Christian Arming: Bartók, Liszt - Giuseppe Albanese pianoforte

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    Auditorium Arturo Toscanini di Torino
    Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai

     

    Christian Arming direttore
    Giuseppe Albanese pianoforte

     

    Béla Bartók (1881-1945)
    Suite di danze per orchestra
    I. Moderato - Tranquillo - Vivo - Ritornello. Tranquillo - Allegretto
    II. Allegro molto - Ritornello. Tranquillo
    III. Allegro vivace - Lento - Vivacissimo
    IV. Molto tranquillo - Ritornello. Lento
    V. Comodo
    VI. Finale. Allegro - Allegretto - Allegro vivace - Presto - Molto tranquillo
    - Allegretto - Allegro molto

    Un brano celebrativo sui generis
    Tratto dal programma di sala dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai
    Nel 1923 l’Ungheria si preparava a celebrare i cinquant’anni dall’Unificazione. Tutta Budapest era in fibrillazione: il paese si trovava per la prima volta nella condizione di festeggiare qualcosa di veramente suo. I musicisti naturalmente erano in prima linea: qualche composizione di chiara impronta celebrativa era proprio quello che serviva per dare risonanza all’evento. E cosi il 19 novembre nella Sala Vigado di Budapest era in programma un concerto che in locandina incolonnava la Festival Ouverturedi Ernő Donhányi, il Psalmus Hungaricus di Zoltán Kodály e la Suite di danze di Bela Bartok. Tutte composizioni pensate con un occhio all’identità culturale ungherese e uno alle esigenze celebrative del cinquantenario. La Suitedi Bartók è composta da cinque danze, tutte collegate da un ritornello, e un sesto movimento che funge da ricapitolazione.
    Ogni pagina sfoggia quello stile popolare che il compositore studiava da anni, esplorando anche i luoghi più inospitali della Transilvania, pur di garantire la memoria di un patrimonio orale in via di estinzione. Non si tratta, però, di melodie autentiche, rubate direttamente al repertorio di tradizione folklorica; perchè Bartók preferisce lavorare su idee nuove, ispirate allo stile vocale della sua gente, ma anche mescolate all’impronta musicale delle culture limitrofe. Il risultato è dunque un lavoro che fonde i modelli popolari ungheresi alle esperienze rumene e slovacche; proprio come se la partitura fosse in realtà un piccolo trattato di pace, pensato per celebrare il tema della fratellanza tra popoli limitrofi. L’Ungheria di quegli anni, appena ridefinita nei suoi confini e nei suoi rapporti con le nazioni circostanti, aveva bisogno di serenità politica; e Bartók si illudeva che la sua Suite di danze potesse essere un modello artistico in grado di plasmare la realtà. Nazionalismo a parte, l’orchestrazione forse mette in luce un’angoscia sottocutanea. Il Moderato iniziale si fa subito notare per un colore sinistro e grottesco, con il borbottio del fagotto in primo piano su un complesso strumentale secco e trasparente. L’Allegro molto successivo aggredisce l’ascoltatore con una serie di coltellate violente e ossessive; ed e solo un glissando dell’arpa ad aprire uno squarcio lirico visionario (guidato dal timbro del clarinetto) che ricorda i momenti più irreali della produzione bartokiana. Decisamente più vicino alla spensieratezza del mondo rurale e il brano successivo (Allegro vivace), con i suoi disegni dei legni che sembrano appena usciti da una gaudente festa paesana. L’episodio notturno, come spesso accade in Bartók (si pensi all’Elegia del Concerto per orchestra), si trova nel cuore della composizione (Molto tranquillo): la pagina scorre sulle note di un lamento all’unisono di oboe e corno inglese, interrotto da una serie di pennellate leggere degli archi. Il Comodo insiste sulle linee sinuose e inquietanti; dopodichè prende forma un Finale che unisce i caratteri stilistici dei brani precedenti, alternando timidi movimenti di danza a robuste folate dinamiche. L’orchestra generalmente evita impasti morbidi, per mantenere una fisionomia tagliente e cristallina; tutt’altro colore rispetto a quello che generalmente domina nelle pagine scritte con l’intenzione di risvegliare sopiti ardori patriottici. Nemmeno di fronte a un impegno pubblico, dunque, Bartók riusciva a rinunciare alle angosce sonore di un artista che si era formato sulle ceneri dell’Espressionismo; ed è proprio questo il segreto che si nasconde dietro al volto nazionalistico della Suite di danze: una pagina celebrativa, senza dubbio, che però celebra una cultura da sempre costretta a guardarsi intorno con terrore per difendere la propria identità.

