Leonidas Kavakos: Beethoven Concerto per violino e orchestra op. 61

AUDITORIUM PARCO DELLA MUSICA Sala Santa Cecilia
Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia

 

Leonidas Kavakos direttore e violinista

 

Ludwig Van Beethoven
(Bonn 1770 - Vienna 1827)
Concerto in re maggiore per violino e orchestra op. 61
Allegro ma non troppo
Larghetto
Rondò (Allegro)

Data di composizione
1806
Prima esecuzione
Vienna, Theater an der Wien
23 dicembre 1806
Violinista
Franz Clement
Organico
Violino solista
Flauto, 2 Oboi,
2 Clarinetti, 2 Fagotti,
2 Corni, 2 Trombe,
Timpani, Archi

 

Il concerto per violino di Beethoven
di Arrigo Quattrocchi
Tratto dal programma di sala dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia

La produzione concertistica di Beethoven non lascia grande spazio al violino. Pianista di formazione, ed affermatosi a Vienna negli ultimi anni del secolo XVIII come virtuoso dello strumento a tastiera, Beethoven si dedicò allo strumento ad arco solo in circostanze particolari. Al biennio 1790-92 – dunque ancora agli anni formativi di Bonn – risale un frammento di un Concerto in do maggiore per violino e orchestra, consistente in 259 battute che si arrestano all’inizio dello sviluppo del primo movimento. Agli ultimi anni del secolo sono stati invece attribuiti i due Adagi per violino con un completo accompagnamento strumentale offerti alla casa editrice Breitkopf und Härtel nell’autunno del 1802; si trattava delle due Romanze per violino e orchestra, op. 40 e op. 50, che appartengono compiutamente al genere delle composizioni d’occasione.

Il Concerto in re maggiore op. 61 è dunque la prima composizione per violino e orchestra del compositore, risalente alla fine del 1806 e quindi contemporanea della Quarta Sinfonia, dei tre Quartetti dell’op. 59, del Quarto Concerto per pianoforte. È estremamente probabile che il Concerto sia stato composto per esaudire la richiesta di un solista di prestigio, il violinista Franz Clement (ventiseienne all’epoca della composizione, nonché direttore al Theater an der Wien), che aveva tra l’altro diretto la prima esecuzione della Terza Sinfonia e la ripresa del Fidelio.

Secondo la testimonianza di Carl Czerny (Pianoforte-Schule op. 500), allievo ed amico del maestro, Beethoven avrebbe redatto la partitura in un lasso di tempo assai breve – come sembra confermare lo stato piuttosto disordinato ed incompleto dell’autografo – e la avrebbe terminata con appena due giorni di anticipo sulla prima esecuzione. Questa ebbe luogo a Vienna, al Theater an der Wien, il 23 dicembre 1806. Franz Clement riscosse un successo personale, al quale non fu certo estraneo un “numero” straordinario, consistente nell’esecuzione, fra i primi due tempi del Concerto, di una sua Sonata per violino, suonato su una sola corda e imbracciato, oltretutto, capovolto.

Tuttavia – nonostante la differente testimonianza di Czerny – le recensioni dell’epoca si mostrarono severe verso la composizione. Scriveva la Zeitung für Theater dell’8 gennaio 1807: “È opinione unanime fra gli intenditori che [il Concerto] non manchi di bellezze, ma che nell’insieme appaia del tutto frammentario e che le infinite ripetizioni di passaggi banali possano facilmente ingenerare monotonia”. Al di là del parere di un singolo critico, la partitura incontrò nei decenni seguenti una scarsissima fortuna presso pubblico e esecutori; i successivi tentativi di imporre la composizione nel repertorio (ad opera di Tomasini, a Berlino nel 1812; Baillot, a Lipsia nel 1836) rimasero sostanzialmente senza effetto; fino a quando, nel 1844, il tredicenne Johann Joachim la eseguì per la prima volta a Londra sotto la direzione di Mendelssohn, dando l’avvio ad una trionfale riscoperta.

La causa principale di questo misconoscimento deve essere individuata principalmente nell’essere il Concerto op. 61 una composizione poco alla moda. L’affermazione, presso il “nuovo” pubblico borghese, del gusto “Biedemeier” aveva favorito la diffusione di un tipo di concerto in cui il contenuto puramente musicale e il ruolo dell’orchestra erano ridotti al minimo e l’interesse era concentrato unicamente sull’esibizione delle doti di “bravura” del virtuoso. Lo stesso Beethoven, per favorire la incerta diffusione editoriale del Concerto, ne curò personalmente una versione pianistica, provvista di quattro eclatanti cadenze autentiche ma improntate a uno stile brillante, virtuosistico e quasi chiassoso. La proposta di una “doppia versione” (violinistica e pianistica) della partitura era venuta nel 1807 dal compositore Muzio Clementi, che, nelle vesti di editore, aveva promosso la seconda edizione a stampa del Concerto, a Londra nel 1810 (ma non a caso anche la prima edizione, pubblicata a Vienna nell’agosto 1808 per i tipi del Bureau d’arts et d’industrie, aveva la stessa “doppia” destinazione).

