Roberto Abbado: Verdi e il potere. Remo Girone voce recitante. Seconda parte
Auditorium Arturo Toscanini di Torino
Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai
Verdi e il potere
Roberto Abbado direttore
Remo Girone voce recitante
Nkosazana Dimande soprano
Dario Solari* baritono
Dmitrij Beloselskij** basso
Alexei Tanovitski*** basso
Remo Girone recita brani di Shakespeare
e altri autori sul tema del potere
I testi letti e recitati da Remo Girone sono firmati
da Cesare Mazzonis
Giuseppe Verdi
Don Carlo. “Restate”
duetto di Rodrigo* e Filippo**, Atto II
Remo Girone voce recitante
Don Carlo. Ballo della Regina, Atto III
Don Carlo. “Ella giammai m’amo”
scena e cantabile di Filippo, Atto IV
Don Carlo. “Il Grande Inquisitor”
scena e duetto di Filippo e il Grande Inquisitore***,
Atto IV
Dario Prolo tenore
Otello. Ballabili, Atto III
Verdi e i volti del potere
“Persin l’acqua del fonte è amara al labbro dell’uom che regna” lamenta Simone Boccanegra. Ma in quei sorsi notturni si mescola, oltre al veleno che gli porterà la morte, una più antica e letale amarezza che viene da tempi remoti. “Gift” è dono e veleno, e lo è certo per il “dono” della regalità. Da quando (come ce lo descrive James Frazer) il vecchio Re, la cui potenza sessuale non può più
influire sulla prolificità di uomini e bestie domestiche e selvaggina e raccolti, aspetta il successore che prenderà il suo posto uccidendolo. Questa Tragedia della Successione affiora e riaffiora in schiere di miti e favole, magari sotto imprevedibili travestimenti.
Donde una sorta di follia cui soggiace l’uomo nel quale si racchiude il massimo del potere. Come un urlo o un ruggito esce dalla bocca di Fetonte (colui che “guida” il carro): “Y pues ardo yo, arda todo” o del Tetrarca: ”Que todo es nada como no sean mis celos”. Mondo e regnante si identificano, e anzi il mondo (il “todo, ossia tutto”) si annulla di fronte al sentire (furore, gelosia, terrore della fine) del potente.
Non è solo Calderon a esemplificare, ma è Walter Benjamin a fornirci un’intera casistica ne il “Dramma barocco tedesco”. Se ne accenna nella Bibbia, nel mito persiano di Re colti da hybris, un capitolo intero (“Regalità e Paranoia”) dedica Elias Canetti al tema, nel suo prodigioso “Massa e Potere”. Tende disperatamente a sopravvivere, il Re, opponendosi a quell’antico fato della successione cruenta. E sopravvivere, ci dice Canetti, è ergersi sul cumulo dei cadaveri: dimostrando così che gli altri possono morire, non io.
Da qui al Macbeth di Verdi il passo e breve. “Di figli è privo”: Macduff non potrà rifarsi sui discendenti di chi ha scannato i suoi, di figli. Ucciderà il tiranno, e poi la progenie di Banco, come profetato dalle streghe, regnerà. Ed è quell’apparizione di re futuri che fa perdere i sensi a Macbeth, che pure aveva resistito a ben più truculente immagini evocate davanti ai suoi occhi.
Già Shakespeare connotava la sterilita (ossia la non successione normale, il non futuro e solo morti che si affastellavano nel tempo) della coppia Macbeth e Lady Macbeth. “Upon my head they placed a fruitless crown / ...No son of mine succeeding” confessa lui, e lei, prima di uccidere, chiede che il latte dei seni le si trasformi in fiele. Mentre le sporgenze esterne di quelle mura maledette ospitano i rondoni e i loro prolifici nidi (“procreant cradle”): come a suggerire che il resto del modo non teme procreazione.
Era comunque affiorata la pietà verdiana per tanta sofferenza, e non solo per un Simone o un Filippo. Persino per gli assassini: il lamento conclusivo di Macbeth (“Pietà rispetto amore”) è senz’altro toccante, e strazia addirittura l’intera scena del sonnambulismo: dall’introduzione orchestrale alle frasi smozzicate della Lady (la Callas pareva quasi un animale ferito, nella registrazione di De Sabata).
Il Simone che abbiamo citato agli inizi è di tempra opposta. Regna con lui il perdono: nell’estinguersi lo confortano dolcemente figlia e successore. E’ il potente “umano”, e forse la più toccante melodia che Verdi colloca nell’opera è quella che accompagna il ritrovamento della figlia, ossia della discendenza.
