Gabriele Ferro: Ravel, Monica Bacelli mezzosoprano

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    Auditorium Arturo Toscanini di Torino
    Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai

     

    Gabriele Ferro direttore
    Monica Bacelli mezzosoprano

     

    Maurice Ravel (1875-1937)
    Alborada del gracioso
    Pavane pour une infante défunte
    Shéhérazade, tre liriche per canto e orchestra su versi di Tristan Klingsor

     

    Maurice Ravel
    L’orologiaio svizzero venuto dal Mediterraneo
    Tratto dal programma di sala dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai

    Parlare di Ravel, in un certo senso, vuol dire parlare anche dei suoi genitori. Mamma Marie era originaria della costa basca: in Francia si era trasferita solo dopo il matrimonio. Ma quel cromosoma, in una Parigi tutta imbevuta di esotismo iberico, avrebbe regalato a Ravel un bene di lusso, di cui fare tesoro in opere quali Alborada del gracioso, la Rhapsodie espagnole e il Boléro. Papà Jean-Édouard invece veniva dalla Svizzera, era un ingegnere, anzi un pioniere dell’industria automobilistica (il suo nome sarebbe rimasto legato all’invenzione di un motore a due tempi applicabile alla locomozione su strada); e anche quel cromosoma, tutto calcoli e raziocinio, avrebbe lasciato un segno profondo in un musicista nato per trasformare le sue partiture in meccanismi a orologeria: musica minuziosa in tutti i dettagli, proprio come succede in un marchingegno mosso da decine di ingranaggi sofisticati. Ravel riuscì a fondere in una sola identità artistica due anime complementari: quella dell’«orologiaio svizzero», come disse Stravinskij, e quella del basco vibrante di energia mediterranea. Un simile DNA non poteva che portare successo a un musicista nato nel cuore della cultura fin de siècle. Ravel non conobbe quella strada accidentata che molto spesso diviene il percorso obbligato dei grandi artisti. Anche con i suoi fallimenti riuscì sempre a far parlare di sé: tra il 1901 e il 1905 fu bocciato per ben cinque volte dall’illustre giuria del Prix de Rome, la borsa di studio che il Conservatorio parigino offriva ai migliori allievi di composizione, ma quei fiaschi non fecero che aumentare la sua fama. Forse la scrittura rigorosa del mondo accademico non faceva per lui; ma il pubblico delle sale da concerto aveva subito visto dietro a Jeux d’eau o alla Pavane pour une infante défunte una voce di primo piano dello scenario contemporaneo. C’era qualcosa in quella musica che riusciva a conquistare le platee di inizio Novecento, senza necessariamente sconvolgerle alla maniera di Debussy; e quella felice mediazione tra il linguaggio pittoresco di fine Ottocento e la freddezza emotiva del nuovo secolo avrebbe reso Ravel un autore immortale. Un uomo così al passo con i tempi era destinato a infiammarsi di patriottismo negli anni della Grande Guerra: si sarebbe arruolato al fronte per guidare i camion dell’esercito. Ma al suo ritorno avrebbe scoperto in se stesso qualcosa di diverso: non più una persona mondana ed elegantissima, che non riusciva a fare un viaggio se in valigia non aveva almeno un paio di smoking, ma un uomo desideroso di conoscersi meglio, ripensando magari con nostalgia al passato. Proprio negli anni Venti Ravel scelse di fuggire dal caos della grande città, per isolarsi in una piccola casetta nascosta nel paesino di Monfort l’Amaury: un’appartata bomboniera piena di gingilli di artigianato orientale, giocattoli meccanici, collezioni di farfalle, soprammobili in porcellana; tutto in formato mignon, come se Ravel, superato il quarantacinquesimo anno di età, sentisse il desiderio di portare indietro le lancette dell’orologio, per rifugiarsi nel mondo surreale dei bambini. In quegli anni nacquero opere dal soggetto infantile come la versione orchestrale di Ma mère l’Oye o L’Enfant et les sortilèges: fiabe musicali in cui l’autore sfoga tutto quel desiderio di paternità che a un certo punto, inevitabilmente, matura in tutti gli uomini destinati alla solitudine. La vita di Ravel era troppo piena di cose, di eventi e di nevrosi, perché ci fosse spazio per un’altra persona; ma a gridare un forte desiderio di famiglia ci pensano proprio opere come l’Enfant et les sortilèges. La sera dell’8 ottobre 1932 Ravel conobbe un evento traumatico: uno dei pochi, in fondo, in una sessantina d’anni. Un incidente in taxi, dopo una serata mondana dalle parti della Gare Saint-Lazare. L’impatto fu violento, e il compositore si schiantò contro il vetro divisorio del veicolo. Lì per lì la cosa sembrò risolta con un paio di denti rotti e alcune costole fratturate; ma da quel momento Ravel non fu più lo stesso. Poco dopo la sua memoria cominciò a dare i primi segni di cedimento; quindi una strana forma di malattia cerebrale nel giro di pochi anni lo portò a una parziale paralisi motoria. La testa funzionava; lo dimostra la celebre frase pronunciata nel 1937, l’ultimo anno di vita: «ho ancora tanta di quella musica nella mia testa». Ma il corpo non rispondeva, e Ravel ebbe per anni la sensazione di essere murato vivo tra le pareti di un organismo che non ubbidiva più alla sua intelligenza: un po’ come se fosse costretto a osservare un estraneo vivere la sua vita. Per un «orologiaio svizzero» come lui un simile malfunzionamento sembrava quasi una beffa del destino; ma ormai nel 1937 anche la gente comune fischiettava il tema del Boléro per le strade di New York o di Vienna; e il “ticchettio” di quella musica non si sarebbe mai più fermato.


