Vasily Petrenko: Cajkovskij Capriccio Italiano - Respighi Vetrate di Chiesa
AUDITORIUM PARCO DELLA MUSICA
Sala Santa Cecilia
Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia
Vasily Petrenko direttore
Pëtr Il’ič Čajkovskij
(Votkinsk 1840 - San Pietroburgo 1893)
Capriccio italiano op. 45
Data di composizione
1880
Prima esecuzione
Mosca
18 dicembre 1880
Direttore
Nikolaj Rubinstein
Organico
Ottavino, 2 Flauti,
2 Oboi, Corno inglese,
2 Clarinetti, 2 Fagotti,
4 Corni, 2 Cornette,
2 Trombe, 3 Tromboni,
Basso Tuba, Timpani,
Percussioni, Arpa, Archi
Il Capriccio italiano di Čajkovskij
di Gianluigi Mattietti
Tratto dal programma di sala dell’Orchestra Nazionale di Santa Cecilia
La fine del suo matrimonio con Antonina Ivanovna Miljakova e il profondo rapporto che nacque con la ricca vedova Nadežda von Meck, segnarono in maniera decisiva la vita artistica di Pëtr
Il’ič Čajkovskij. La rendita annua che la von Meck garantì al compositore gli permise di abbandonare la cattedra al Conservatorio, di dedicarsi a tempo pieno alla composizione nell’ultimo quindicennio della sua vita, di viaggiare molto anche all’estero, mietendo ovunque grandi successi. Il 1880, che il compositore trascorse tra Mosca, Pietroburgo, Parigi e Roma, e per il resto ospite in residenze di campagna, si rivelò un anno particolarmente prolifico: nacquero infatti pagine orchestrali destinate a diventare assai popolari, come la Serenata per archi op. 48, l’Ouverture 1812 e il Secondo Concerto per pianoforte e orchestra.
Il 16 gennaio di quell’anno Čajkovskij cominciò anche a comporre – a Roma dove risiedeva in quel periodo – la partitura del Capriccio italiano op. 45, che poi completò a San Pietroburgo il
27 maggio, con dedica al compositore Karl Jul’evič Davydov. L’idea di trarre ispirazione da musiche popolari italiane gli era venuta dopo avere assistito ai festeggiamenti per il carnevale
proprio tra le vie di Roma. Ne parlò in alcune lettere alla von Meck: «Stiamo assistendo all’acme del carnevale […]. Naturalmente il carattere di questa festa è determinato dal clima
e dalle antiche usanze […]. Se si osserva bene il pubblico che si accalca in modo così selvaggio sul Corso, ci si convince che l’allegria di questa folla, per quanto possa assumere aspetti davvero singolari, in fondo è sincera e naturale. Non ha bisogno né di grappa né di vino, si inebria con l’aria del posto, con questa carezzevole calura». Inizialmente Čajkovskij aveva pensato di scrivere qualcosa di simile ai lavori di Glinka ispirati alla Spagna, cioè alle due Ouvertures intitolate Capriccio brillante sulla Jota Aragonese e Ricordo di una notte estiva a Madrid (in una lettera a Taneev del gennaio del 1880 scriveva infatti che doveva essere una «Suite italiana su melodie popolari, sul modello delle fantasie spagnole di Glinka»). Non a caso la libera giustapposizione di motivi diversi, la successione di episodi collegati da parentele timbriche e ritmiche più che tematiche, sembra ricalcare la libera successione dei
