Pascal Rophé: Gershwin, An American in Paris - Ravel, Boléro
Auditorium Arturo Toscanini di Torino
Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai
Pascal Rophé direttore
George Gershwin (1898 - 1937)
An American in Paris, poema sinfonico (1928)
(revisione F. Campbell-Watson)
Maurice Ravel (1875 - 1937)
Boléro (1928)
George Gershwin
An American in Paris, poema sinfonico (revisione F. Campbell-Watson)
Tratto dal programma di sala dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai
La nota di sala preparata da Deems Taylor in occasione della prima esecuzione di An American in Paris, avvenuta alla Carnegie Hall di New York il 13 dicembre 1928, provvede a definire un programma informativo assai minuzioso di quanto la musica intende illustrare. In verità, senza nulla togliere al prezioso lavoro di Taylor, un'analisi tanto dettagliata del pezzo non è così indispensabile per coglierne il significato, poiché il proposito di Gershwin non è quello di rappresentare musicalmente una realtà conferendole il valore simbolico e trascendente di un comunicato «alto», in grazia del passaggio dalla dimensione concreta del mondo a quella più intangibile dei suoni; al contrario il compositore non ambisce affatto a superare gli aspetti ambientali e concreti di ciò che narra, preferendo evidentemente radicarsi nella verità effettiva del mondo, per restituirla così com'essa esiste, provvista di tutte le sue caratteristiche precipue, senza esclusione di quelle propriamente materiche. Se l'essenza delle cose risiede in quanto di esse viene percepito, e se l'intento è quello di riportarne oggettivamente in musica proprio l'essenza, non resta che riprodurre fedelmente il percepito. E così, pur esprimendosi attraverso la più astratta delle arti, Gershwin riesce a negare qualsiasi tentativo di innalzarsi al di sopra della verità sensibile, di nobilitare la materia, aderendo invece all'esperienza in modo totale e incondizionato, per rendere tutta la vivacità dei dati che questa ci attesta. Questo atteggiamento di radicale oggettivismo si pone nuovi problemi spaziali e sensoriali, si sviluppa a partire da speciali disposizioni uditive e visive rivolte al paesaggio metropolitano, accresce il senso del dettaglio, dalla narratività, il fascino per la macchina e per la meccanicità che popolano il territorio urbano, in una insistente e globale propensione verso la diretta testimonianza del reale. In questo senso il Gershwin di An American in Paris è vicino alle posizioni dei pittori americani «precisionisti» della Ash Can School (si pensi soprattutto al più noto di questi, Edward Hopper) che fin dai primi anni Trenta affrontano con occhio lucido e quasi impersonale il mondo industriale e metropolitano coevo, fondando quella percezione oggettiva delle nuove iconografie contemporanee che porterà trent'anni dopo, con la pop art, all'ironica omologazione dell'arte alla realtà quotidiana. Gershwin ripercorre in questo lavoro, scritto al ritorno da un soggiorno parigino, il suo vissuto nella capitale francese; con il tema d'apertura il caos vivace e brulicante del traffico «della Place de la Concorde durante l'ora di punta» non è soltanto rievocato ma decisamente prelevato e portato in orchestra, insieme con tutti i suoi colori e rumori, che irrompono in ambito sinfonico grazie all'utilizzo tutt'altro che poetico, si direbbe anzi ironico e provocatorio, di quattro diverse trombe da taxi. Non si tratta dell'unico momento realistico: di lì a poco i tromboni «scherzando» citeranno La sorella, una canzone molto in voga in quel periodo. A seguire una grande sezione centrale di blues con il suo assolo di tromba, simbolo di un improvviso attacco di nostalgia dell'americano probabilmente un po' brillo, secondo una descrizione dello stesso Gershwin: dunque un'altra realtà a sé stante, quella artistico-culturale del blues, viene citata oggettivamente, e lo stesso accade ancora nella successiva parentesi danzante in ritmo di charleston. Una sequenza di assoli del violino, della tuba e del clarinetto basso, servono da transito verso la conclusione, nuovamente traboccante della vitalità parigina che tutto travolge.
