John Axelrod: Dvořák Concerto per piano, Benedetto Lupo pianoforte

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    Auditorium Arturo Toscanini di Torino
    Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai

     

    John Axelrod direttore
    Benedetto Lupo pianoforte

     

    Antonín Dvořák (1841-1904)
    Concerto in sol minore op. 33
    per pianoforte e orchestra (1876)
    (versione originale)
    Allegro agitato - Poco tranquillo - Tempo I
    Andante sostenuto
    Allegro con fuoco - Poco sostenuto - Tempo I

     

    Tratto dal programma di sala dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai

    Antonin Dvořák non era un pianista. La sua formazione era passata dalle parti degli archi: la viola in particolare, lo strumento che lo aveva portato a diventare membro dell’Orchestra del Teatro di Praga. Gli anni, pero, erano quelli dei grandi virtuosi: Liszt nella seconda meta dell’Ottocento aveva tirato un po’ i remi in barca, ma dalla Russia continuavano ad arrivare pianisti di lusso come Anton Rubinštejn o Alexander Siloti. Normale, dunque, che un compositore venuto dalla provincia, con il sogno di fare carriera, sentisse anche il bisogno di lasciare un segno nel corpus della produzione virtuosistica. Solo che Dvořák non aveva alcuna familiarità con quel genere strumentale: non lo aveva conosciuto da musicista, ne lo aveva frequentato come compositore. Si risolse pertanto a dire: “Non sono in grado di scrivere un Concerto per virtuosi; devo pensare a qualcos’altro”.

    Il risultato fu noto al pubblico la sera del 24 marzo 1878, quando a Praga il lavoro prese vita grazie all’impegno solistico di Karel Slavkovsky: pianista di scuola lisztiana, che certamente contribuì alla stesura della partitura. Il Concerto inizialmente riscosse una certa fortuna: nel 1883 sbarcava già a Londra, l’anno successivo a Berlino, e a Praga continuò a essere replicato piuttosto frequentemente nel decennio successivo. Paradossalmente il suo appeal sembrò venire meno proprio alla fine della grande generazione di virtuosi: destino davvero strano per una partitura che certamente non indugia sulla dimensione della spettacolarità. Il Novecento segnò il progressivo declino del Concerto op. 33; tanto da spingere nel 1919 il didatta ceco Vilem Kurz a tentare un salvataggio disperato: un nuovo arrangiamento della parte solistica che cercava di “aggiustare” tutti i supposti difetti della scrittura originale. E’ questa la versione che ha concesso una seconda vita al lavoro di Dvořák; ma alcuni pianisti continuano a preferire l’edizione originale (è il caso di Benedetto Lupo), ammirando nella scrittura del Concerto op. 33 un pensiero sinfonico, che riesce a ospitare perfettamente il pianoforte all’interno della tessitura orchestrale.

    L’ingresso in scena del solista chiarisce subito di che cosa stiamo parlando: più un ricamo pensato per prolungare l’ampio discorso dell’introduzione, che l’apparizione del vero protagonista. In questo siamo certamente vicini all’ideale messo per iscritto da Brahms nel suo Concerto n. 1 del 1858. La struttura formale è perfettamente allineata all’architettura (doppia esposizione-sviluppo-ripresa) della tradizione concertistica. Il pianoforte ha davvero pochi istanti di silenzio, ma il suo ruolo sembra soprattutto concorrere alla sottolineatura di alcuni picchi emotivi, generalmente affidati all’orchestra. L’Andante sostenuto ha qualcosa di chopiniano con i suoi magici svolazzamenti sul mondo popolare; il pianoforte diventa una voce narrante, che racconta una fiaba piena di mistero; salvo poi farsi prendere in alcuni passaggi da alcuni bruschi scatti nervosi, forse un po’ inadatti all’atmosfera sognante della pagina. Qualcosa di questa poesia immateriale resta anche nel finale (Allegro con fuoco); ma sono solo poche battute, sistematicamente sovrastate da un universo emotivo opposto, fatto di ribattuti tellurici che sembrano rubati a una festa di paese: quel museo a cielo aperto che Dvořak non avrebbe mai smesso di venerare.

    Andrea Malvano

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