Tra questi due estremi si collocano altri e diversi veleni. La violenza dominatrice di Attila si confronta con l’incubo della catastrofe (anche la catastrofe, ci ricorda Benjamin, occhieggia costante in fondo al dramma barocco). L’imposizione di Amonasro su Aida (misto di ricatto e senso di patria :”Pensa che un popolo, vinto straziato, per te soltanto risorger può”): dovere e sentimento collidono. Era già accaduto per sovrani illuminati: “Se all’Impero, amici Dei, necessario è un cor
severo” cantava Tito nella “Clemenza” mozartiana, erede di quella “Berenice” di Racine nella quale si rinuncia alla felicità perchè “il faut regner”.
La sofferenza regale non si scatena più nella hybris del potere, è introiettata, diventa obbligo e costrizione. Nel “Don Carlos” di Schiller è detto esplicitamente: “Die Pflichten der Ewigkeit verstummen ihn” (I compiti dell’eternità lo rendono muto) .
Giganteggia, la figura di Filippo, nella sua solitudine, nell’incubo delle notti insonni. Solo sarà per sempre, in vita e in morte: “Dormirò sol, nel manto mio regal”. Nel buio avello dell’Escurial, come nel suo letto.
Il dovere regale, immutabile, calpesta ogni cosa: l’amore dei due giovani promessi sposi, il torbido affetto tra padre e figlio, l’umana confidenza che per una volta Filippo si permette verso il marchese di Posa, il destino e la felicita delle popolazioni fiamminghe e spagnole. E quando, corroso forse dalla personale sofferenza qualcosa di quel compito minaccia di vacillare, ci sarà un potere ulteriore, quello della Chiesa con il suo volto peggiore, l’Inquisizione, a impedirgli l’inane tentativo di sciogliersi dalla sua “maledizione regale”. E’ nel duetto Filippo – Grande Inquisitore che la violenza del conflitto politico si ritrae nel modo più fulminante di tutta la storia musicale: forse nemmeno Musorgskij è riuscito a tanto.
Cesare Mazzonis
Verdi e il potere
Cominciamo dai balletti, cioè dal Verdi più tipicamente da esportazione.
A Parigi, ovviamente, questa “capitale del XIX secolo”, come la chiamava Walter Benjamin, dove per gli operisti italiani di successo il passaggio-consacrazione all’Opera era praticamente obbligatorio dai tempi di Spontini e infatti l’avevano onorato tutti, Rossini e Donizetti in testa, tranne il povero Bellini ma solo per colpa di una parca al lavoro in anticipo. Però l’Opera voleva dire scrivere anche il balletto, obbligatorio allora e poi a lungo, se ancora negli Anni Cinquanta (del
Novecento, duole precisare) i sempiterni Rigoletto e Traviata della Maison erano accompagnati, per “fare serata”, dalle danze dell’Aida. Per la verità, il balletto era il complemento indispensabile anche delle serate a teatro in Italia; ma qui, almeno, si aveva il buon gusto di non inserirlo all’interno dell’opera e di farne scrivere la musica a compositori di serie B, infatti non a caso schifati dai colleghi operisti.
A Parigi, invece, si pretendeva dagli eletti un Grand Opéra chiavi in mano e balletto incluso. Richard Wagner, nel 1861 per Tannhäuser, fece i suoi soliti capricci: scrisse il balletto, ma insistette per collocarlo dov’era più plausibile o meno improbabile. Nel caso, all’inizio dell’opera (e la musica del Venusberg, termine che lasciamo in tedesco perchè tradotto in italiano può dare adito a
disastrosi qui pro quo). “Inde ira” del pubblico e in particolare dei famigerati Jockeys, i soci dell’omonimo club chic, che arrivavano a metà serata per installarsi nella loro barcaccia (la famigerata “fosse aux lions”), guardare le ballerine e poi raggiungerle dietro le quinte (nel famigeratissimo “foyer de la danse”) e poi finire la serata in allegria e non da soli. Tutti i non Wagner, invece, si adeguavano e fornivano alla “grande boutique”, il copyright della definizione
è di Verdi, la prevista dose di “pas des deux” e di “galop”.
