Nicola Luisotti: Rota Concerto in do, Giuseppe Albanese pianoforte
AUDITORIUM PARCO DELLA MUSICA
Sala Santa Cecilia
Orchestra dell ’Accademia
Nazionale di Santa Cecilia
Nicola Luisotti
Direttore
Giuseppe Albanese
Pianoforte
Nino Rota (Milano 1911 - Roma 1979)
in occasione del centenario della nascita
Concerto in do per pianoforte e orchestra
Allegro cantabile
Arietta con variazioni
Allegro
Data di composizione
1959-1960
Dedica
Arturo Benedetti Michelangeli
Organico
Pianoforte solista,
2 Flauti (Ottavino),
2 Oboi (Corno inglese),
2 Clarinetti, 2 Fagotti,
4 Corni, 2 Trombe,
Timpani, Archi
Concerto in do di Rota
di Giovanni d’Alò
Tratto dal programma di sala dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia
Il “sacrificio” in termini di popolarità della produzione “da concerto” è un destino che accomuna la maggior parte dei compositori che hanno raggiunto la notorietà grazie al lavoro svolto
in ambito cinematografico. Tra i meno afflitti da questa prevedibile e inevitabile situazione, Nino Rota può contare su una circolazione più o meno costante nei programmi concertistici
di un certo numero di pagine cameristiche, tra cui il Concerto per archi divenuto a buon diritto ormai un classico. Non è poco,anche considerando una certa pigrizia che caratterizza sia gli interpretiche gli organizzatori musicali nel rinnovare il repertorio.
Ma se pensiamo ai 190 numeri che costituiscono il catalogo extracinematografico rotiano, si converrà che quella minoranza di partiture che beneficia di esecuzioni frequenti è assolutamente insufficiente a tracciare un quadro esauriente di un autore prolifico e multiforme (pensiamo anche alla sua produzione teatrale) come Rota. Ogni esecuzione di una Sinfonia (ne scrisse quattro, considerando anche la “gattopardesca” Sinfonia sopra un canto d’amore) o di un Concerto, per limitarci ad alcune forme classiche, è per il pubblico la scoperta di un mondo, rivelazione di un linguaggio che dialoga alla pari con la tradizione in una dimensione senza tempo. La musica di Rota ha attraversato silenziosamente la burrascosa stagione delle neoavanguardie e degli sperimentalismi, defilata persino rispetto al suo Doppelgänger cinematograficosempre in primo piano, e oggi, per nulla sfiancata da contrapposizioni mai cercate, torna altrettanto silenziosamente, ma con forza miracolosamente rigenerata, a proporsi nella propria intatta e genuina freschezza. Scorrendo il ricco catalogo, spicca il numero dei concerti (talvolta concepiti anche come “fantasie” o “divertimenti”) per strumento
solista e orchestra, a valorizzare di volta in volta il violoncello, l’arpa, il fagotto, il trombone, il contrabbasso. E naturalmente il pianoforte, il suo strumento.
Come nota Francesco Lombardi – nipote del compositore e tra i responsabili del Fondo Rota presso la Fondazione “Cini” di Venezia – “questo fu dovuto probabilmente anche al fatto che Rota diresse con grande passione il Conservatorio di Bari per più di 25 anni, cercando di attrarre a quella scuola i migliori insegnanti che, nel campo della tecnica strumentale, quasi sempre si identificano con concertisti in piena attività. D’altro canto la fama e il successo
di Rota provocarono anche un flusso inverso di richieste, per cui solisti di fama lo sollecitarono spesso a comporre concerti da proporre nei loro programmi”.
