Antonio Pappano: Verdi Aida - Liszt Concerto n. 1, Boris Berezovsky pianoforte
AUDITORIUM PARCO DELLA MUSICA
Sala Santa Cecilia
Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia
Antonio Pappano direttore
Boris Berezovsky pianoforte
Giuseppe Verdi
(Roncole di Busseto, Parma 1813 - Milano 1901)
Aida: Sinfonia
Franz Liszt
(Raiding 1811 - Bayreuth 1886)
Concerto n. 1 in mi bemolle maggiore
Giuseppe Verdi
Aida: Sinfonia
Data di composizione
1871
Organico
Ottavino, 2 Flauti, 2 Oboi,
2 Clarinetti, 2 Fagotti,
4 Corni, 2 Trombe,
3 Tromboni, Basso Tuba,
Timpani, Percussioni, Archi
Sinfonia dell’Aida di Giuseppe Verdi
Tratto dal programma di sala dell’Orchestra Nazionale di Santa Cecilia
Fu, probabilmente, su iniziativa di Ricordi che Verdi compose, con un certo scetticismo, una Sinfonia per Aida da inviare al Cairo ed eseguire nel caso che, durante le prove, il brano si fosse rivelato efficace. Altrimenti, rimaneva sempre il soffuso Preludio che introduce la scena iniziale. Verdi era incerto sull’effetto della Sinfonia: «Vedrete – scrisse a Ricordi – in sul finale della Sinfonia, quando tromboni e contrabbassi urlano il canto dei Sacerdoti; violini ed istrumenti a fiato gridano la gelosia d’Amneris, vi è il canto di Aida fatto fortissimo dalle
trombe. Quello squarcio o è un pasticcio, o un effetto. Ma non può essere un effetto se le trombe non hanno attacco, suono e squillo». Nella prima esecuzione del Cairo, il 24 dicembre
1871, la Sinfonia non venne eseguita. La concertò, invece, durante le prove, il direttore Franco Faccio quando, nel febbraio dell’anno seguente, preparò Aida per le rappresentazioni alla
Scala. Ma, anche stavolta, la Sinfonia non riuscì a scalzare il delicatissimo e poetico Preludio: e per Verdi fu una rinuncia definitiva. Avrebbe scritto, infatti, al direttore d’orchestra Emilio
Usiglio: «L’orchestra era buona, pronta ed ubbidiente, ed il pezzo poteva riescire a buon porto se la costruzione ne fosse stata solida. Ma l’eccellenza dell’orchestra non valse che a far
meglio sortire la pretenziosa insulsaggine di questa creduta sinfonia». Il monumentale piedistallo pensato per un’opera che inizia e finisce in pianissimo, dunque, non funzionava, e
Verdi lo eliminò. Il suo ascolto offre, comunque, parecchi motivi di interesse. In particolare ci si chiede: come può un pezzo costruito con motivi stupendi, dotati, in sede drammatica, di straordinaria pregnanza evocativa, deludere a tal punto il suo autore? Julian Budden vede nella Sinfonia di Aida una contraddizione in termini: a differenza della Sinfonia della Forza del destino, «la cui ricchezza di idee, gli inattesi sviluppi fanno presagire le epiche complessità dell’azione, […] in relazione ad un dramma tanto lineare e di andamento misurato come Aida, lo scambio e la combinazione dei temi equivale appena al miscuglio del potpourri». Incompatibilità con il soggetto dell’opera, dunque. La Sinfonia nasce dal Preludio, che viene mantenuto quasi per intero; dopo di che s’innesta la parte nuova, incentrata sulla rappresentazione del conflitto tra Aida e Amneris. Ascoltiamo dunque un frammento del tema della gelosia di Amneris incrociarsi dapprima con il tema dell’aria di Aida “Numi pietà”, poi dilatarsi in un episodio che porta alla comparsa del tema dei sacerdoti, in un canone severo. La parte centrale presenta, in varie combinazioni, il tema di “Numi pietà” e i motivi di Amneris, variamente amplificati. Poi, il fremito della gelosia di Amneris si sovrappone al tema dei sacerdoti, indi ritorna “Numi pietà”, e così via. Avvicendamento, dunque, più che vera trasformazione: i motivi sono molto belli e funzionano, infatti, nell’opera, come melodie riservate, allusive, piene di delicatezza e di turbamento segreto. Nella Sinfonia, invece, essi