Per la verità, quelli del Macbeth non sono destinati all’Opèra, ma al Théâtre Lyrique, dove nel 1865 Verdi rappresenta la sua revisione del vecchio Macbetto fiorentino del ‘47. Benchè il Lyrique fosse, all’epoca, il più avanguardistico e culturalmente impegnato dei teatri d’opera della capitale, ancora risplendente di gloria per aver tenuto a battesimo, nel ’59, il Faust di Gounod, cioè il più immarcescibile successo dell’opera francese dell’Ottocento, era pur sempre un teatro parigino ed era quindi impensabile di rappresentarci un’opera senza che qualcuno ci sgambettasse dentro. Nemmeno da discutere, invece, nel caso del Don Carlos del 1867. Il “Ballo della Regina”, collocato nel terz’atto a uso di messieurs les Jockeys e degli altri intellettuali pari loro, e puramente esornativo, protagoniste delle perle danzanti in una “grotte féerique”. Il titolo alternativo,
“La peregrina”, è appunto il nome di una delle superperle in questione, effettivamente appartenuta alle collezioni reali spagnole e destinata a una lunga e fortunata carriera. Fra i vari colli che cinse, anche quello, non meno regale, di Elizabeth Taylor, dono di Richard Burton (ma, scusate, non saprei dire per quale dei due tormentatissimi matrimoni).
Idem per Otello. Il balletto non fu scritto, ovviamente, per la prima assoluta, alla Scala nel 1887, ma per quella parigina all’Opéra nel ’94. Verdi fece il suo dovere, ma spiegò chiaramente che si trattava di un’aggiunta ad hoc, scritta per Parigi e solo per Parigi. Sicchè i tentativi di inserire le danze di Otello nell’Otello in teatro lasciano quantomeno perplessi. Per questo come per altri balletti verdiani, il posto migliore è probabilmente la sala da concerto.
Quanto agli altri brani in programma, si tratta di una buona carrellata su una carriera che, non lo si ricorda quasi mai, è una delle più lunghe che un operista abbia mai avuto. Dal 1839 (Oberto, conte di San Bonifacio) al 1893 (Falstaff), quindi senza tenere conto di incompiute (come il misterioso Rocester) o di aggiunte e aggiustamenti a opere già esistenti (come appunto i ballabili di Otello), fanno cinquantaquattro anni di teatro musicale. Il linguaggio cambia.
Ma Verdi resta sempre Verdi, come dire?, unico e inconfondibile a trenta come a ottant’anni.
Dei suoi “anni di galera” ci sono tre estratti. Attila, tratto da un pazzesco poema di Zacharias Werner, va in scena nel 1846 alla Fenice. Quella proposta è la scena e aria del protagonista del primo atto (che in realtà è il secondo, perché c’è un Prologo), un Attila che in teoria dovrebbe essere il flagello di Dio, l’unno al cui passaggio non ricresce più l’erba e figuriamoci Aquileia (e infatti nasce Venezia) e invece risulta, alla fine, il personaggio più positivo o meno negativo dell’opera. I masnadieri sono dell’anno successivo, il ’47, e scritti per Londra, dove il pubblico non è soddisfacente ma i compensi sì. Fonte, il solito Schiller (Die Räuber), che come fornitore di soggetti al gran teatro del mondo verdiano batte perfino Shakespeare. Dello stesso anno, ma di tutt’altro impegno, il Macbeth, che Verdi stesso considerava l’opera più importante che avesse scritto fino a quel momento. “Pietà, rispetto, amore” è l’aria terminale del protagonista quasi vedovo e ormai sconfitto.
Poi, certo, Verdi continua a essere il più importante operista italiano ma diventa anche il più importante operista europeo con (e non contro) Wagner, secondo un dualismo piuttosto artificiale ma che continua a far danni, come si è visto anche di recente. Don Carlos, lo si è visto, è il gran ritorno all’Opéra dove Verdi aveva già presentato nel 1849 Jérusalem, un rifacimento tutto sommato più coerente dei Lombardi alla Prima crociata e nel ’55 Les Vêpres siciliennes. Secondo chi scrive, quindi è un’opinione del tutto ininfluente, si tratta della vetta del teatro verdiano; di certo, non può mancare se si esplora il tema di Verdi e il potere, perchè di questo appunto parla Don Carlos. Rapporti di potere fra politici (il duetto del secondo atto – nella versione francese, in quella italiana e il primo – fra il Re di Spagna Filippo II e il Marchese di Posa che si spende per un linea
meno repressiva nelle Fiandre ribelli) e fra Stato e Chiesa (quello fra Filippo e il Grande Inquisitore), mentre la disperazione privata di Filippo, che del Don Carlos è il vero protagonista, emerge nel suo colossale monologo.
Con Aida, nel ’71, fa irruzione l’esotismo che è anche una proiezione geografica dell’erotismo dell’uomo bianco, destinata a durare almeno fino ai tempi, tutto sommato recenti, della faccetta nera, bell’abissina. O forse anche dopo, magari perfino adesso. In fin dei conti, il dramma di Radames potrebbe essere anche quello di un giovanotto molto contemporaneo che si innamora della colf immigrata e di colore invece di convolare, come vorrebbe tanto la famiglia, con un mezzosoprano socialmente compatibile.