temi popolari che caratterizza Ricordo di Glinka. Čajkovskij abbozzò l’intera composizione in meno di una settimana, utilizzando alcuni canti che aveva ascoltato personalmente per le strade di Roma, altri presi da alcune antologie, e mirando non tanto all’elaborazione tematica quanto alla ricerca dell’effetto, alla massima brillantezza della scrittura orchestrale, come scrisse alla von Meck in una lettera del 12 maggio 1880: «Non so che valore musicale possa
avere quest’opera, ma sono già da ora convinto che avrà una bella sonorità, che l’orchestra sarà brillante e piena di effetto». La progressione degli strati di colore, di movimento e di tempo, la sapiente orchestrazione, che sfrutta gli ottoni al completo e un nutrito set di percussioni, permettono a Čajkovskij di ottenere una partitura luminosa e vitale, piena di atmosfera, di verve, come un vorticoso girotondo. Ma senza grandi pretese. Alla sua prima esecuzione (che ebbe luogo a Mosca il 18 dicembre 1880, sotto la direzione di Nikolaj Rubinstein) il Capriccio italiano fu infatti criticato per una certa superficialità, e come esempio negativo di occidentalizzazione e di cosmopolitismo, in un periodo in cui la Russia stava riscoprendo con orgoglio il valore artistico delle proprie radici musicali. Il lavoro si apre con un richiamo delle due trombe (Andante un poco rubato), un segnale militare usato dai soldati della cavalleria italiana che Čajkovskij – secondo la testimonianza di suo fratello Modest – aveva udito provenire da una caserma vicina alla sua abitazione romana. Dopo le fanfare degli ottoni si leva negli archi, all’unisono, una melodia dal carattere mesto, che ha l’incedere di una marcia funebre punteggiata dagli accordi ribattuti dei fiati. Lo stesso tema è poi ripreso dai legni in forma imitativa, e accelerato, su un tappeto di tremoli degli archi. Le due parti seguenti (Pochissimo più mosso e Allegro moderato) si basano su canzoni popolari, molto orecchiabili e piene di humour: la prima è un temino semplice e pimpante (in 6/8), “molto dolce, espressivo”, affidato ai due oboi che si muovono per terze parallele sul pizzicato di violoncelli e contrabbassi (questo motivo viene ripetuto da vari strumenti, variato, accompagnato da una
girandola di disegni e controvoci, fino a espandersi su tutta l’orchestra, in un vero e proprio sfoggio di virtuosismo timbrico); la seconda è uno stornello romanesco (in 4/4), pieno di slancio, accompagnato dagli accordi ribattuti degli archi (come una cavalcata), esposto prima da violini e flauto, poi ribadito dalla cornetta a pistoni, con una frase intermedia, leggera e danzante, punteggiata dal tamburello. Raggiunto il suo culmine, questa esplosione di gioia sonora lascia poi spazio alla ripresa dell’Andante, col suo triste melodizzare.
Ma poi la festa riprende: un’incalzante concatenazione di terzine dà avvio a una trascinante tarantella di archi e legni (Presto) – e non poteva mancare in una pagina dedicata all’Italia! Poi una ripresa della prima canzone popolare (ma in una diversa tonalità e con i valori dilatati su
un tempo di 3/4) cantata a squarciagola da tutta l’orchestra (“fff largamentissimo”, Allegro moderato). E alla fine ancora gli echi della tarantella che innescano l’ultimo grande crescendo, culminante in un Prestissimo impetuoso, pirotecnico, un vero tripudio di colori orchestrali.
