Antonio Pappano, Prokof'ev Sinfonia n.5

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    Auditorium Parco della Musica di Roma
    Accademia Nazionale di
    Santa Cecilia
    Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia

     

    Sir Antonio Pappano Direttore

     

    Sergej Prokof’ev
    (Sonzovka 1891 - Mosca 1953)
    Sinfonia n. 5 in si bemolle maggiore op. 100
    Andante
    Allegro marcato
    Adagio
    Allegro giocoso
    Data di composizione
    1944
    Prima esecuzione
    Mosca, 13 gennaio 1945
    Direttore
    Sergej Prokof’ev
    Orchestra Filarmonica di Mosca
    Organico
    Ottavino, 2 Flauti,
    2 Oboi, Corno inglese
    Clarinetto piccolo,
    2 Clarinetti, Clarinetto basso,
    2 Fagotti, Controfagotto,
    4 Corni, 3 Trombe,
    3 Tromboni, Tuba,
    Timpani, Percussioni,
    Pianoforte, Arpa, Archi

     

    Prokof’ev e il regime: la Quinta Sinfonia
    di Carlo Cavalletti
    Tratto dal programma di sala dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia

    Accolta con entusiasmo alla sua prima esecuzione – avvenuta alla presenza di tutto l’ambiente musicale moscovita nella Grande Sala del Conservatorio di Mosca il 13 gennaio del 1945, con la Filarmonica di Mosca sotto la direzione dell’autore – e premiata poi con il Premio Stalin, la Quinta Sinfonia rappresenta probabilmente il successo più pieno ottenuto nella Russia sovietica da Prokof’ev e segna il momento del suo maggior avvicinamento alle aspettative del regime stalinista.
    Al trionfo della Quinta contribuirono certamente il particolare momento della storia russa in cui vide la luce – la fase decisiva della drammatica e sanguinosa lotta vittoriosa contro il nazismo – e le specialissime situazioni che vennero a crearsi durante la sua prima esecuzione pubblica; situazioni che noi possiamo rivivere grazie al colorito racconto di un testimone d’eccezione, il grande pianista Sviatoslav Richter, amico e collaboratore di Prokof’ev: “La Grande Sala senza dubbio era illuminata esattamente come tutte le altre volte, ma quando Prokof’ev si alzò in piedi la luce sembrò riversarsi su di lui da un qualche luogo su in alto. Sembrava un monumento su di un piedistallo.

    E poi, quando aveva già preso posto sul podio e il silenzio regnava nella sala, all’improvviso rimbombarono dei colpi di cannone a salve. Prokof’ev aveva già alzato la bacchetta; aspettò e attaccò solo dopo che i cannoni ebbero cessato. Ci fu qualcosa di fortemente significativo in questo, qualcosa di simbolico: fu come se tutti noi – compreso Prokof’ev – fossimo giunti a una sorta di momento decisivo comune”.

    Quei colpi di cannone a salve salutavano la notizia dell’attraversamento della Vistola da parte dell’Armata Rossa nella sua marcia vittoriosa verso Berlino: finalmente si poteva intravedere la fine del lungo e feroce conflitto che aveva provocato alla Russia perdite terribili. Per chi era lì quel giorno, la Quinta di Prokof’ev, quasi emersa da quelle salve di cannone, finì per essere un tutt’uno con esse, con la libertà, la vittoria, la pace. E su questa stessa immagine simbolica della Quinta si mosse subito la propaganda americana: nel novembre del 1945, dieci mesi dopo la prima moscovita, Sergej Kusevitzkij presentava la Sinfonia al pubblico di Boston, New York e Washington con la Boston Symphony Orchestra, una settimana dopo la foto di Prokof’ev era sulla copertina di “Time”. La Quinta venne poi subito eseguita nelle stagioni della New York Philharmonic da Arthur Rodzinsky, della Philadelphia Orchestra da Eugene Ormandy e della Cleveland Orchestra da George Szell, poco dopo la Victor e la Columbia ne realizzarono e pubblicarono due diverse registrazioni discografiche.

    Al di là delle fortunate coincidenze contingenti, il successo politico della Quinta partiva da lontano. Fin dal momento del suo definitivo rientro in patria nel 1932, dopo circa un quindicennio trascorso nel mondo occidentale fra l’Europa e gli Stati Uniti, Prokof’ev aveva capito di dover adeguare il proprio stile musicale e le sue opere alle richieste e alle pressioni del regime: i toni graffianti e sardonici che avevano caratterizzato tante opere del suo primo periodo si ammorbidirono, così come alcune durezze del suo linguaggio, mentre vedevano la luce lavori smaccatamente nazionalistici e celebrativi dai toni bombastici e ridondanti come la Cantata per il ventesimo anniversario della Rivoluzione d’ottobre (1937, per due cori, orchestra di fisarmoniche e percussioni) e la Cantata Zdravitsa per il sessantesimo compleanno di Stalin (1939, per coro e orchestra).

