Pelati italiani alla conquista del mondo
La guerra del pomodoro si combatte in Australia. Pelati italiani alla conquista del mondo.Di Melissa Fyfe e Royce Millar
The Sunday Age (Australia), giugno 2012
Dalla finestra del Conga Food's di Coburg, l’executive Mark Lightfoot tiene d’occhio le 23 piattaforme di carico, dove tutto l'anno arrivano camion e camion stracolmi di ottime merci provenienti dall'Italia: olio di oliva, pasta, prosciutto, caffè. E pomodori pelati. Ovvio. Centinaia di container l’anno, ciascuno con 45 mila lattine di pomodori in scatola di alta qualità, maturati e pelati sotto il caldo sole italiano. 180 chilometri più a nord, a Rochester, l'agricoltore Bruce Weeks rimugina sull'industria australiana di trasformazione del pomodoro, che - come gran parte dell'industria alimentare nazionale - langue: 10 anni senza pioggia, poi le inondazioni, l’impennata del dollaro australiano e il costo del lavoro poco competitivo. 30 anni fa, 400 coltivatori fornivano materia prima per sette stabilimenti di trasformazione e inscatolamento. Quest’anno i coltivatori saranno in tutto 9 (nove), per un unico impianto industriale. "Speriamo di farcela" ci dice il sessantacinquenne Weeks.
Sono anni che l’importazione dall'Italia assedia la produzione nazionale (australiana) di pomodori pelati. Oggi, con l'import di alimentari ai massimi storici, sembra proprio che gli europei abbiano vinto: nei supermercati ogni dieci barattoli, solo due sono prodotti in Australia, il resto viene quasi tutto dall'Italia. Una lattina di pelati interi (chissà, magari coltivati proprio dal signor Weeks) da 400 grammi della marca SPC Ardmona viene 1 dollaro (aus) e 67; nei supermercati Coles e Woolworth quelli italiani si trovano a un prezzo variabile tra gli 80 centesimi di dollaro (aus) e 1,39. Quindi, l'australiano medio potrà pur dichiarare la sua preferenza per "il prodotto locale", ma poi deve dar retta al portafoglio, che dice tutt’altro. Dov’è la logica in tutto ciò, visto che i pomodori in scatola italiani devono viaggiare per 17.888 chilometri o circumnavigare diversi continenti per sei settimane prima di arrivare su uno scaffale australiano? Il barattolo di pelati della Ardmona, inscatolato a Shepparton, sbarca a Melbourne dopo un paio d'ore di camion; eppure arriva a costare anche il doppio rispetto al collega mediterraneo. Come mai?
La risposta a questa domanda sta da qualche parte tra il fascino del pomodoro coltivato romanticamente in Italia e l'implacabile forza della globalizzazione, che erode tanto l'esportazione della produzione agroalimentare australiana quanto la capacità di tenere in vita il settore. E ciò che è successo al pomodoro pelato nazionale è successo anche, o sta succedendo, alla frutta in scatola, alle patate e ai frutti di mare surgelati australiani. Il pomodoro da industria - per concentrato, passata, pelati, sughi base per pizza - è una merce globale. Nel settore, Stati Uniti e Cina sono i principali attori sulla scena mondiale. L'anno scorso hanno prodotto complessivamente 38 milioni di tonnellate. L'Italia è il terzo produttore, con più o meno 5 milioni di tonnellate. L'Australia in confronto è un pesce piccolissimo: se va bene, arriva a mettere sul mercato 250 mila tonnellate di pomodori.