aspirano ad un effetto monumentale e, in tal modo, attraverso le ripetizioni, le amplificazioni, le combinazioni, perdono la loro ambiguità evocativa. Tolta la scena del trionfo, messa lì per contrasto, Aida è un dramma intimo di anime infelici. Benissimo lo introduce il Preludio,
in cui il tema di Aida appare come un’immagine vaporosa, appena oscurata dal motivo dei sacerdoti, indi amplificata in un grande slancio affettivo e vaporante nel silenzio da cui
l’opera nasce e in cui terminerà, con il magico effetto che conosciamo. La Sinfonia è invece un omaggio alla convenzione dell’introduzione strepitosa e festiva; convenzione che Verdi aveva già altre volte disatteso.
Franz Liszt
Concerto n. 1 in mi bemolle maggiore
per pianoforte e orchestra
Allegro maestoso
Quasi adagio
Allegretto vivace. Allegro animato
Allegro marziale animato
Data di composizione
1839-1849
Prima esecuzione
Weimar
17 febbraio 1855
Direttore
Hector Berlioz
Pianoforte
Franz Liszt
Organico
Pianoforte solista,
Ottavino, 2 Flauti,
2 Oboi, 2 Clarinetti,
2 Fagotti, 2 Corni,
2 Trombe, 3 Tromboni,
Timpani, Percussioni, Archi
Concerto per pianoforte e orchestra n. 1 di Franz Liszt
Tratto dal programma di sala dell’Orchestra Nazionale di Santa Cecilia
Nei primi anni della sua residenza a Weimar, Liszt portò a termine i due concerti per pianoforte e orchestra, iniziati nel 1839 e destinati ad essere eseguiti solo parecchi anni dopo, nel 1855 e nel 1857. I primi abbozzi del Concerto n. 1 risalgono al 1830, ma la partitura fu completata solo nel 1849, e successivamente rivista nel 1853 e nel 1856. Liszt, che aveva sino ad allora composto per lo più musica pianistica, e aveva scarsa dimestichezza con l’orchestrazione, si fece aiutare, in questo compito, dal suo allievo Joachim Raff. La prima esecuzione avvenne
a Weimar, il 17 febbraio 1855, sotto la direzione di Hector Berlioz, con Liszt al pianoforte.
In queste due partiture il compositore riversò l’enorme patrimonio tecnico che, nelle composizioni precedenti, aveva fissato la fisionomia del pianoforte moderno in tutta la gamma dei suoi effetti timbrici, dalla sottigliezza di una scrittura miniaturistica, sottilmente cesellata, alla mimesi della più trascinante potenza orchestrale. Lo spunto allo sviluppo del grande virtuosismo proveniva da Paganini, la cui sperimentazione tecnica appariva, agli occhi
dei romantici, come uno slancio prometeico, teso al superamento dei limiti fisici del violino. La difficoltà trascendentale non era intesa, quindi, come pura esibizione acrobatica ma come rifondazione di uno strumento che doveva rivelare aspetti sconosciuti e introdurre l’ascoltatore alla scoperta di nuovi mondi sonori. Trasportando sul pianoforte l’impeto sperimentale che Paganini aveva applicato al violino, Liszt giunse, talvolta, a rasentare l’“abbandono al materiale”, vale a dire la moderna esibizione di effetti sonori espressivi di per sé, per l’intrinseca qualità delle loro vibrazioni e colori timbrici. Effetti che ritroviamo in alcuni passi dei due concerti, dove il pianoforte è il signore assoluto e la forma stessa sembra concepita per metterne in evidenza la personalità tecnica ed espressiva. In altre parole, siamo qui in presenza di “poemi sinfonici” senza un programma dichiarato, perché implicito nella stessa presenza di un personaggio di cui si rappresentano le gesta: il pianoforte, appunto, giunto al culmine della sua onnipotenza tecnica e del suo splendore concertistico.