Ottorino Respighi
(Bologna 1879 - Roma 1936)
Vetrate di chiesa
quattro impressioni sinfoniche per orchestra
La fuga in Egitto
San Michele Arcangelo
Il mattutino di Santa Chiara
San Gregorio Magno
Prima esecuzione
Boston
25 febbraio 1927
Direttore
Sergej Kusevitzkij
Organico
Ottavino, 3 Flauti,
2 Oboi, Corno inglese,
2 Clarinetti, Clarinetto basso,
2 Fagotti, Controfagotto,
4 Corni, 4 Trombe,
3 Tromboni, Basso Tuba,
Timpani, Piatti, 3 Tam-Tam,
Grancassa, Campana, Celesta,
Arpa, Pianoforte,
Organo, Archi
Vetrate di chiesa di Respighi
di Gianluigi Mattietti
Tratto dal programma di sala dell’Orchestra Nazionale di Santa Cecilia
Ottorino Respighi è famoso per la sua “trilogia romana”, i poemi sinfonici Le fontane di Roma, I pini di Roma e Feste romane, scritti rispettivamente nel 1916, nel 1924 e nel 1926. Ma la sua produzione musicale è segnata soprattutto da uno straordinario interesse per le forme e i modi della musica antica: come musicologo si occupò di musica italiana del periodo rinascimentale e barocco; pubblicò e revisionò madrigali di Claudio Monteverdi, e varie composizioni di Antonio Vivaldi e Benedetto Marcello; trascrisse numerose musiche antiche e spesso le rielaborò in alcune composizioni originali, ad esempio nelle Antiche danze e arie per liuto (tre suites per orchestra d’archi composte tra il 1917 e il 1931) e negli Uccelli, suite per piccola orchestra del 1927, basata su brani di Bernardo Pasquini, Jacques de Gallot e Jean Philippe Rameau. Elsa Olivieri Sangiacomo, una sua allieva della classe di composizione, che nel 1919 divenne sua moglie, contribuì poi ad alimentare l’interesse di Respighi per il canto gregoriano e per i modi antichi, fonti primarie di ispirazione per molte composizioni come il Concerto gregoriano per violino e orchestra, composto nel 1921, il Concerto in modo misolidio per pianoforte e orchestra del 1925, Metamorphoseon – Modi XII, tema e variazioni per orchestra del 1930, ma anche il Quartetto dorico del 1924, e i Tre preludi sopra melodie gregoriane per pianoforte che Respighi scrisse a Capri nel 1919. Elsa ricorda la composizione di questo ciclo pianistico nella sua biografia: «Questa composizione rispecchia lo stato d’animo di Respighi in quel periodo: gioiosa meraviglia di una rivelazione (la scoperta del gregoriano) e insieme mistica esaltazione di un profondo senso religioso». Da questi Preludi Respighi ricavò, sette anni dopo, una più ampia composizione sinfonica che intitolò Vetrate di chiesa, “quattro impressioni per orchestra”: trascrizione per grande orchestra dei tre pezzi pianistici con l’aggiunta di un quarto movimento composto ex novo. In questa partitura, portata a termine l’8 ottobre del 1926 (la prima esecuzione fu diretta da Sergej Kusevitzkij a Boston il 25 febbraio 1927), Respighi dà sfoggio della sua maestria orchestrale, ereditata da Rimskij Korsakov: con un materiale tematico modale, piuttosto semplice, crea un efficace gioco di
contrasti, alternando pieni e vuoti, sfruttando abilmente gli slittamenti armonici, e i continui trascoloramenti timbrici. L’uso del cantus planus si unisce qui ad espliciti richiami al mondo
religioso e liturgico (evidenti in tante altre sue composizioni, nei riferimenti ad esempio alle catacombe, ai santi, ai luoghi sacri). Ma non si tratta di musica descrittiva o a programma,
perché il titolo della composizione, così come quelli dei singoli movimenti, furono decisi a posteriori, grazie anche ai suggerimenti dell’amico e librettista Claudio Guastalla.
Il primo movimento fu così intitolato La fuga in Egitto – con riferimento al Vangelo di Matteo (II, 14) e a queste parole riportate in partitura: «… La piccola carovana andava per il deserto, nella notte vivida di stelle, portando il Tesoro del mondo» – probabilmente per l’atmosfera nostalgica e un po’ orientaleggiante che avvolge il primo dei tre Preludi (Molto lento). Le sue melopee per gradi congiunti, punteggiate da melismi, hanno un andamento ondeggiante, privo di scansioni ritmiche, sottolineato dall’accompagnamento sincopato, dal metro di 5/4, da un’orchestrazione languida, che ricorda Shéhérazade di Rimskij-Korsakov. Il movimento si apre con una linea del clarinetto (“piano e con grande espressione”) seguita da uno slancio lirico del violoncello (“ben cantato”) e