L'Italia ha centinaia di stabilimenti industriali per la lavorazione del pomodoro e 70 mila ettari di terreni dedicati tra Puglia, Campania ed Emilia Romagna, le regioni più adatte alla coltivazione. L'anno scorso i produttori di pomodori italiani hanno fatturato un po' più di mezzo miliardo di dollari (aus). Economie di scala del genere riescono certo a tagliare i costi, senza contare che l'industria del pomodoro in Italia presenta due vantaggi in termini di competitività: sussidi europei e manodopera a basso costo, talvolta illegale, in gran parte immigrati. Per 20 anni l'Italia ha potuto contare su braccianti in arrivo da Sudan, Eritrea, Etiopia, Marocco, Algeria, Tunisia, Egitto e India. La sede romana di Medici Senza Frontiere ha più volte documentato, l'ultima nel 2008, le condizioni di vita degli immigrati, e ha parlato di ‘forza lavoro esposta a violenza e intimidazione’, che vive in estrema povertà in edifici abbandonati, senza bagni né possibilità di accedere all'assistenza sanitaria. Secondo la rivista "The Ecologist", che ha realizzato un servizio in Basilicata l'anno passato, questi braccianti venivano pagati tra i 25 e i 38 dollari (aus) al giorno. "Dalla regione agricola del pomodoro nel napoletano arrivano storie sconvolgenti" dice lo chef di Mildura Stefano de Pieri al ritorno da tre mesi in Italia. “Si direbbe che gli italiani siano molto preoccupati da dove arriva il caffè che bevono, ma non i pomodori”.
Un importatore australiano - che preferisce rimanere anonimo - ha dichiarato a The Sunday Age che lo sfruttamento della manodopera "era molto forte in passato" e che l'industria del settore oggi sembra più responsabile. Conserve Italia, che produce il marchio famoso a livello internazionale Cirio, importato da noi (in Australia) dalla Conga Foods, ha garantito l’eticità di tutta la sua produzione; anche secondo le catene Coles e Woolworths i fornitori di pelati per il loro marchio devono rispondere ai requisiti base di correttezza lungo tutta la filiera produttiva (si noti che l'industria del settore australiana non è poi del tutto innocente: per il raccolto viene utilizzata manodopera straniera, per lo più asiatici o indiani; inoltre, mentre si sa che un coltivatore paga al contractor 22 dollari (aus) l'ora per ogni bracciante, non è mai chiaro quanto arriva davvero in tasca a quest’ultimo).
A partire dal 1978 l'Unione Europea ha sostenuto l'industria del pomodoro in scatola. I finanziamenti al settore (ad agricoltori e conservifici), che hanno toccato il massimo a metà del decennio appena trascorso con 493 miliardi di dollari, stanno lentamente diminuendo. A ogni dollaro di guadagno che un coltivatore italiano mette in tasca, l'Unione Europea aggiunge 41 centesimi, il che si traduce in pratica con la possibilità di vendere a un prezzo più basso rispetto ai colleghi australiani. Con la riduzione dei sussidi, i coltivatori vendono agli industriali a prezzo più alto. Quest'anno hanno ottenuto un aumento del prezzo di vendita del 26% , ovvero lo stesso dei coltivatori australiani, e cioè circa 4 centesimi a barattolo.
Per una decina di anni a partire dal 1992, l'Australia ha combattuto l'importazione sottocosto del pomodoro italiano con i dazi, fino al 2002 quando un importatore ha presentato ricorso contro il governo federale e ha vinto. Poi c'è stata l'impennata del dollaro australiano, cresciuto di un terzo contro l'euro, che ha reso i costi di spedizione più vantaggiosi. Dal 2007, le importazioni di pomodori sono cresciute del 40 %. Fonti del settore parlano di importatori che acquistano le lattine tra i 32 ¢ per la bassa qualità e i 60 ¢ per la premium. La spedizione costa poi tra i 12 e 17 centesimi a scatola. I supermercati Coles, Woolworths e Aldi sono i maggiori importatori (53% del mercato) di pelati che poi mettono in vendita col proprio marchio. Il perché è chiaro (ogni australiano consuma in media 25 kg di pomodori in scatola l'anno). Entrambe le catene di supermercati giustificano la predilezione per i pelati italiani allo stesso modo, e cioè che "la dolcezza, la consistenza e la ricchezza del pomodoro italiano sono diventate lo standard di giudizio per questo prodotto", un po’ come la banana del Queensland australiano. "E' così che i consumatori vogliono i pomodori" spiega la portavoce di Woolworths. Il Sunday Age ha voluto verificare questa affermazione con un esperimento con nessuna pretesa scientifica. I pomodori pelati e il succo di pomodoro Ardmona avevano la stessa consistenza e polpa del collega a marchio Cirio, solo un po' meno dolci. Il prodotto nazionale ha ottenuto l'approvazione da parte di un veterano del settore, che ha voluto prender parte al nostro esperimento. "Buono" ha detto, aggiungendo che una volta i pelati australiani erano diversi da quelli italiani, perché erano verdastri, difficili da tagliare e molto fibrosi.