    Quando poi nel 1941 l’Unione Sovietica fece il suo ingresso in guerra, Prokof’ev prese a sfornare decine di canti, marce e altri piccoli brani patriottici: “sentii che ognuno doveva fare la sua parte – spiegò in seguito – e iniziai a comporre canti e marce per il fronte. Ma presto gli eventi assunsero dimensioni talmente gigantesche e di una simile portata da richiedere affreschi più ampi”. È a questo punto che furono portati a compimento due lavori importanti e di vasto respiro come l’opera Guerra e pace e la Sinfonia n. 5: “infine scrissi la mia Quinta Sinfonia su cui stavo lavorando già da molti anni raccogliendo temi in un particolare taccuino. Lavoro sempre così ed è probabilmente per questo che compongo così velocemente. L’intero spartito della Quinta fu composto in un mese durante l’estate del 1944; ci volle poi un altro mese per orchestrarla dopo aver scritto le musiche per il film di Eizenštein Ivan il terribile”. Con la Quinta Prokof’ev tornava al genere sinfonico dopo una pausa di circa quindici anni – la Quarta è del 1930 – e si ripresentava per la prima volta al pubblico russo con una nuova Sinfonia dopo quasi trenta. Dopo la giovanile Prima, infatti, eseguita a Pietroburgo nel 1918, le successive tre Sinfonie di Prokof’ev appartengono tutte al quindicennio da lui trascorso in occidente: la Seconda (che lui chiamava “Grande Sinfonia di ferro e d’acciaio”), fu presentata a Parigi nel 1925, la Terza ancora a Parigi nel 1929, la Quarta a Boston nel 1930. Nessuna delle tre aveva ottenuto particolari successi né probabilmente lo aveva lasciato troppo soddisfatto, visto che nel 1947 Prokof’ev licenziò una nuova versione, profondamente riveduta, della Quarta e che successivamente aveva progettato una revisione, poi non realizzata, anche della Seconda. Oltretutto la Terza e la Quarta non erano nemmeno Sinfonie nel senso più puro del termine, in quanto riutilizzavano entrambe materiale tematico ed episodi derivati da due precedenti lavori teatrali di Prokof’ev: la Terza dall’opera L’angelo di fuoco e la Quarta dal balletto Il figliol prodigo.

    Pur se con questa frequentazione sporadica e un po’ contaminata del genere della Sinfonia, il Prokof’ev che nel 1944 si accingeva ad affrontarlo per la quinta volta poteva contare però anche su una sicurezza di mano e una maestria nel trattamento dell’orchestra infinitamente maggiori rispetto a quindici anni prima e che si erano già pienamente manifestati nelle partiture dei suoi due capolavori ballettistici: Romeo e Giulietta (1938) e Cenerentola (1944). Di tutto questo Prokof’ev era perfettamente consapevole e in alcuni passaggi di interviste dell’immediato dopoguerra e della sua autobiografia, scritta nel 1946, riconosceva l’importanza cruciale svolta dalla Quinta nell’ambito della propria attività compositiva: “La Quinta Sinfonia fu un lavoro molto importante per me, non solo per il materiale musicale confluito in essa, ma anche perché ha rappresentato il mio ritorno alla forma sinfonica dopo un’interruzione durata sedici anni. La considero il culmine di un intero periodo della mia attività creativa”. In quelle osservazioni Prokof’ev spiegava anche il significato fondamentale della Quinta: “L’ho concepita come una Sinfonia sulla grandezza dell’animo umano, [...] un inno all’uomo libero e felice, alla sua forza, generosità e alla purezza della sua anima. Non potrei dire di aver scelto questo tema deliberatamente; era nato in me e chiedeva a gran voce di venire espresso”. Non possiamo sapere con certezza quanto queste parole di Prokof’ev fossero sincere, ma non possiamo non notare che quel “tema” sembra cavato dai discorsi e dai proclami dell’establishment sovietico in tema di politica culturale e che somiglia come una goccia d’acqua al “tema” della Sesta Sinfonia composta pochi mesi dopo da Prokof’ev (“nel comporla mi sono sforzato di esprimere in musica la mia ammirazione per la forza spirituale dell’uomo che si è manifestata così vivamente nella nostra epoca e nel nostro paese”).

