Juraj Valčuha: Szymanowski Ouverture da concerto op. 12- Bartók Il mandarino miracoloso

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    Auditorium Arturo Toscanini di Torino
    Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai

     

    Juraj Valcuha direttore

     

    Karol Szymanowski (1882-1937)
    Ouverture da concerto in mi maggiore op. 12 (1904)

    Béla Bartók (1881-1945)
    Il mandarino miracoloso, pantomima in un atto op. 19
    su un soggetto di Menyhert Lengyel (1918/24)

     

    Karol Szymanowski
    Ouverture da concerto in mi maggiore op. 12

    Nella Polonia del secondo Ottocento, rimasta orfana di Chopin, il vento dominante soffiava dai confini, dalla Russia e dai paesi di lingua tedesca.
    Era inevitabile che un giovane musicista, nato in una ricca famiglia di proprietari terrieri, sentisse il desiderio di conoscere ciò che accadeva al di là della frontiera.
    Nei primi anni del Novecento a Vienna Szymanowski conobbe il Lohengrin e la Carmen; e poco dopo a Kiev il coup de foudre scoccò per le opere di Glinka. Dall’alto della sua posizione sociale elevata, Szymanowski poteva permettersi il lusso di avere uno sguardo cosmopolita sui fatti della vita e dell’arte.
    E così, terminati gli studi nel 1904, si mise a girare l’Europa, alla ricerca di quel viaggio di formazione che nemmeno Chopin si era potuto permettere. A Vienna assistette nel 1913 alla prima esecuzione austriaca di Petruška; a Londra un anno dopo conobbe Stravinskij; e tra il 1908 e il 1912 si spinse addirittura verso Sud, conoscendo prima i tesori della Sicilia, poi le culture incontaminate dell’Africa settentrionale.
    L’Ouverture da concerto op. 12 nacque nel 1905 proprio in quel periodo di vagabondaggi culturali. Naturale che le influenze esterne siano evidenti: l’esordio, con quei ribattuti frenetici, ricorda da vicino Richard Strauss (in particolare l’attacco di Vita d’eroe), la densità dell’orchestrazione deve
    sicuramente molto al sinfonismo di Gustav Mahler, e la curva melodica della sezione cantabile ha qualcosa del miglior Rimskij-Korsakov. Tutto si mescola in un calderone stilistico, che mette a dura prova tutte le sezioni dell’organico. Szymanowski aveva poco più di vent’anni: si sentiva la testa scoppiare di idee, ma non aveva ancora trovato una direzione tutta sua. Doveva per forza farsi le ossa sulle esperienze dei suoi predecessori, prima di arrivare a maturare uno stile originale. Solo qua e là si intuisce il potenziale di un compositore che sarebbe riuscito a distinguersi dai suoi contemporanei per la capacita di ipnotizzare l’ascoltatore, con una musica incantatoria che a volte sembra trasformarsi in profumo inebriante: alcuni passaggi solistici prefigurano benissimo questa caratteristica. Ma questa scarsa personalizzazione non influisce sulla godibilità della pagina, che – nonostante la prima esecuzione di Varsavia – potrebbe essere lo specchio della Vienna art-déco: una città e insieme un’epoca, in cui l’elemento decorativo pesava molto piu di quello intellettuale.

     

    Béla Bartók
    Il Mandarino miracoloso, pantomima in un atto op. 19

    La vicenda
    In un quartiere appartato di una grande metropoli, tre malviventi obbligano una prostituta ad adescare i passanti per derubarli. La prima vittima è un anziano signore, privo di denaro, che viene allontanato bruscamente dai delinquenti.
    Il secondo malcapitato è un giovane timido e inesperto, che con i suoi lineamenti acerbi riesce a far breccia nel cuore della ragazza; la sua povertà, però, gli costa cara, perché i tre malviventi, dopo aver cercato inutilmente nei suoi vestiti del denaro, lo assassinano barbaramente. Sopraggiunge poi un Mandarino dall’aspetto inquietante: il suo sguardo atterrisce la ragazza. Anch’egli viene aggredito proprio mentre sta per gettarsi sulla prostituta; ma i colpi inferti dai suoi assalitori sono vani: un tentativo di soffocamento, un annegamento nella vasca da bagno e addirittura un’impiccagione non riescono a provocare la morte della vittima, che ogni volta si rialza in piedi per osservare i suoi carnefici con sguardo diabolico e angosciante. Il suo corpo è invulnerabile e i tre malviventi possono solo fuggire sconvolti. Solo allora il Mandarino può tornare alla ragazza, che, scossa dalla visione del prodigio, e costretta a concedersi senza opporre resistenza. Ma l’uomo misterioso, dopo aver posseduto l’oggetto del suo desiderio, incomincia a provare le sensazioni fisiche di un comune mortale; le ferite incominciano a dolergli e la morte non tarda a sorprenderlo, liberandolo da una grigia esistenza sacrificata al culto del denaro.

