Mia madre era una donna energica e quando mi chiedeva qualcosa lo esprimeva in modo piuttosto autoritario.
Ma quel pomeriggio, quando venne a dirmi che non sarei potuta uscire di casa, ebbe un tono tenue e apprensivo, molto diverso dal suo stile.
Era una calda giornata di maggio del 1944 e con la bella stagione nessuna mamma di Esperia vietava alle figlie di uscire il pomeriggio.
Il nostro era un paesino della Ciociaria, nel basso Lazio, abitato da contadini: ci conoscevamo tutti e non vi erano pericoli in strada.
Le nostre madri, in primavera, ci potevano semmai riprendere sull'abbigliamento perché noi, appena la bella stagione bussava alle porte, andavamo scalze e con la gonna leggera.
La nonna mi ripeteva sempre:
"Aprile, non ti scoprire, maggio vai adagio, giugno allarga il pugno..."
I nostri giochi primaverili preferiti, sul sagrato della parrocchia, erano la campana, il salto alla corda e nascondino, quando il parroco, don Alberto, aveva tempo di fermarsi a giocare con noi.
Le ragazzine di Esperia, contadine come me, non andavano a scuola e si dividevano tra i lavori in casa e nei campi.
Don Alberto ci aveva insegnato l'alfabeto e a fare i conti col pallottoliere.
Il resto delle lezioni si svolgeva a casa: pulire, rammendare, diserbare, seminare, mungere.
Io quel giorno avevo fatto tutti i servizi che mamma e nonna mi avevano ordinato... ero una brava figlia e allora perché dovevo stare a casa?
Perché questa punizione ingiusta?
"Ùttera, uttarèlla mia", disse la nonna in dialetto... ancora mi chiamava bambina, cioè Ùttera.
"Stai con la tua nonnetta."
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Ma io avevo dodici anni... è vero che giocavo ancora con le bambole e, infatti, avrei voluto far conoscere alle amiche le mie quattro regine di pezza che avevo cucito con la nonna.
Non ci fu verso e rimasi con il broncio seduta in cucina.
Allora mamma mise dentro casa la gatta e tutti i micetti che erano nati da poco.
Questo era un altro segno molto strano, una concessione mai vista, perché per mia mamma e mia nonna le bestie dovevano restare fuori.
Mi distrassi giocando coi gatti e poi con la nonna preparammo una torta, o castagnàcce, con la farina delle castagne che in autunno si raccoglievano nei boschi alle pendici dei monti Aurunci.
Con le castagne facevamo tutto, pure le tagliatelle di cui erano ghiotti i soldati tedeschi: gli invasori che avevano occupato Cassino e i nostri paesi ciociari lungo la cosiddetta linea Gustav.
Ce lo aveva spiegato il parroco che parlava qualche parola di tedesco e per il quieto vivere del paese cercava di intendersi con gli ufficiali.
Don Alberto disse che le postazioni militari lungo questa linea andavano dalla costa del Mar Tirreno, penetravano nell'entroterra lungo la linea del fiume Garigliano, attraversavano i nostri monti fino a raggiungere Ortona, sul Mar Adriatico.
Mi sembrava un'idea pazzesca, una linea che tagliava in due l'Italia.
La immaginavo come un catena allineata di bombe, di armi e di carri armati.
I contadini, cioè i nostri genitori, avevano trovato un certo equilibrio coi militari e loro non ci facevano del male...
Capitava che qualche soldato semplice ci rubasse di notte: uova, patate, frutta e anche qualche maialino trafugato dalla stalla.
Ma noi stavamo zitti.
Avevamo paura di Hitler e di quello che stava ancora succedendo a Cassino... eravamo informati dei bombardamenti.
Don Alberto ci aveva detto che avevano distrutto pure l'antica abbazia... ma noi eravamo a Esperia e tiravamo a campare.
"Tira a campare", diceva sempre mio padre a tavola, prima di distribuire il cibo.
Però quella sera, tagliando o castagnàcce, la nostra cena, non lo disse.
Gravava un silenzio pesante e poi, mentre spicciavo la cucina, sentii i grandi che parlottavano fra loro e la nonna che a bassa voce diceva in dialetto:
"Non fate scappare quella bambina!"
