Antonio Pappano: Dukas L’apprendista stregone – Bartók Concerto n. 2, Yuja Wang pianoforte
AUDITORIUM PARCO DELLA MUSICA Sala Santa Cecilia
Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia
Sir Antonio Pappano Direttore
Yuja Wang Pianoforte
Paul Dukas
(Parigi 1865 - 1935)
L’apprenti sorcier (L’apprendista stregone)
Scherzo Sinfonico da una ballata di Goethe
Béla Bartók
(Nagyszentmiklós, Transilvania 1881 - New York 1945)
Concerto n. 2 per pianoforte e orchestra
Allegro
Adagio. Presto. Allegro
Allegro molto
Paul Dukas
L’apprenti sorcier (L’apprendista stregone)
Scherzo Sinfonico da una ballata di Goethe
Data di composizione
1897
Prima esecuzione
Parigi, 18 maggio 1897
Direttore
Paul Dukas
Organico
Ottavino, 2 Flauti, 2 Oboi,
2 Clarinetti, Clarinetto basso,
3 Fagotti, Controfagotto,
4 Corni, 2 Trombe, 2 Cornette,
3 Tromboni, Timpani,
Percussioni, Arpa, Archi
Le musiche in programma
di Nicola Campogrande
L’apprendista stregone di Dukas
Tratto dal programma di sala dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia
Era poco più giovane di Debussy, un po’ più vecchio di Roussel e dieci anni maggiore di Ravel, Dukas, uno dei compositori più perfezionisti della storia, ipercritico nei confronti delle sue opere, capace, in un’intera vita di lavoro, di licenziare solo una dozzina di partiture, distruggendone, pare, molte altre che non riteneva all’altezza (si parla di una Seconda Sinfonia, di molta musica da camera, di un’opera sul soggetto della Tempesta shakespeariana). Certo, i suoi termini di confronto non erano trascurabili: Dukas era un critico musicale perspicace e buon amico non solo dei compositori che si citavano ma anche di d’Indy, di Fauré, di Albéniz e di altri membri della scatenata vita musicale parigina di inizio Novecento. Fu a lungo professore al Conservatorio della capitale francese, prima insegnando orchestrazione e poi, dal 1928, composizione (il suo migliore allievo fu senz’altro Olivier Messiaen), e aveva dunque tutti gli strumenti per valutare oggettivamente la propria produzione; ma, a giudicare dalla qualità eccelsa di ciò che ha voluto lasciarci, viene da pensare che i suoi manoscritti dati alle fiamme siano comunque una perdita per la storia della musica. Soprattutto oggi che una concezione plurale del Novecento non ci spaventa più e ci permette anzi di godere del fatto che, accanto al nuovo clima musicale creato da Debussy, da Stravinskij, da Schönberg, da Bartók, potessero esistere esperienze musicali come la sua, armonicamente legata all’eredità wagneriana e segnata da un suono sontuoso e lussureggiante come
la musica russa di fine Ottocento. Era un compositore di retroguardia, se si vuole, ma grazie al cielo
non è di sola avanguardia che si nutre il mondo della musica.
L’apprendista stregone, del 1897, è senza dubbio il suo brano più celebre, se non altro perché passato alla storia nel 1940 nell’interpretazione disneyana con Topolino come protagonista: il pezzo fa infatti parte di Fantasia e, per la cronaca, detiene il primato di esser stato il primo lavoro con destinazione cinematografica inciso in stereofonia (Stokowski, il celebre direttore che firmò la colonna sonora del film, lo registrò con alcune sovraincisioni, per ottenere l’effetto, all’epoca pionieristico).
La sua ispirazione, invece, viene da lontano: Goethe, per la sua ballata omonima, la prese in prestito da Luciano di Samosata (II secolo d.C.), e lo scrittore greco l’aveva scoperta a sua volta nel corpus dell’antica letteratura egizia (Eucrate, l’apprendista stregone era il titolo preciso). Come è noto, vi si narra di un apprendista che, approfittando dell’assenza del proprio maestro, decide di dar vita ad alcune magie per conto proprio. Per farsi aiutare a pulire il laboratorio lancia dunque un incantesimo sulla scopa, che diventa viva e comincia a portare secchi d’acqua che rovescia sul pavimento. Con orrore, tuttavia, l’apprendista scopre di aver dimenticato come fermare la scopa. Prova a spezzarla in due, ma si accorge disperato che entrambe le metà hanno vita e continuano a muoversi, sempre più veloci. L’acqua minaccia ormai di allagare il laboratorio quando lo stregone ritorna, giusto in tempo per evitare la catastrofe.