Alberto Mattioli
Avanti i primi
Il programma di questo concerto consente di mettere in evidenza il contributo di illustri cantanti inizialmente coinvolti nell’interpretazione di alcuni significativi personaggi verdiani. Tale è il caso del bergamasco Ignazio Marini (1811-1873), che con Filippo Galli e Luigi Lablache fa parte del trio dei bassi italiani più rappresentativi della prima meta dell’Ottocento. Qui ascoltiamo il ≪Sogno≫
di Attila, pagina assai impegnativa cantata per la prima volta da Marini nel dicembre 1846. Il re unno diventerà un suo cavallo di battaglia vincente, perché gli permetterà di sfruttare a fondo quelle doti vocali e sceniche assolutamente eccezionali che fanno oggi di lui una figura mitica nella storia dell’opera (clamoroso a questo proposito l’infortunio occorso nel 1981 a Ghiaurov, quando, durante un’intervista, parlò di lui come di ≪un certo Marini≫).
Non figurano invece nomi di pari importanza fra le voci di basso che per la prima volta affrontarono le parti di Filippo II, del Grande Inquisitore e del Frate.
Fanno eccezione i francesi Armand Castelmary (1834-1897), di nobili natali e di risonanza internazionale (fu attivo al Covent Garden e al Metropolitan) e Louis-Henri Obin (1820-1895), rispettivamente il Frate e Filippo II alla première parigina. Ne si può dimenticare Francesco Navarrini (1855-1923), Grande Inquisitore alla Scala nel 1884, dotato anche lui di una figura imponente accoppiata a una voce di eccezionale estensione. Completano il gruppo Joseph David, Grande Inquisitore all’Opéra, il terzetto del battesimo italiano (Giovanni Capponi, Luigi Rossi e Pietro Milesi), la coppia scaligera formata da Alessandro Silvestri (Filippo II) e Leopoldo Cromberg (Frate) e infine i tre bassi della fondamentale ripresa modenese in cinque atti (Alfonso Mariani, Eugenio Barberat e Vittorio Navarini).
Ben altro rilievo assume la presenza di Felice Varesi (1813-1889) – autorevolissimo esponente della generazione iniziale dei baritoni “storici” verdiani, di cui Giorgio Ronconi, prima Nabucco, può a buon diritto essere considerato il capostipite – che prese parte, in poco più di un lustro, a tre momenti fondamentali del percorso creativo verdiano, di cui due come protagonista: Rigoletto, Germont e, soprattutto, Macbeth, cui spetta, nell’ultimo atto, una delle più commosse e incisive arie per baritono composte da Verdi.
Il baritono, voce verdiana per antonomasia, viene ulteriormente esaltata nelle pagine di Don Carlo. Ecco allora i primi Marchesi di Posa, impersonati da due cantanti quasi coetanei, fra i più grandi esponenti della classe baritonale ottocentesca: il francese Jean-Baptiste Faure (1830-1914), eminente personalità di cantante-attore ma anche uomo di potere che prese parte alla “prima” assoluta a Parigi, e il nostro Antonio Cotogni (1831-1918), presente all’esordio italiano a Bologna, il solo cantante che si dice abbia fatto piangere Verdi quando il maestro volle ascoltarlo nella morte di Rodrigo.
Ancora una coppia di baritoni, entrambi italiani, per Amonasro: alla prima rappresentazione del Cairo Francesco Steller (1824-1881), fra l’altro un Don Giovanni di riferimento nel panorama italiano dell’Ottocento, e, alla Scala, Francesco Pandolfini (1836-1916), uno dei grandi cantanti “nobili”, ammirevole per lo stile e la presenza scenica.
La conclusione di questo breve “schedario” è affidata all’unico personaggio femminile del concerto, Aida, che compare nel duetto con Amonasro preceduto dalla famosa aria “Cieli azzurri” che prevede un do acuto pianissimo. Antonietta Pozzoni, che per prima ne vestì i panni al Cairo, aveva voce di grande qualità e un elegante gioco scenico, così da meritare l’anticipato plauso di Verdi. Il
Maestro però in seguito mutò d’avviso e decise – forse anche per altre ragioni – di scegliere per la successiva Aida scaligera (da lui considerata la vera “prima”) la mitica Teresa Stolz. Il registro grave particolarmente vigoroso, le vibrazioni di quello medio, lo squillo e la risonanza di quello acuto, ne fecero il soprano drammatico verdiano per eccellenza, in seguito non facilmente eguagliato.
Giorgio Gualerzi