Paolo Cairoli
(dagli archivi Rai)
Maurice Ravel
Boléro
Tempo di bolero moderato assai
Tratto dal programma di sala dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai
Nell’estate del 1928 Ravel aveva voglia di Spagna. La ballerina Ida Rubinstein si era fatta avanti con la richiesta di un balletto, basato su alcune pagine di Isaac Albéniz (tratte dalla raccolta pianistica Iberia): Ravel avrebbe dovuto orchestrare sei brani per un progetto coreografico in programma all’Opéra di Parigi. Nella sua vita inoltre c’era un nuovo amico, un pianista e compositore cubano di nome Joaquín Nin, che, guarda caso, possedeva proprio una splendida casa sulla costa basca, a Saint-Jean-de Luz, la terra in cui Ravel sentiva da sempre di affondare le sue radici. Fu in quella località piena di villeggianti che i due musicisti finirono sul discorso di Albéniz, Ida Rubinstein e del balletto ispirato al variopinto mondo della cultura iberica. Joaquín Nin tuttavia si trovò costretto a mettere in guardia Ravel: l’orchestrazione di Iberia era già stata assegnata, con tanto di esclusiva, a Enrique Arbós. Ravel non ne sapeva nulla e rispose con un bel: «Me ne infischio, e poi chi sarebbe questo Arbós?». L’ignoto musicista era un allievo di Albéniz, uno che era stato talmente vicino al maestro da trasformarsi in una sorta di curatore testamentario; ed era stato lui a ricevere l’incarico ufficiale di orchestrare i brani pianistici di Iberia. Qualche giorno dopo una busta partiva da Saint-Jean-de Luz in direzione della vedova Albéniz: una lettera di autorizzazione a procedere con il lavoro, nonostante gli impegni precedentemente presi con Arbós. Ma la risposta tardò ad arrivare, e qualche mese dopo Ravel aveva già cambiato i suoi progetti. Poco importava che nel frattempo il povero Arbós si fosse affrettato a lasciare il passo al più blasonato collega; Ravel ormai aveva già in testa una nuova idea, e la sua voglia di Spagna stava prendendo l’aspetto del Boléro: «Nessuna forma nel vero senso della parola, nessuno sviluppo, nessuna o quasi nessuna modulazione; un tema simile a quelli di Padilla (il volgarissimo autore di Valencia), ma solo ritmo e orchestra». Accantonato il progetto di Iberia, Ravel avvertiva ancora il desiderio di sfidare il suo talento di orchestratore: una «tessitura orchestrale senza musica», stando alle parole dello stesso autore, che doveva ripetere insistentemente un paio di temi – molto simili –, sommando progressivamente tutte le voci dell’orchestra, fino a raggiungere un roboante effetto di insieme. «I temi sono del tutto impersonali», tenne a precisare Ravel, perché l’interesse della pagina risiede tutto nel timbro, una sorta di magma in continua evoluzione, da seguire con quello stordimento allucinogeno che può solo produrre un ritmo (quello di bolero appunto) ostinato e inarrestabile dalla prima all’ultima nota. La prima esecuzione all’Opéra di Parigi, il 22 novembre del 1928, nella versione danzata da Ida Rubinstein, fu poco più che un successo di stima; ma fu in sala da concerto, e ancor più in sede discografica, che il Boléro seppe raccogliere un successo senza precedenti (ben 25 incisioni nel giro di soli dieci anni). La pagina trasforma l’orchestra in un palcoscenico vivente; l’organico è enorme, eppure ogni strumento si ritaglia lo spazio per un’esposizione solistica. Ma soprattutto Ravel riesce nell’impresa di incatenare l’ascoltatore a una partitura che non fa altro che iterare le stesse melodie (un tema e un contro-tema) per una ventina di volte; la musica, proprio come un orologio che non torna mai sullo stesso istante pur essendo mosso da un meccanismo ripetitivo, va avanti riutilizzando materiale già ascoltato. Ravel eleva così un monumento al principio retorico dell’unità nella varietà, dimostrando a tutti, anche agli ascoltatori più distratti, che grazie a un genio può sembrarci sconosciuto anche ciò che abbiamo appena finito di conoscere.
Andrea Malvano
(dagli archivi Rai)