Quella sera mio padre era tornato tardi.
Era stato a Lenola a vendere la frutta perché era giorno di mercato, sicché pensavo che stesse commentando dei fatti di Lenola con mamma e nonna.
Ma parlavano piano piano e io sentii solo quella frase: ero io la bambina che non doveva scappare?
E perché?
Cosa aveva visto o saputo mio padre al mercato?
Sentii poi mia madre dire qualcosa... di una notizia avuta dalla comare... ma non riuscii a capire nient'altro.
La gatta e i gattini erano ancora dentro casa, sicché preparai per loro una cuccia per la notte.
Andai a dormire con tutti questi dubbi, con i gatti e con le mie quattro bambole regine.
Ma il risveglio fu peggiore del giorno precedente... sentii una serie di colpi provenire dal solaio: un battere di martello.
La casa era al buio.
Quando provai a aprire una finestra la mamma mi urlò di non farlo.
Erano le 8 di mattina e mamma e nonna, nervosissime, mi prepararono il pane e il latte della colazione a lume di candela.
"Cos'è accaduto?", domandai a entrambe.
Sulle prime nessuna delle due rispose ma poi, dopo un certo silenzio, mia nonna disse che sarebbe potuto arrivare in paese il bobbe malefico e che nessuno poteva uscire.
Il bobbe, per intenderci, è l'uomo nero, quello delle favole.
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Mio padre scese le scale ed entrò in cucina poggiando il martello sul tavolo.
Disse che era tutto a posto e poi mi diede un bacio in fronte dicendo che ero la sua stella.
Era tutto completamente assurdo, io continuavo a non capire nulla ma mia madre fu risoluta e stavolta coi suoi consueti modi autoritari mi disse, senza nessuna spiegazione, che mi sarei dovuta lavare e vestire e preparare qualcosa per passare il tempo: le bambole, il ricamo, il disegno...
Poi mi aggiunse che mi sarei dovuta rintanare per un certo tempo in un nascondiglio.
"O bobbe mi sta cercando?"
La mamma sorrise e mi disse di no: non cercava me e nemmeno le mie regine.
"E allora che ho fatto di male?"
Io non capivo da chi dovessi nascondermi.
Eravamo in tempo di guerra però il pane non ci era quasi mai mancato e non avevamo patito sofferenze in famiglia.
Perché ora mi sarei dovuta nascondere... chi cercava una ragazzina qualunque, figlia di contadini?
Avevo paura e obbedii.
Il nascondiglio era in soffitta, sotto il tetto, in una larga intercapedine.
Salii portando le bambole, una scatola di colori e un album da disegno oltre al pigiama per la notte, un pettine e altre piccole cose.
Mio padre aveva sbarrato la finestrella con delle assi di legno e poi rinforzato il tetto.
Aveva sistemato un pagliericcio nell'intercapedine dove mi sarei dovuta ritirare per la notte e in qualunque momento sentissi provenire dei rumori dalle scale.
Mia madre si preoccupò del bagno, cioè del vaso da notte e di una bacinella per lavarmi il viso.
Nonna cucinò una focaccia, la mia preferita, e me la diede da portare su che era ancora calda.
La cosa più difficile era sopportare un'intera giornata a lume di candela.
Maggio, coi suoi effluvi profumati, era lì fuori e io dalle feritoie, tra le assi di legno, percepivo la luce purissima del sole sui campi di grano e di papaveri che erano tutt'attorno alle case del paese.
Mio padre aveva sbarrato anche la porta: ci aveva messo davanti un grande armadio che copriva interamente l'entrata della soffitta e dalla fodera posteriore dell'armadio aveva aperto un buco, coperto da gli indumenti ripiegati, da cui potevano passarmi cibo, acqua e candele.
Le regine, le mie bambole, mi guardavano e io guardavo loro, completamente attonita.
Allora pensai di disegnarle.
Il tempo sarebbe trascorso più in fretta se mi fossi impegnata a fare qualcosa.
E soprattutto scacciavo i cattivi pensieri.
Continuavo a ripetermi la domanda che non aveva avuto alcuna risposta, sul perché mi trovassi in pericolo.