Il Concerto op. 61, invece, è opera aliena per la sua natura da eccentriche estroversioni. La scrittura solistica, innanzitutto, mostra un deciso orientamento verso un fraseggio levigato ed elegante che, pur richiedendo un alto cimento tecnico, poco concede al virtuosismo puro: tende insomma più a coinvolgere espressamente l’ascoltatore che non a stupirlo. Anche il “problema” fondamentale posto dal genere del Concerto, ossia il rapporto che intercorre fra il solista e la compagine orchestrale, viene risolto da Beethoven in modo piuttosto dissimile rispetto ai Concerti per pianoforte; non si tratta infatti di un rapporto conflittuale, che vede il solista porsi come netto antagonista verso l’orchestra. Il violino invece, pur mantenendo un forte profilo individuale, stabilisce con l’orchestra una intima complicità, che deriva dalle pastose scelte timbriche dello strumentale, dall’assenza di marcate contrapposizioni dinamiche, dal rilievo concertante degli strumenti a fiato (avvertibile soprattutto quando gli archi siano, come all’epoca, in formazione ridotta).

L’organizzazione formale del Concerto segue le linee principali degli interessi dell’autore nei primi anni del secolo, dividendosi (come le Sonate op. 53 e 57, il Quarto e il Quinto Concerto per pianoforte) in due grandi blocchi, il primo stabilito da un movimento in forma-sonata, il secondo da un breve movimento contemplativo che ha una funzione introduttiva rispetto al finale (in genere un Rondò). Tuttavia il contenuto musicale della partitura si allontana da quei caratteri che hanno fatto versare fiumi di inchiostro sul Beethoven “eroico” e “titanico”. Mancano all’opera 61 gli elementi essenziali di questa immagine: la pronunciata dialettica tematica e l’elaborazione degli sviluppi.

L’Allegro ma non troppo che apre il Concerto si basa infatti su due idee tematiche principali fra loro affini: la prima dal profilo discendente, la seconda ascendente, ma entrambe per gradi congiunti, con valori regolari, introdotte e supportate da un ritmo insistito di quattro “colpi” (il timpano solo per la prima idea, i violini soli per la seconda); ed entrambe presentate, nell’introduzione orchestrale, dal gruppo dei legni. Appunto nell’introduzione compaiono tutti o quasi gli elementi tematici che daranno vita al movimento; estremamente breve, rispetto alle vaste dimensioni di questo, è la sezione dello sviluppo, e l’intero tempo si basa sulla elegante ripetizione variata del materiale di base da parte del solista e dell’orchestra. La cadenza in genere eseguita, per tradizione, è di Fritz Kreisler (come anche quella del tempo conclusivo).

Il secondo movimento consiste in un tema con variazioni, che non dà origine però a fantasiose trasformazioni espressive, e si svolge interamente in una ambientazione coerente; il movimento ha comunque una struttura eccentrica, ispirata al principio della “doppia variazione” propria di certi Adagi di Haydn. Esposto dagli archi, il tema viene variato tre volte e con preziosi ornamenti dal solista, che presenta poi un secondo tema anch’esso variato dopo una quarta variazione del primo tema. Dopo un’ultima riapparizione di questo, energici accordi degli archi e una incisiva cadenza del violino conducono direttamente al Finale. Si tratta di un Rondò che costituisce la pagina più apertamente brillante della partitura; la struttura è quella consueta ABA-C-AB’A, che alterna un refrain ad episodi differenti. A moderare il carattere brillante del movimento c’è un elemento stilistico peculiare: quello “pastorale”, evidenziato dal tempo 6/8, dalla particolare, amabile tornitura melodica del refrain, dall’ingresso dei corni sul secondo tema, dal rilievo dei legni. Ed anche la linea del solista, fra i trilli, le scale, gli arpeggi, le doppie corde che impegnano il virtuoso, non tradisce la sua vocazione verso una espressività lirica e sublimata, lontana tanto dal freddo ed elegante decorativismo del concerto rococò quanto dai facili effetti del gusto Biedermeier.

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