    La musica
    Bartók compose Il Mandarino miracoloso tra il 1918 e il 1923; ma continuò a intervenire sulla partitura fino al 1931. Il soggetto di Menyhert Lengyel racconta una storia di ordinaria criminalità metropolitana, illuminata dalla presenza agghiacciante di una figura esotica e spettrale. Per la storia di quegli anni era un riecheggiamento delle violenze appena conosciute dai popoli europei.
    Per Bartók era uno strumento di emancipazione verso la dimensione del fantastico, l’unica via di fuga dalle cannonate che stavano seppellendo l’arte sotto i colpi della realtà. Per questo non deve stupire il sostanziale fiasco che venne riservato alla prima rappresentazione della pantomima presso lo Stadttheater di Colonia nel 1926. Erano gli anni della Repubblica di Weimar: Bertold Brecht scriveva: ≪Non vi è nulla a cui ci si possa attenere≫; Schonberg scopriva le risorse espressive della dodecafonia, i film di Fritz Lang riflettevano sul volto oscuro della societa tedesca, Thomas Mann indugiava sul declino di un’intera generazione.
    Era inevitabile che il ceto dominante non apprezzasse un’opera che sottolineava senza fare complimenti il degrado della società contemporanea: un disordine irrecuperabile, in cui il collettivo vince sull’individuale, proprio come accade nell’ouverture, tra claxon di ottoni e folate stridenti di violini e legni. Bartók sceglie di tratteggiare con disincantata lucidità gli aspetti piu atroci della vicenda: un motivo affidato alle viole rappresenta la strisciante cattiveria dei tre malviventi; le tre danze di seduzione sono accompagnate da un clarinetto solo, che avanza con un movimento conturbante e spigoloso; l’anziano signore e raffigurato da una serie di claudicanti glissandi del trombone; il giovane ragazzo e introdotto da una spensierata danza in 5/4; mentre l’apparizione del Mandarino è pennellata da una serie di agghiaccianti glissandi di trombone e tuba. Ogni elemento spinge verso la raccapricciante aggressione alla creatura sovrannaturale: la scena in cui Bartok ricorre alla fuga, materializzando una scrittura polifonica che aggredisce l’ascoltatore con una serie di sinistre coltellate timbriche. Poi il prodigio si rivela in tutta la sua spaventosa crudezza e dall’oscurità si leva il canto di un coro, che emette suoni puramente timbrici [questa sera, come talvolta accade, il coro è sostituito da strumenti dell’orchestra]. È l’elemento formante di un tessuto che si ispessisce progressivamente, fino a prendere la forma di un terrificante tema degli ottoni gravi. Ma è anche l’ultimo sussulto, prima che i suoni svaniscano nel nulla assieme alla gretta esistenza del Mandarino.

    La strumentazione
    Il devastante effetto sonoro del Mandarino meraviglioso è reso da una ricerca approfondita sulle risorse timbriche ed espressive di ogni singolo strumento dell’orchestra. Barótk fa un uso frequente di scale cromatiche e di rapidi abbellimenti (trilli e tremoli) nei legni; dà sovente agli ottoni una fisionomia rumoristica, prevedendo glissandi (l’effetto che si ottiene sul pianoforte facendo scivolare un’unghia sulla tastiera) nelle parti dei corni, dei tromboni e della tuba; utilizza spesso i ‘frullati’ dei flauti (suoni roteanti ottenuti mediante una emissione filtrata da un movimento occlusivo della lingua); lavora con una rudezza anomala sull’espressività di ottoni e archi con sordina; prescrive di percuotere le membrane delle percussioni con il manico in legno dei battenti; inserisce in partitura roboanti glissandi dei timpani; e in alcuni momenti fa suonare gli archi sul ponticello, ovvero nella parte in cui le corde e il legno si trovano a diretto contatto. Non mancano passaggi in cui i violinisti suonano quarti di tono (intervalli estremamente ravvicinati tra due suoni) e in cui l’autore prevede una scordatura dei violoncelli.

    Andrea Malvano

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