     

    Franz Liszt (1811-1886)
    Concerto n. 1 in mi bemolle maggiore per pianoforte e orchestra
    Allegro maestoso. Tempo giusto
    Quasi adagio
    Allegretto vivace - Allegro animato - Tempo I. Allegro maestoso
    Allegro marziale animato - Alla breve. Più mosso - Presto

    Liszt alla scoperta dell’orchestra
    C’è un quadro di Josef Danhauser che può spiegare meglio di qualsiasi descrizione storica il pensiero di un’epoca. Liszt è seduto al pianoforte e osserva un paesaggio che si apre come uno squarcio irreale su un salotto in preda all’estasi. Alle sue spalle la scrittrice George Sand è accasciata su una poltrona, incapace di controllare i sensi. Abbracciati come una coppia di vecchi amici Rossini e Paganini osservano le tortuose espressioni che solcano il volto del pianista. In fondo, muti come sfingi, Alexandre Dumas e Victor Hugo sembrano immersi nella contemplazione dei loro pensieri; mentre la contessa Marie d’Agoult, sdraiata su un tappeto, appoggia la testa al bordo dello strumento, per osservare il suo amante con trasognata voluttà. Quel quadro è lo spaccato di un intero periodo culturale, l’era dei grandi virtuosi, capaci di incantare le folle, anche solo con la loro gestualità. Liszt era la punta di diamante di quella generazione, il miracolo di una straordinaria mediazione tra abilita ed espressività. A soli vent’anni era già un fenomeno del suo tempo. Arrivato a Parigi dall’Ungheria nel 1823, dopo un proficuo periodo di formazione a Vienna con Carl Czerny e Antonio Salieri, impiegò davvero poco tempo a conquistare il pubblico della capitale francese. Ma ben presto anche i confini parigini si rivelarono troppo stretti per quello showman, capace di mandare in visibilio qualsiasi tipo di pubblico. E tra il 1835 e il 1848 la patria di Liszt divenne l’Europa, in una tournée continua, in parte vissuta in compagnia della contessa Marie d’Agoult (da cui ebbe tre figli, compresa la Cosima che in seguito avrebbe sposato Wagner), in parte portata avanti con spirituale isolamento. In quel periodo il pianoforte era più che sufficiente per un grande virtuoso come lui; e fu solo in seguito, durante gli anni trascorsi a Weimar con la nuova compagna Caroline von Wittgenstein, che Liszt sentì il bisogno di ricorrere anche all’orchestra, scrivendo la serie dei poemi sinfonici e i due Concerti per pianoforte e orchestra.
    Il Primo Concerto nacque proprio a Weimar, nel 1849, ma fu oggetto di due revisioni (soprattutto per la parte orchestrale) tra il 1853 e il 1856: Liszt, difatti, difficilmente riusciva a trovare subito un’orchestrazione efficace, e non era raro che si facesse aiutare dall’allievo Joachim Raff, il quale ha messo le mani su molte delle partiture nate a Weimar (compresi i due Concerti). La tonalità del lavoro (mi bemolle) rimanda al Quinto Concerto “Imperatore” di Ludwig van Beethoven, modello incontestabile per il primo saggio di Liszt nel genere del concerto per pianoforte e orchestra: non solo per la grande cadenza iniziale, in cui il solista sembra aggirarsi per la tastiera in cerca di un’idea, ma anche per il tono decisamente trionfale di tutto il lavoro. Ciò che però è incontestabilmente lisztiano è la presenza di un elemento tematico, capace di infiltrarsi in tutti e quattro i movimenti: una cellula di sette note, tutta schiacciata in un ristrettissimo ambito di semitoni, che torna continuamente a bussare alla memoria dell’ascoltatore. La parentela è evidente con l’idée fixe di Berlioz (soprattutto nella Symphonie fantastique); ma Liszt avrebbe fatto di questo procedimento una regola compositiva da applicare sistematicamente a tutti i suoi maggiori lavori sinfonici. Il Quasi adagio deve certamente qualcosa a quel mondo teatrale che Liszt aveva ripensato al pianoforte in decine di arrangiamenti da concerto. L’evanescenza della melodia principale ha il lirismo delle grandi arie da palcoscenico; cosi come la sezione centrale indugia su un tono drammatico che allude a emozioni profondamente operistiche. L’Allegretto vivace e l’Allegro marziale animato sono due pagine strettamente collegate, in cui Liszt si abbandona a quel timbro liquido e gocciolante che aveva ampiamente sperimentato nella raccolta delle Années de pèlerinage (in particolare in Jeux d’eau à la Villa d’Este). Ma è in entrambi i casi la riapparizione del tema ciclico a calamitare l’attenzione dell’ascoltatore, imponendosi con quel tono sinistro e demoniaco che sarebbe rimasto una costante della produzione lisztiana (basti pensare alla serie dei Mephisto-Walzer).

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