    Solo che nei pochi mesi intercorsi tra le due Sinfonie le cose avevano iniziato a cambiare rapidamente per i compositori sovietici e le furie della politica stalinista, passate temporaneamente in secondo piano nel momento dell’impegno comune per la “Grande Guerra Patriottica” (come veniva chiamata in Russia la Seconda Guerra Mondiale), erano riprese con nuova virulenza. Se ne era accorto Prokof’ev che in un’altra occasione aveva affermato: “È dovere del compositore – così come del poeta, dello scultore, del pittore – servire il resto dell’umanità, abbellire la vita umana e indicare la strada verso un futuro luminoso”. Ma non fu sufficiente: la Sesta, eseguita per la prima volta a Leningrado nell’ottobre del 1947 fu accolta con evidente freddezza e quattro mesi dopo, il 10 febbraio 1948, Prokof’ev fu coinvolto – insieme a Šostakovič e ad altri colleghi – nel decreto del Comitato Centrale del Partito che accusava “quei compositori che aderiscono pertinacemente alla scuola formalistica e antipopolare”. Sette giorni ancora e l’assemblea dei compositori avrebbe messo al bando una serie di sue opere fra cui appunto la Sesta Sinfonia (1947) e perfino due lavori di tipo celebrativo come Ode per la fine della guerra (1945, per otto arpe, quattro pianoforti, orchestra di fiati, percussioni e contrabbasso) e Poema di festa (o Trent’anni, 1947, composto per il trentesimo anniversario della Rivoluzione d’ottobre), ai quali presto se ne sarebbero aggiunti molti altri, compresi lavori premiati pochi anni prima con il Premio Stalin come la Settima e l’Ottava Sonata per pianoforte.

    Un colpo durissimo per Prokof’ev che nemmeno una pesante e umiliante autocritica pronunciata pubblicamente poco dopo bastò a ridimensionare e a cui si aggiunse anche un rapido crollo fisico dovuto a ripetuti attacchi cardiaci e ad una commozione cerebrale sofferta in seguito a una caduta dalle scale tre settimane dopo la prima della Quinta: quel concerto rimase così l’ultima sua apparizione come direttore d’orchestra, un’attività che del resto egli aveva sempre amato assai poco.

    In quelli che sarebbero rimasti gli ultimi cinque anni della sua vita, dal 1948 al 1953, Prokof’ev continuò invece a comporre seguendo le sue abituali procedure artigiane e quasi impiegatizie (un ferreo orario quotidiano dalle 9 alle 17), ma senza recuperare mai pienamente l’appoggio e il consenso del regime e, ciò che più ci interessa, senza attingere più a risultati di indiscutibile livello artistico.

     

    Cenni sulla musica
    di Sergio Sablich

    La Quinta è la più atemporale fra le sue Sinfonie, la meno condizionata da uno stile acquisito e riprodotto. L’invenzione si mantiene costantemente alta perché in alto mira la volontà di concentrarsi e di captare le associazioni fra i suoni; l’elaborazione è severa nella variazione delle cellule tematiche (primo movimento, Andante), nitida e vitale nel principio concertante delle famiglie strumentali che dialogano sommessamente e delicatamente, animate da una serena leggerezza anche nella intensificazione dei crescendo (ultimo movimento, Allegro giocoso).

    Prokof’ev alza il tiro della decantazione lirica, dell’eleganza timbrica, dell’iridescenza armonica: mai come nella tersa distensione dell’Adagio, aperto da una sinuosa frase dei clarinetti arabescata dagli archi, si percepisce la nostalgia di un’intatta purezza, che esiste solo per essere continuamente desiderata. A poco a poco la tensione pare montare, sprofonda nei registri gravi dell’orchestra, si acuisce nella drammaticità delle iterazioni, per sciogliersi arcanamente in progressiva dissolvenza.
    E quale gioia nel riconoscere ora la funzionalità degli incastri, il sorriso di un’ironia bonaria, ammiccante, nell’equilibrio della totalità idealmente ricostituita, nella misura delle proporzioni ampliate ma non sfigurate. Solo nell’Allegro marcato questo sorriso diviene ghigno beffardo e sberleffo. Par di assistere, nelle trovate geniali di questo Scherzo con Trio, a una caricatura che ricorda di quale sarcasmo fosse capace Prokof’ev. Il gesto graffiante, nel rincorrersi ostinato di frammenti lanciati per aria all’impazzata, nella baldoria da circo o da banda di paese un pò alticcia, o magari di parate militari che sfilano impettite nel loro stupido orgoglio, è quello di chi sapeva guardare il mondo con divertimento misto a orrore: un umorismo grottesco. L’eco della guerra, e sia pure di una guerra vinta, è tutta nella musica militare di questo movimento, ritmata dalla batteria: un grido lancinante camuffato da insensata allegria, un brivido di angoscia che non trova pace neppure quando è passata la paura. Non v’è trasfigurazione in questa musica ebbra di frenesia, rigonfia di artefatta volgarità. Giacché di fronte alla guerra ogni artista riconosce solo la propria impotenza e, se può, passa oltre, a reinventare in sogno la vita.

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