Nei supermercati si trovano buoni prodotti, ma mai buoni come quelli di marche italiane. I pomodori americani sono risultati i secondi più graditi, mentre le tre varietà cinesi, dall’aria così anemica, ultimi. Le catene Coles e Woolworths giustificano il fatto di preferire il prodotto mediterraneo anche perché l'industria australiana non è in grado di fornire quantitativi costanti. E qui, l’industria nazionale ha ben poco da ribattere. Gli australiani facevano e fanno tutto giusto, dal rimanere sul mercato senza alcun tipo di sussidio, al migliorare la qualità del prodotto finale, fino a diventare i produttori più efficienti del mondo, con 150 tonnellate per ettaro (contro le 74 in Italia e 105 in California) in una buona annata. Resta il fatto che nulla possono contro il clima.
Dieci anni di siccità sono stati duri, l'acqua per l’irrigazione costava molto cara. La SPC Ardmona, di proprietà della Coca Cola Amatil, arrancava. La Simplot ha abbandonato il settore conserve. Come se non bastasse, sono arrivate le inondazioni, che si sono portate via metà del raccolto 2010/2011. Marl Lightfoot della Conga Foods crede che l'industria australiana sia particolarmente vulnerabile perché si trova tutta concentrata in una piccola regione a nord dello stato di Victoria e nel New South Wales meridionale. L'intero raccolto può essere spazzato via da un unico evento climatico, al contrario dell’Italia, dove il pomodoro è coltivato lungo tutta la penisola. "I nostri produttori mi stanno molto a cuore" ci dice, "Ma la domanda nazionale è superiore a quanto i nostri riescono a produrre".John Brady, executive di Cedenco, l’azienda di proprietà giapponese che taglia a cubetti la polpa di pomodoro a Echuca prima di mandarla alla Ardmona, spera fortemente che le cose cambino. La sua è anche una delle principali aziende agricole dedicate alla coltivazione del pomodoro da industria. Ha 33 impiegati fissi e 200 stagionali, e contribuisce all'economia regionale per 50 miliardi di dollari (aus). Brady sta facendo di tutto per ridurre i rischi legati al clima: estende la produzione su un territorio più vasto e si avvale delle migliori tecnologie e tecniche di coltivazione. Resta il fatto che le catene di supermercati si lamentano che la sua azienda non è in grado di soddisfare la richiesta. "Intendo fare in modo che in futuro non succeda più" dice al nostro giornale. Secondo Bill Pritchard, docente di geografia economica dell'Università di Sydney e autore di un saggio sul mercato globale del pomodoro in scatola, l'esperienza insegna che, per quanto gli agricoltori si facciano in quattro, "l’Australia è schiacciata dalla concorrenza spesso sleale e dalle economie di scala".
Il futuro della trasformazione del pomodoro, non solo di quello australiano, è incerto. Gli importatori combattono contro i marchi dei grandi supermercati. In Italia i prezzi potrebbero aumentare se l'Europa porrà dei limiti ai finanziamenti, per i quali è prevista una revisione l’anno prossimo. Senza contare che neanche l'Italia è immune alla concorrenza del pomodoro a basso costo cinese, al punto da dover imporre nel 2004 un sistema di regole per l’etichettatura, in modo da identificare bene il prodotto tutto italiano, visto che è proprio l'Italia il più grande mercato per il concentrato di pomodoro cinese. Intanto a Rochester il nostro signor Bruce Weeks spera che i consumatori australiani vengano incontro alla categoria. "Se vogliamo che da noi la gente continui a lavorare, dovremo comprare il ‘Made in Australia’ ", ci dice. "Qui tutti i giorni qualcuno viene licenziato. Tutti i giorni qualcuno perde il posto. Non si può andare avanti così. Rischiamo che non ci sia più nulla di prodotto in Australia".