Del poema sinfonico i due concerti di Liszt presentano la struttura. Nel Concerto in mi bemolle, i vari movimenti si succedono senza soluzione di continuità e, come avviene nella Fantasia Wanderer di Schubert, sono collegati dalla presenza di un motto ricorrente che, in questo caso, apre l’Allegro maestoso con un gesto orchestrale dal carattere fortemente ritmico, cui il pianoforte risponde immediatamente con una cadenza di tipo eroico. Il tono è solenne, epico, battagliero, ma verrà smentito subito dopo. L’orchestra tenta, infatti, di contenere il pianoforte e inquadrarlo in un discorso comune, ma con scarso successo: al pianoforte, i temi proposti dagli strumenti interessano poco. Il motto ricorrente, ad esempio,che apre il concerto, è molto definito e severo, si presterebbe a incastri complessi, magari di tipo fugato. Chissà che cosa
ne avrebbe fatto Brahms. Ma il pianoforte di Liszt, libero e insofferente, lo ignora e svolazza in melodici arabeschi, dal suono perlaceo. È lui, piuttosto, che attrae nella propria orbita gli altri strumenti, come avviene nel meraviglioso secondo tema, un notturno la cui melodia, suadente e nostalgica, coinvolge prima il clarinetto, poi due violini soli in un dialogo abbandonato. L’orchestra assume quindi in questo movimento l’originale funzione di una cornice, definisce, per così dire, il cavo della scena in cui il grande mattatore può esibirsi in tutta la sua istrionica versatilità, decidendo lui che cosa fare: o struggersi in melodie dolcissime, o effondersi nei più scintillanti arabeschi, o scattare in furiose galoppate e tempeste di ottave.
Dopo che il primo movimento è evaporato in pianissimo, il secondo, Quasi adagio, si apre con una frase di violoncelli e contrabbassi che il pianoforte amplifica e dilata in un arcano notturno. L’incanto è spezzato da un energico recitativo pianistico. Ma il tono estatico ritorna. Il pianoforte si scioglie nuovamente in sussurri e dolcezze, sinché, da quel canto, si libera un leggerissimo volo di trilli, intrecciati alla voce degli strumentini. L’atmosfera
diventa magica, incantata, di una leggerezza fiabesca e annuncia l’Allegretto vivace.
Qui il suono acquista nuove iridescenze: il triangolo tintinna, mentre un tema scherzoso sembra introdurre una danza di folletti, ridotta in una dimensione miniaturistica, con un gusto del giocattolo e del movimento meccanico che sembra anticipare Ravel. Dopo un’inattesa reminiscenza del Quasi adagio, tutto si oscura in un fremito e in una raffica di terzine pianistiche che porta ad un ritorno del motto iniziale, nel registro basso del pianoforte: questi
lo passa all’orchestra in un’amplificazione monumentale. Ma si tratta solo di un’ammonizione passeggera, come mostra l’ultimo movimento, Allegro marziale animato. Il titolo è ingannevole: questo non è un pezzo aggressivamente militaresco, ma una marcia leggera, guizzante, festosa nel suo sventolio di trilli. Un corteo di soldatini di piombo, interrotto dal motto iniziale del primo movimento che si riaffaccia in orchestra.
Dopo una reazione del pianoforte all’altezza di tanta solennità, riprendono la danza brillante, le corse frenetiche, il tintinnare del registro acuto, il suono del triangolo e tutto si conclude nell’espressione di una leggerezza incantata.