    Alborada del gracioso
    (orchestrazione del n. 4 di Miroirs per pianoforte)

    «Una raccolta che segna una profonda evoluzione del mio ideale armonico»; così Ravel definiva i suoi Miroirs per pianoforte: uno sfavillante ventaglio di cinque immagini sonore, dove tendenze visionarie ed esotizzanti si confrontano alla luce di un rinnovato linguaggio musicale. Era il 1905; Parigi era al centro della vita culturale europea. La nascita del Novecento stava maturando in ogni ambiente della città, nei luoghi in cui passavano Stravinskij, Picasso, Rodin, Proust, Gide. Ogni quartiere pulsava di vitalità artistica; ogni luogo era un’occasione di incontro tra intelligenze rivoluzionarie, un’esperienza che poteva maturare nel foyer dell’Opéra comique, nelle sale dei Concerts Lamoureux, alle mostre del Salon d’Automne, ma anche nelle chiassose brasserie della rive-gauche o nei fumosi caffè di Montmartre. Anche Ravel, dopo aver raggiunto la notorietà con Jeux d’eau, stava pensando al modo di rivoluzionare il suo linguaggio. Ben presto si sarebbe accorto che l’originalità della sua natura musicale non avrebbe richiesto un deciso sforzo verso l’avanguardia. Ma i Miroirs per pianoforte riflettono l’esigenza di cercare nuovi orizzonti linguistici. Ravel in realtà non era riuscito a conquistare gli ambienti accademici, ma aveva ottenuto il successo del pubblico, fin dalle sue prime composizioni; e in particolare i cinque brani che compongono Miroirs lasciarono un segno per la loro originale concezione poetica: non delle Images (come avrebbe fatto Debussy), ma dei Miroirs, vale a dire specchi che cercano di riflettere la realtà senza passare attraverso il filtro soggettivo e deformante dell’immaginazione.

    L’Alborada del gracioso fu la pagina della raccolta che suscitò da subito maggiore entusiasmo (il titolo rimanda a quelle variopinte riflessioni musicali che l’antica cultura spagnola amava raccontare durante le prime ore dell’alba): non a caso fu trascritta per orchestra dallo stesso Ravel nel 1918. Certo, il legame genetico di Mamma Marie non poteva che avvantaggiare Ravel alle prese con un soggetto iberico; ma l’opera colpisce soprattutto per una straordinaria capacità di inventare la Spagna, mescolando fantasia e realismo. Le sonorità pizzicate dell’apertura sono un rimando assolutamente esplicito al suono della chitarra andalusa; le terzine ribattute alludono senza troppe reticenze a un vocabolo tipico della tradizione nata al di sotto dei Pirenei; e anche l’episodio in tempo lento materializza il mondo magico della notte spagnola, tra echi di serenate e languidi pensieri d’amore. Ma l’orchestrazione sfavillante, continuamente cangiante, e i ritmi ossessivi, che sembrano ipnotizzare l’ascoltatore, sono un marchio di fabbrica di “casa Ravel”: un ritratto del folclore spagnolo che si fa ora scheletrico, ora nerboruto, ora leggero come un soffio di vento; proprio come una visione che scorre al confine tra il sogno e la realtà.


    Pavane pour une infante défunte

    Una piccola principessa, sepolta nel passato assieme alla sua gloriosa corte spagnola. Per Ravel la Pavane pour une infante défunte doveva essere la vaga rievocazione di un tempo antico, avvolto nell’eufonia di una semplice allitterazione (infante/défunte). Ma per il pubblico del 1899, quello che non aveva ancora conosciuto i Nocturnes di Debussy e le prime opere per orchestra di Schönberg, un titolo così esplicito non poteva che alludere a un malinconico compianto. Ravel non aveva fatto i conti con il suo tempo e si trovò vittima di un fraintendimento, che classificò immediatamente la Pavanenell’enorme cassetto delle deplorazioni funebri. Peccato solo che il suo pensiero andasse in tutt’altra direzione, alle radici della pavana, un’antica danza spagnola: «Questa non è la deplorazione funebre di un’Infanta (figlia femmina del sovrano di Spagna, ndr) appena morta, bensì l’evocazione di una pavana che avrebbe potuto danzare questa piccola principessa, un tempo, alla corte di Spagna». Ravel pensava a un esotismo prezioso, ma non aveva nessuna intenzione commemorativa; e soprattutto non avrebbe mai pensato che la vena malinconica del brano potesse conquistare così facilmente il pubblico del suo tempo. Fu forse quel successo dunque, talmente ampio da divenire logorante, a spingere Ravel anni dopo a prendere pubblicamente le distanze da una pagina che non era riuscito a sottrarre alla superficialità dei contemporanei.