dalle ampie volute ancora del clarinetto, dalle frasi degli archi piene di pathos. Nella sezione centrale (Meno lento) – contrassegnata anche da un improvviso cambio di tonalità – emerge un tema espressivo più gioioso, imperniato su una triade di sol maggiore, e accompagnato da continui rigonfiamenti orchestrali. Nella ripresa (Tempo I) il tema principale viene ripresentato in una dimensione timbrica straniante, raddoppiato in registri estremi dal flauto e dal clarinetto basso, con la frase lirica di risposta affidata questa volta ai violini, che hanno anche spazio per una breve perorazione (Largamente), prima che il movimento si concluda spegnendosi sugli echi di oboe e clarinetto e dei disegni sincopati degli archi. L’atmosfera cambia radicalmente nel secondo movimento (San Michele Arcangelo), per il quale Respighi e Guastalla hanno scelto uno dei sermoni di San Gregorio Magno (il XII, sul Vangelo di Matteo 7-8), che evoca la lotta tra gli angeli e i demoni: «E si fece un gran combattimento in cielo: Michele e i suoi Angeli pugnavano col dragone, e pugnavano il dragone e i suoi angeli. Ma questi non prevalsero, né più vi fu luogo per essi nel cielo». La scena di battaglia è suggerita dal carattere drammatico di questa pagina (Allegro Impetuoso; Tempestoso nella versione pianistica) nella quale si scatena tutta l’orchestra intorno a due temi principali: il primo, esposto fragorosamente da tromboni, tuba, fagotti e archi gravi, è un tema stentoreo che si staglia contro le fanfare dei corni e le scale cromatiche dei legni e degli archi. Questo primo tema poi si frantuma in brevi cellule ritmiche, e quindi si trasforma in una pura superficie timbrica (Più vivo) che funge da ponte verso il secondo tema. Questo viene esposto dai corni nel registro acuto e dal corno inglese con un carattere insieme epico e dolcemente espressivo (pur legandosi ancora al primo per la caratteristica figura di terzina). In un improvviso squarcio meditativo (Lento) la tromba sola,
fuori scena (“molto lontana”), riprende il tema principale per aggravamento, con gli echi del flauto, dei clarinetti e dei violini, prima del crescendo finale che si conclude con un fortissimo (fff) di tutta l’orchestra. Il terzo movimento riprende il melodizzare modale e il tempo di 5/4 del primo movimento, con un’intonazione intimistica, quasi di una preghiera. Il riferimento letterario e religioso qui è a Santa Chiara, fondatrice della Monache Clarisse, e ai Fioretti di San Francesco (XXXIV): «Ma Gesù Cristo suo sposo, non volendola lasciare così sconsolata, sì la fece miracolosamente portare dagli angeli alla chiesa di Sancto Francesco, et essere a tutto l’uficio del Matutino…». Le sonorità delicate dell’arpa, della celesta, delle campane, gli improvvisi slittamenti tonali, il semplice melodizzare, l’incedere ieratico di tutte le linee stru-mentali che si intrecciano per poi spegnersi in un progressivo rallentando, contribuiscono a creare un’atmosfera rapinosa e contemplativa, come in un chiostro. Il finale (San Gregorio Magno) è concepito come una grande fantasia sul Gloria della Missa VIII “de Angelis” e porta in epigrafe una frase tratta dal Graduale Romanum (Commune Sanctorum, 33): «Ecco il Pontefice Massimo!... Benedite il Signore… intonate l’inno a Dio. Alleluia!». Da un iniziale sfondo sonoro carico di mistero, dominato dalle risonanze delle campane e di altri strumenti (Lento), prende forma il tema gregoriano introdotto dai corni con sordina (“lontani”) accompagnati dallo scampanio di arpa, celesta e pianoforte. Un nuovo episodio (Moderato), che sovrappone una specie di cantus firmus a valori lunghi e disegni di crome, genera un rapido crescendo e una progressione dal grave all’acuto che porta a un culmine di densità e di tensione. Un lungo assolo dell’organo reintroduce il tema del Gloria, che viene ripreso prima
dai violini (contrappuntato da un movimento frenetico delle trombe e dei legni), poi dai legni (con un accompagnamento cristallino, affidato ad archi con sordina, arpa e celesta). Il movimento si conclude con un epilogo grandioso (“come un’incoronazione papale in suoni” secondo Edward Johnson): l’ennesimo crescendo che prende le mosse da un Lento e che
esibisce in maniera stentorea il tema principale, affidato alle trombe e ai tromboni.