È sostanzialmente questa la genesi anche del Concerto in do per pianoforte e orchestra, scritto tra il 1959 e il 1960 e dedicato ad ArturoBenedetti Michelangeli. “I due si conoscevano fin da ragazzi– continua Lombardi – e avevano, se pure a distanza, mantenutoun saldo rapporto di amicizia. Michelangeli e Rota erano statibambini prodigio di non comune talento e successo, entrambiriuscirono però a mantenere una semplicità ed unanaturalezza di approccio con la musica che probabilmenteli legò in modo particolare. Tant’è, un giorno
Michelangeli chiese a Rota di scrivergli un concerto e l’altro prontamente eseguì. Si era all’alba degli anni ’60 e da allora i due cominciarono un tour de force di incontri nei quali venivano effettuati anche microscopici aggiustamenti su una composizione assolutamente
completa e definita in ogni sua parte, che in realtà attendeva solo il battesimo della sala da concerto. Ma il maniacale perfezionismo nello studio del pianista e la capacità quasi infinita di rivedere, adattare alle esigenze della committenza le proprie creazioni da parte del compositore, non portarono mai a questo battesimo. Alla morte di Rota, Michelangeli prese come un debito di amicizia e fedeltà l’impegno di registrare il Concerto, ma questa volta fu la
casa discografica a mettersi di traverso ed oggi il Concerto in do costituisce una impervia palestra per i solisti, costretti non soloa confrontarsi con un brano che richiede una tecnica saldissima,ma anche con una composizione tagliata come un abito su misura,
sulla figura di uno dei più grandi pianisti del secolo scorso”. Il primo movimento del Concerto in do si affida a tre idee tematiche principali, annunciate sempre dal pianoforte, che manterrà costantemente il suo ruolo-guida rispetto all’orchestra: il motivo d’apertura è formato da una cellula di cinque note ribattute seguite da un flusso melismatico regolare e simmetrico che introduce subito l’ambiguità modale tra do maggiore e do minore (da cui la dicitura “sospesa” del titolo), in un delicato equilibrio armonico appena turbato da insinuanti venature cromatiche introdotte dall’orchestra. Un’agile figurazione discendente affidata ai fiati porta alla seconda zona tematica, dal carattere decisamente contrastante (“con vivacità”), ritmica e staccata, che scivola direttamente verso la terza idea: una figurazione speculare di arpeggi ascendenti e
discendenti che poi, ripresa dai fiati, genererà un ritmo di fanfara. Si apre a questo punto il primo episodio virtuosistico del pianoforte che si lancia in una giocosa elaborazione ritmica, appoggiata su impertinenti urti dissonanti, echeggiati dai fiati. La tensione accumulata si stempera su un delicato dialogo tra pianoforte, flauto, oboe e clarinetto intorno al motto iniziale delle cinque note ribattute. In una situazione armonica e timbrica dalle tinte nuovamente scure, il pianoforte intesse ora una ostinata trama di arpeggi, su cui ottoni e legni scandiscono minacciosamente il motto asciutto e stentoreo delle cinque note ripetute. Sbrigata velocemente la “formalità” della ripresa, annunciata dalla ricomparsa frammentaria del primo tema distribuito tra le fila orchestrali, il pianoforte ritaglia per sé un’ampia cadenza, che sfocia
in una stretta finale che coinvolge tutta l’orchestra. Il secondo movimento è un’Arietta con variazioni e il riferimento corre all’Arietta della Sonata op. 111 di Beethoven (una delle sonate preferite da Benedetti Michelangeli), anch’essa elaborata in una serie di variazioni senza soluzione di continuità. Tuttavia non c’è alcuna parentela tra la pagina beethoveniana e il motivo inventato da Rota: un filiforme disegno melodico che sposta continuamente il proprio baricentro modale, affidato prima al corno inglese, poi al clarinetto, chiosato da flauto e oboe, e poi finalmente al pianoforte (gli archi eseguono con discrezione un accompagnamento in pizzicato). Le variazioni consistono essenzialmente su proliferazioni ritmiche che si susseguono coerentemente almeno fino alla terza variante, in cui il tema si presenta frammentato tra impulsi in levare staccati e frammenti cromatici. La quarta variazione cambia il metro e adatta il cantabile a un cullante 6/8, animato dal solista con un gioco di falsi accenti, note ribattute e trilli. Il tema prosegue infine la sua breve peregrinazione passando alla sezione degli archi, contrappuntato in filigrana da una tessitura luminescente del pianoforte, al
quale è riservata l’ultima esposizione.
Lo spirito dello Šostakovič più caustico pervade il terzo movimento (Allegro), nel quale un refrain spigoloso e marziale si oppone a un episodio “calmo” a carattere misterioso e fortemente debitore del Faune debussiano. Ampio spazio, anche in questo caso, è riservato
alle capacità tecnico-virtuosistiche del solista, che ha modo di sfoggiare la propria agilità nella lunga cadenza che precede, come di prammatica, il finale.