Presi la prima bambola e la avvicinai alla luce della candela.
Era la mia regina bambina; la immaginavo proveniente da un reame lontano lontano, dove le case erano fatte di marzapane, i dolci e le caramelle erano agli angoli di tutte le strade e i fiori scendevano a cascata dai balconi.
Disegnavo e canticchiavo:
Ninna nanna ninna oh,
questa bella bimba a chi la do...
La darò all'uomo nero che la tiene un mese intero!
E poi mi tornò in mente la voce della nonna che diceva:
"Il bobbe malefico...!"
Chi sarà costui che è arrivato in paese?
Possibile che io fossi rinchiusa mentre fuori infuriava il bobbe?
Ninna nanna ninna oh,
questa bella bimba a chi la do...
La darò alla regina che la tiene una mattina!
Poi smisi di cantare, mi girava la testa.
Alla sera arrivò la cena attraverso il foro dell'armadio.
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Vidi la mano di mia madre che mi passava un fagotto che avvolgeva una pentola di fagioli con le salsicce e un tocco di pane.
Una cena ricca!
Poi, con voce sommessa, la mamma dall'altra parte della parete mi chiese se stessi bene.
Le risposi affermativamente ma non mi diede il tempo di aggiungere altro perché scese le scale di corsa.
La notte trascorse abbastanza tranquilla, sulla paglia disposta nell'intercapedine, e mi addormentai pensando a come avrei realizzato il disegno della seconda regina.
La prima alba della mia reclusione si annunciò movimentata.
Dalle feritoie di legno vidi una colonna di mezzi blindati tedeschi che andava via.
Il nemico abbandonava la linea Gustav?
Poi si sentirono dei colpi di mortaio che provenivano da lontano.
Saltai giù quando sentii la voce della nonna che mi chiedeva di passarle il fagotto della cena.
Io glielo passai e lei lo svuotò per riempirlo con una bottiglia di latte caldo, il pane, la frutta e una fetta di castagnaccio.
Con la stessa tecnica della sera precedente ricevetti la colazione.
"Mangia e non pensare!"
La nonna la faceva facile nel sostenere che non dovessi pensare.
Io le parlai dei soldati tedeschi.
"Ma se il nemico va via, perché io sto qui nascosta?"
"Non lo sappiamo...", questa fu tutta la sua risposta e andò via.
Il mio secondo disegno procedeva bene.
Doveva essere il primo pomeriggio quando sentii che nonna e mamma parlavano sull'aia: non potevano sapere che le loro voci arrivassero fin lassù!
In primavera la nonna puliva le verdure seduta all'aperto ma io non potevo vedere cosa stessero facendo... sentii giusto mia madre che, in dialetto, diceva alla nonna che se avessero voluto prendere una di noi, avrebbero preso lei, visto che io ero al sicuro.
Rabbrividii e tutta la notte rimasi sveglia con questo pensiero tremendo.
Inutile chiedere di più: non mi avrebbero detto nulla, questo era poco ma sicuro.
Il giorno seguente, il mio terzo giorno di reclusione, disegnai la terza regina e anche la quarta, la più anziana, che immaginavo fosse la nonna sovrana di quel reame pieno di dolciumi e di fiori.
Passato il tramonto sentii delle voci, un cantare robusto di voci maschili proveniente da lontano.
Non capivo le parole ma lo prefiguravo come un cantare di soldati in marcia.
Nonostante il mio isolamento, la mia immaginazione funzionava assai bene perché quando si avvicinarono sentii dei chiari rumori di scarponi e di armi e risa sguaiate e urla in una lingua che non conoscevo ma che non era tedesco.
Mi raccontarono poi che l'esercito si fermò davanti alla parrocchia.
Don Alberto uscì in abito talare e col Vangelo.
Il caporale maggiore parlava francese ma sbiascicava le parole perché era completamente ubriaco.
Non faceva molta differenza perché nessuno a Esperia era in grado di capire distintamente il francese, nemmeno don Alberto.
Mi dissero che il nostro parroco li accolse benedicendoli ma io senti solo un colpo di fucile e molte risa.
Mi dissero che don Alberto fu preso e spogliato sul sagrato.
