teneri e appassionati. Proprio quello che succede in Träumerei am Kamin (Sogno davanti al camino), uno dei quattro brani strumentali che Strauss pubblicò a parte. Il titolo ricorda i bozzetti infantili di Schumann, alludendo proprio alla serenità di chi ha abbandonato tutto per lasciarsi cullare da un sogno a occhi aperti, riscaldato dal tepore rassicurante del camino. E la musica si comporta di conseguenza, sfoggiando quel suggestivo impasto di trascendenza e immanenza che si può notare anche nelle piccole cose di tutti i giorni. Come se quell’equivoco da opera buffa non fosse altro che un pretesto trovato da Strauss per dichiarare nuovamente amore alla donna sposata più di vent’anni prima.
Vier letzte Lieder per voce e orchestra
su liriche di Hermann Hesse e di Joseph von Eichendorff Frühling
September
Beim Schlafengehen
Im Abendrot
«È così, forse, che si muore?»
C’è qualcosa di particolarmente emozionante nelle composizioni consapevoli di essere arrivate al confine; è la sensibilità di chi osserva il passato dalla fermata successiva, il dolente distacco di un artista costretto a vivere nel presente. Strauss nel 1948, a un anno dalla morte e dopo una carriera entusiasmante scampata addirittura alle censure del nazismo, poteva permettersi di osservare la storia da un’altra dimensione, da un punto di osservazione al di fuori del tempo. Boulez nello stesso anno scriveva Le soleil des eaux, e aveva già alle spalle la Prima sonata per pianoforte; Pierre Schaeffer, a Parigi, stava intraprendendo le prime ricerche sulla musique concrète; John Cage cominciava ad affacciarsi, con le sue cabale di importazione orientale, sulla scena internazionale.
Il mondo stava andando in una direzione molto lontana dalle esperienze dell’Ottocento; per molti, anzi, la Nuova musica doveva cercare una definitiva via di fuga da ogni retaggio del tardo romanticismo. Strauss era ancora lì, a osservare tutto quel brulichìo di esperienze divergenti; ma, dopo aver attraversato cinquant’anni di avanguardie senza dimenticare in nessun momento i fondamentali della grande tradizione romantica, non poteva certo cedere alle lusinghe delle nuove generazioni. Per tutta la vita era riuscito a essere un moderno, mantenendo le radici ben piantate nell’Ottocento; e a ottantatre anni suonati non gli restava che intonare un ultimo definitivo commiato a un secolo che molti pensavano di aver seppellito da tempo.
Il Lied, il genere privilegiato da Schubert, Schumann e compagni, era perfetto per dire addio alla grande stagione romantica. Così come la poesia di Hermann Hesse, anch’essa trapassata nel nuovo secolo trascinandosi un bel po’ di Ottocento, poteva offrire suggestioni ideali all’ultimo progetto di Strauss. Nacquero così, durante un breve esilio tra le montagne della Svizzera, i Vier letzte Lieder (Quattro ultimi Lieder): tre componimenti di Hesse, a cui si accoda un testo di un grande poeta romantico, Joseph von Eichendorff.
Solo il primo Lied racconta un momento di rinascita: Frühling (Primavera) pennella con tratti leggeri l’emozione di una nuova stagione verdeggiante. Gli altri tre descrivono un lungo commiato, che passa attraverso la chiusura dell’estate in September, la fine di una giornata in Beim Schlafengehen (Andando a dormire) e i rossori del tramonto (Im Abendrot). L’addio si rivolge anche al lessico della grande stagione romantica: la voce en plein air del corno in September, la vibrante melodia del violino solista in Beim Schlafengehen, il canto lineare e spiegato in Frühling. Tutte sonorità che non si sentivano più da decenni; ma che in mano a Strauss riescono a far dimenticare ogni classificazione storiografica.
E così, quando l’ultimo Lied si chiude con la domanda «Ist dies etwa der Tod?» (È così, forse, che si muore?), l’impressione è che Strauss voglia cimentarsi con quello stesso complesso sentimento che anche Wagner aveva provato a mettere in musica con la morte di Isotta. La citazione conclusiva da Tod und Verklärung, il poema sinfonico del 1889, allude senza reticenze alla forza volatile della trasfigurazione. Ma l’artificiosa costruzione del trapasso raccontata più di sessant’anni prima ha perso ogni turgore enfatico; e Strauss esprime un lento congedo dall’immanente, come se la morte non facesse altro che spostare l’anima ‘un po’ più in là’: quel tanto che basta per non avvertire più il peso del corpo e della storia.