Nel mettere in musica la vicenda – e mai la definizione di Scherzo sinfonico sembrò più appropriata
– Dukas, dopo avere annotato il testo di Goethe in esergo alla partitura, comincia con un’introduzione lenta, che, con l’uso geniale dei legni, dell’arpa e di suoni armonici degli archi, evoca lo stregone ed i suoi incantesimi. Un colpo di timpani lancia poi la corsa dell’azione, con il fagotto che propone il celebre tema principale (e già lo amiamo, a quel punto, e ci sembra noto, perché non è altro che il tema dell’introduzione proposto a una maggiore velocità). Di lì in avanti, alternando o sovrapponendo il tema ad altro materiale, si susseguono una serie di variazioni,
timbricamente sempre più eccitanti, arrestate da una pausa temporanea nella quale il controfagotto, in evidenza, propone le prime note del tema; dopo pochi istanti, però, le declinazioni del tema riprendono in un fugato di grande efficacia, nuovamente lanciate nella loro corsa sino a che la ripresa del tempo lento dell’introduzione annuncia il ritorno dello stregone.
Béla Bartók
Concerto n. 2 per pianoforte e orchestra
Allegro
Adagio. Presto. Allegro
Allegro molto
Data di composizione
1930 - 1931
Prima esecuzione
Francoforte, 23 gennaio 1931
Direttore
Hans Rosbaud
Pianoforte
Béla Bartók
Organico
Pianoforte solista,
Ottavino, 2 Flauti,
2 Oboi, Corno inglese,
2 Clarinetti, Clarinetto basso,
3 Fagotti, Controfagotto,
4 Corni, 3 Trombe,
3 Tromboni, Basso tuba,
Timpani, Percussioni, Archi
Il Secondo Concerto per pianoforte e orchestra di Bartók
Se trascuriamo qualche precedente storico, fu di fatto Mozart ad inventare il genere del Concerto per pianoforte e orchestra. Lo fece per necessità di autoconsumo: gli servivano partiture da suonare, così da poter mostrare il proprio virtuosismo alla tastiera e procurarsi nuovi incarichi. Fece lo stesso
Beethoven, e lo fece Liszt così come molti altri compositori che, sino alla prima metà del Novecento, erano anche interpreti di se stessi – si pensi a Rachmaninoff, a Prokof’ev, a Stravinskij. Accadde anche con Bartók, che compose i suoi due primi Concerti per pianoforte, a pochi anni uno dall’altro, per allargare la propria offerta musicale e mettersi in mostra sul mercato internazionale (il Terzo sarà composto per la moglie Ditta Pasztori).
Splendido pianista, Bartók lasciò che lo strumento divenisse per lui un motore creativo di enorme importanza per lo sviluppo del proprio stile. “La natura stessa del pianoforte lo rende davvero espressivo soltanto se si segue la tendenza attuale ad utilizzarlo come strumento a percussione”, scrisse, ed è evidente che non solo l’aspetto timbrico ma anche quello prosodico, di articolazione delle frasi nella sua musica ha a che fare con questa convinzione. Il che non significa, naturalmente,
che questo ideale percussivo si debba ridurre ad uno stile “barbaro”, basato su gesti musicali invariabilmente aggressivi – la produzione di Bartók è piena di momenti di straordinaria dolcezza. È però importante avere in mente la sua posizione estetica a proposito dello strumento, perché è dalla sua scrittura per pianoforte che spesso nasce l’idea stessa del suo comporre. Lo si era ascoltato nel 1926, quando Bartók aveva composto il Primo Concerto per pianoforte e orchestra: oltre ad alcuni echi neoclassici, peraltro molto in voga tra i compositori dell’epoca, la partitura offriva una realizzazione estremamente concreta dell’idea timbrica dell’autore: il pianoforte è utilizzato come uno strumento a percussione in mezzo ai timpani, alla grancassa, al rullante, ai piatti, al tam-tam. Ne era venuto fuori un lavoro di grande forza, estremamente virtuosistico e perfetto per dichiarare al mondo chi era il compositore (e il pianista) Béla Bartók.