    Non provo nessun imbarazzo a parlarne; è abbastanza invecchiata e il tempo trascorso permette già al compositore di lasciarla giudicare dal critico. Da tanto lontano non riesco più a scorgerne le buone qualità; ma purtroppo ora riesco a vederne i difetti: l’influsso di Chabrier così evidente, e la forma così povera!

    Ravel evidentemente era un critico severo, quando parlava di se stesso: certo la Pavane, pur essendo stata scritta per pianoforte nel 1899, mantiene i piedi ben piantati nella forma e nel linguaggio dell’Ottocento, forse non solo dello Chabrier delle Dix pièces pictoresques (1881). Ma basta scavare un po’ più a fondo, per scoprire una scrittura preziosa, che nasconde dietro la semplicità un raffinato tessuto di elementi arcaizzanti. Il fatto stesso che il compositore sia tornato sul brano nel 1910, per farne una trascrizione orchestrale, prova un indiscutibile attaccamento alla partitura. In quella tenue malinconia c’è qualcosa di ipnotico, un gioco di armonie che ruota su se stesso, lasciando in aggetto una linea melodica purissima, che sembra nata per essere cantata. La versione per orchestra, figlia di un genio maturo, reduce dalle scintillanti strumentazioni della Rhapsodie espagnole, evidenzia l’elegante ricamo della versione pianistica. I timbri si succedono con una leggerezza immateriale (ottenuta grazie all’uso della sordina negli archi), esaltando proprio quella temperatura emotiva nostalgica, che Ravel collegava al pensiero di un passato ormai irrecuperabile.


    Shéhérazade
    I. Asie
    II. La flûte enchantée
    III. L’indifférent

    Fin dall’inizio degli anni Novanta dell’Ottocento, Ravel avvertì un profondo fascino per le Mille e una notte. Il primo frutto di quella passione estetica cominciò a prendere forma intorno al 1887, con un progetto teatrale destinato a naufragare nel giro di poco tempo: unica superstite un’ouverture profondamente intrisa di musica russa, che deve molto al Rimskij-Korsakov dell’omonimo poema sinfonico. La prima esecuzione pubblica, avvenuta alla Société Nationale de Musique, non riuscì a conquistare il pubblico. Ma Ravel decise di non demordere e tornò sul soggetto quattro anni dopo, musicando alcune liriche tratte da una raccolta poetica di Tristan Klingsor (pseudonimo di chiara ispirazione wagneriana con cui il pittore e poeta Léon Leclèrc amava firmarsi), intitolata Shéhérazade.

    La natura variopinta e vagamente esotica dei testi spinse Ravel a immaginare una composizione che profuma di cultura russa, con particolare riguardo agli autori del gruppo dei Cinque. Ma i colori sono già personali, l’armonia densa di sperimentazioni interessanti e l’orchestrazione raffinatamente evocativa. L’esotismo di maniera dei versi di Klingsor non genera una partitura altrettanto ricca di luoghi comuni. Ravel lavora su un declamato che non sembra immemore delle recentissime esperienze debussyste del Pelléas et Mélisande. In Asie i vari episodi della scrittura musicale alludono alle tappe che una barca evanescente compie in un misterioso percorso senza tempo. L’orchestra sembra immergersi in una dimensione acquatica, che si conclude su una suggestiva eco di fanfare lontane, in cui si avverte qualche richiamo al prezioso tessuto timbrico della Damoiselle élue di Debussy. Ne La flûte enchantée prende vita una minuta serenata, impreziosita da figurazioni arabescanti del flauto: un chiaro rimando a quell’erotismo tenero e indolente che affascinava profondamente l’estetica simbolista. Anche in questo caso il confronto con Debussy sorge spontaneo: le volute dello strumento a fiato non nascondono qualche allusione alla sensualità conturbante del Prélude à l’après-midi d’un faune, di Syrinx o de La flûte de Pan (dalle Chansons de Bilitis). Chiude la raccolta una lirica in cui domina lo spleen, quella vaga mescolanza di malinconia, inquietudine e struggimento che colora molta musica del Novecento. Il tessuto orchestrale si fa spoglio e irrigidito, fino ad arrivare al silenzio su cui si apre l’ultima strofa, con la voce sola abbandonata nel suo inquietante desiderio di canto.

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