Dima Slobodeniouk: Stravinskij, Concerto in re per orchestra d’archi - Beethoven, Sinfonia n. 1 in do maggiore
Auditorium Arturo Toscanini di Torino
Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai
Dima Slobodeniouk direttore
Igor Stravinskij (1882 - 1971)
Concerto in re per orchestra d’archi (1946)
Ludwig van Beethoven (1770 - 1827)
Sinfonia n. 1 in do maggiore op. 21 (1800)
Igor Stravinskij
Concerto in re per orchestra d’archi
I. Vivace – Moderato – Con moto – Moderato – Tempo I [attacca]
II. Arioso. Andantino [attacca]
III. Rondò. Allegro
Riscrivere il passato
Tratto dal programma di sala dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai
Nel 1946 Igor Stravinskij viveva da sette anni negli Stati Uniti, dove aveva accettato un prestigioso incarico alla Harvard University. A sessantacinque anni sembrava perfettamente inserito nella cultura americana; eppure proprio allora l’Europa tornò a bussare alla sua porta: Paul Sacher gli chiese di scrivere un lavoro per l’Orchestra da Camera di Basilea. Erano dodici anni che Stravinskij non riceveva più commissioni dall’Europa; e l’occasione gli parve particolarmente stimolante. Così nell’agosto del 1946 nacque il Concerto in re, tra le colline di Hollywood, dove Stravinskij si era recato per trascorrere qualche mese di tranquillità al riparo dalla frenesia della costa orientale. Dopo un periodo di esperienze musicali eterogenee, che spaziavano dal teatro di Broadway ai balletti per il circo, era giunto il momento di ripensare alla tradizione musicale europea. Stravinskij era pronto a raggiungere il culmine della sua operazione di riscrittura del passato: il suo pensiero musicale era maturo per trovare un punto di contatto tra le esperienze neoclassiche successive a Pulcinella e la crisi del linguaggio della prima metà del Novecento. Il Concerto in re difatti non fa più uso di materiale tematico direttamente preso a prestito dalla tradizione: il linguaggio di Stravinskij si solidifica nel suo percorso di astrazione e lavora su cellule melodiche minuscole, sottoposte a permutazioni non lontane da quelle adottate dal linguaggio seriale. Eppure, nonostante questa fisionomia moderna, restano palpabili le vestigia di una geometria settecentesca: il tempo ternario del primo movimento, i ribattuti da aria operistica del secondo, i vivaci tremoli del Rondò finale. Ma delle forme e dei temi del passato resta solo più il profumo: Stravinskij le rievoca, le osserva con l’angoscia del tempo moderno, e ne trae suggestioni destinate a rimanere codificate negli strati più inconsapevoli del suo linguaggio musicale. Dagli intervalli e dai ritmi ossessivi che percorrono la partitura emergono solo più le scaglie immateriali di una tradizione deformata. Il punto di osservazione è ormai distante: gli archi sono gli stessi strumenti che impugnavano Corelli e Vivaldi, ma il loro timbro è cambiato, il loro modo di esprimersi attinge a nuove, imprevedibili risorse.
Andrea Malvano
(dagli archivi Rai)
Ludwig van Beethoven
Sinfonia n. 1 in do maggiore op. 21
Adagio molto – Allegro con brio
Andante cantabile con moto
Minuetto. Allegro molto e vivace – Trio
Finale. Adagio – Allegro molto e vivace
Il congedo di Beethoven dal Settecento
Tratto dal programma di sala dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai
Nel 1800 il pubblico di Vienna non sentiva nuove sinfonie da un pezzo. Erano passati dodici anni dalla Jupiter di Mozart e l’ultima sinfonia di Haydn risaliva al 1795. Le società concertistiche cittadine avevano tentato con alcuni lavori di Wranitsky, Eybler e Cartellieri; ma l’impatto sul pubblico era stato modesto. Era il momento di prendere coscienza di un cambiamento generazionale ormai maturo: il classicismo stava tramontando anche agli occhi dei contemporanei; l’avvento del XIX secolo preannunciava nuove idee, nuovi stili. Beethoven nella produzione pianistica aveva già assestato alcuni colpi alla tradizione; nell’ultima delle Sonate op. 2 aveva cercato una convergenza con il linguaggio del concerto solistico, nella Sonata op. 7 aveva sperimentato la contaminazione tra sviluppo ed esposizione, nella Sonata op. 13 aveva provato a seguire la sola direttiva espressiva del patetico. Risaliva al 1790 il suo primo avvicinamento all’orizzonte sinfonico: un esperimento in do maggiore rimasto solo abbozzato. Solo a dieci anni di distanza da quel timido tentativo, Beethoven si sentiva pronto per affrontare il genere che aveva reso grandi Haydn e Mozart. Naturalmente l’orchestra, ad eccezione dei clarinetti, non poteva essere molto diversa da quella dei suoi predecessori; ma, nonostante questo, l’opera può essere perfettamente descritta dall’espressione usata da Donald Francis Tovey: ≪il giusto congedo di Beethoven dal XVIII secolo≫. Non a caso molti tra i critici del tempo videro nella Sinfonia op. 21 un lavoro tutt’altro che cauto o imitativo. Furono in particolare le prime battute dell’introduzione a stuzzicare l’ascolto dei contemporanei, costringendo alcuni commentatori a parlare addirittura di concatenazioni armoniche ≪fuori tonalità≫: tre cadenze che portano a spasso l’ascoltatore senza imporre alcuna direzione precisa. Ma non è solo l’apertura a denunciare alcune inflessioni tipiche del parlato beethoveniano maturo; la cellula discendente degli archi, che incornicia l’apparizione del tema principale, ha già la fisionomia di quei gesti scomposti, ma profondamente espressivi, che con il tempo conquisteranno una funzione tematica; è lei a fungere da collante tra le varie sezioni del primo movimento e a operare una decisiva dissolvenza incrociata tra sviluppo e ripresa. Ma è soprattutto una macchia oscura, che improvvisamente si allarga dopo il secondo tema, ad anticipare quei vocaboli elettrizzanti che contraddistingueranno il periodo ‘eroico’. Il tema dell’Andante cantabile con moto fu pensato come il soggetto di una fuga, progetto di cui resta qualche eco nella serie di imitazioni iniziali; poi, però, ogni idea rimane imbalsamata nel prezioso tessuto orchestrale della varie famiglie strumentali, senza disdegnare qualche fronzolo dal sapore galante. Quanto è lontano il Settecento, invece, dal successivo Minuetto, capace di passare dalla tonalità di do maggiore a quella di re bemolle in un pugno di battute, o di materializzare un fantomatico Trio fatto di fanfare in lontananza, che sembrano appena scivolate da una poesia di Eichendorff; solo un paio di anni dopo Beethoven avrebbe avuto il coraggio di chiamare questo brano uno Scherzo. E anche a proposito dell’ultimo movimento stupisce l’accusa di puerilità lanciata da Berlioz; certo, l’ingenua freschezza dei temi non nasconde un sapore haydniano; ma non mancano quei rovesciamenti espressivi violenti e imprevedibili, che avrebbero incantato proprio gli autori romantici..
Andrea Malvano
(dagli archivi Rai)