Il Secondo Concerto per pianoforte e orchestra va inteso come seguito di questa esperienza, e in parte come sua evoluzione in una nuova direzione. Grazie alle lunghe tournées, la reputazione internazionale del Maestro era cresciuta enormemente, e Bartók sentiva la necessità di avere tra le mani qualcosa di nuovo da presentare al pubblico. Aveva anche nella testa la consapevolezza che alcune difficoltà di ricezione del Primo Concerto erano legate all’incompetenza dei direttori – alcuni dei quali, peraltro, erano le indiscusse star dell’epoca. La novità della musica, le nuove difficoltà cui andava incontro l’orchestra, avevano infatti spesso prodotto esecuzioni insoddisfacenti: come scrisse più tardi lo stesso compositore, “la scrittura del Primo Concerto è un
po’ difficile – forse si potrebbe dire ‘molto difficile’ – sia per l’orchestra che per il pubblico”. Con il Secondo Concerto aveva dunque voluto scrivere un brano “che contrastasse con il Primo: un lavoro che possa essere meno irto di difficoltà per l’orchestra e il cui materiale tematico sia più piacevole. Questa intenzione spiega il carattere piuttosto leggero e popolare di molti dei temi del mio ultimo Concerto…”.
Sia chiaro: l’espressione “piuttosto leggero e popolare” non significa che Bartók abbia scritto “musica leggera”. Quello che Bartók aveva in mente era comporre qualcosa di più lucido, di più chiaro e dunque di più facile da afferrare. Certo, il Secondo Concerto è fatto di musica meravigliosamente gradevole anche al primo ascolto, ma anche qui Bartók non scende a compromessi nel complesso sviluppo delle proprie idee. L’architettura complessiva del lavoro è infatti rigorosamente pianificata e rivela la fascinazione per la simmetria dei motivi da sempre subita dal compositore. Superficialmente la forma sembra riproporre lo schema tradizionale dei concerti per solista e orchestra, con due movimenti veloci in mezzo ai quali è incastonato un movimento lento. L’Adagio centrale, tuttavia, il vero centro gravitazionale della partitura, è
costituito da tre sotto-movimenti, con due sezioni lente che circondano un Presto turbinante – Bartók ha descritto questo movimento come “un Adagio che contiene uno Scherzo come nucleo”.
A sottolineare ancora la sua passione per la simmetria, le due sezioni lente di questo secondo movimento si rispecchiano l’una con l’altra, come due valve della stessa conchiglia, benché la seconda contenga alcune varianti. E, allo stesso modo, i due movimenti esterni, veloci, sono costruiti a specchio, con il finale che riprende materiale tematico del primo tempo, benché in forme diverse e in modo tale che questa parentela non sia sempre immediatamente riconoscibile.
Il risultato, piuttosto sorprendente, è che, nascosti nel calco illusionisticamente falso della forma tripartita consueta, si ha l’impressione di ascoltare cinque movimenti distinti che tracciano una forma ad arco attraverso l’intero Concerto (con una struttura A-B-C-B-A). L’idea bartokiana del pianoforte come strumento a percussione è determinante anche nel definire la trama e il colore timbrico di ogni movimento, non solo nelle parti pianistiche ma nell’orchestrazione stessa: mano a mano che il Concerto procede, lo strumento è circondato da un fondale cangiante, che arricchisce
ulteriormente la percezione della struttura complessiva. L’Allegro iniziale prevede l’utilizzo dei legni, degli ottoni e delle percussioni, escludendo completamente la massa degli archi; violini, viole, violoncelli, contrabbassi si ascolteranno per la prima volta solo nelle sezioni Adagio del secondo movimento, dove riempiranno l’intero spazio sonoro insieme ai timpani; legni ed altre percussioni li raggiungeranno per il Presto che costituisce la sezione centrale mentre sarà solo nel finale Allegro molto che tutta l’orchestra suonerà insieme. Con questi ingredienti e versandolo nel calco formale che si è visto, Bartók costruisce un primo movimento nel quale gli echi di ottoni dal sapore barocco sono fortemente presenti e sembrano quasi germogliare dalla scrittura pianistica: il senso di slancio, la continua spinta in avanti che ne derivano sono entusiasmanti e, seppure nel controllo formale lucidissimo che prevede una ricapitolazione finale, si ha in ogni istante l’impressione di musica che sgorghi fresca e inaudita, battuta dopo battuta.
L’Adagio è un esempio della capacità di Bartók di creare atmosfere notturne cariche di magia ed è aperto da un corale degli archi con sordina, senza vibrato, che si muovono su quinte vuote sopra rulli di timpani. L’effetto è allo stesso tempo sereno e surreale, con quel precipitare nell’incubo febbrile dello Scherzo prima del ritorno alla lentezza sognante della ripresa. Per il Finale il Maestro fa nuovamente appello al barocco già evocato all’inizio, riprendendo anche alcune idee musicali già
ascoltate ma proponendole qui in modo variato. Il momento indimenticabile arriva però poco prima della fine, quando il tempo rallenta ed i legni regalano leggere onde che si muovono intorno agli accordi arpeggiati del pianoforte. È solo un attimo, perché si arriva poi al coloratissimo finale che, da solo, vale il Concerto.