Un sacrilegio a cui ne seguirono altri indicibili.
I soldati si sparpagliarono, entrarono con violenza in molte case e presero le mamme, le figlie, a volte anche le nonne che radunarono in piazza.
Malmenarono chi faceva resistenza, a volte uccisero.
Saccheggiarono le cantine e le dispense e non risparmiarono nemmeno gli animali.
Mentre tutte questo accadeva io non vedevo nulla ma sentivo.
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Presi le poche cose che avevo con me e le spinsi in fondo all'intercapedine.
Poi spensi la candela e mi nascosi nell'angolo più estremo, raggomitolata e stretta con le mie regine.
Sentivo urlare, mi sembravano le voci delle mie amiche.
Sì, erano loro!
Le voci venivano spente, soffocate, sopraffatte da un incitare di uomini che ridevano, applaudivano, urlavano.
Poi sentii un tramestio più vicino.
Il battere alla porta di casa nostra con la testa del fucile.
Erano colpi terribili.
Compresi che da basso nessuno apriva.
Allora la truppa del bobbe buttò giù la porta.
Mio padre aveva solo una scacciacani... pensai che ci avrebbero uccisi tutti.
Poi sentii rumore di oggetti in pezzi e delle urla selvagge.
E infine le maledizioni e pianto della nonna.
Io mi tappai le orecchie, mentre tremavo in preda al panico.
Furono momenti interminabili.
Poi più nulla.
Ancora non so dire quanto tempo rimasi come paralizzata, senza respirare, schiacciata sotto le tegole della casa.
Mi ricordo che mi pulsavano le tempie e mi faceva male la mandibola per quanto avevo serrato i denti.
Vi fu infine un bagliore che mi provocò un ulteriore spavento.
Dal tavolato del tetto si poteva vedere qualcosa.
Era un fuoco, lontano, verso la chiesa.
La campana suonò a martello.
Mi tirai su per vedere meglio, ma oltre al bagliore di un fuoco c'era solo del fumo; poi fu solo pianto e lamento.
Dopo alcune ore, nonna salì le scale e compresi che era lei perché si fece riconoscere.
Dall'altra parte dell'armadio mi disse:
"Come stai uttarèlla mia? Come stai...", le tremava la voce.
"Mamma mia!", non avevo altre parole.
E piansi a dirotto.
L'indomani tiraron via l'armadio.
La nonna mi abbracciò forte e mio padre mi prese in braccio e mi portò giù per le scale.
La luce mi feriva gli occhi: ero stata troppo tempo al buio.
"E mamma?"
Era a letto e non me la fecero vedere.
Mi dissero che si era impaurita ma che stava bene.
I giorni a seguire, a poco a poco si svelò la verità.
Angela, la cugina di un'amica mia, raccontò:
Eravamo scappate in cima alla montagna Polleca.
La sera ne arrivarono una ventina alla porta di casa nostra.
Erano neri, brutti, vestiti con quegli abiti lunghi e con gli orecchini come li portano le donne.
Alcuni di loro avevano gli orecchini pure al naso e lunghe trecce di capelli.
Che paura!
Io e mia sorella ci salvammo per miracolo...
Uno col mitra piantonava la porta.
Entrarono tutti e presero le donne che non riuscirono a scappare... e le picchiarono.
Furono come delle bestie...
Peggio delle bestie, cinque o sei abusavano di una donna a ripetizione... uno dopo l'altro e strillavano...
Grazie a Dio noi riuscimmo a fuggire.
Ma tante altre sono morte,
ferite e dissanguate;
mentre malconce e infette furono le altre che rimasero in vita.
Era tutto un fuggire.
La vallata era tutta un pianto e un lamento.
I marocchini ebbero carta bianca e per due giorni fecero i diavoli.
Fu come precipitare nell'inferno.
Nulla rispettarono... nemmeno l'età...
E presero le vecchie così come gli uomini.
[Cfr.: T. Baris, Tra due fuochi. Esperienza e memoria della guerra lungo la linea Gustav, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 100]
Don Alberto non sopportò le sevizie e morì subito dopo, bocconi sul sagrato.
Molte delle mie amiche si ammalarono e qualcuna si ritrovò col pancione.
Io sarei voluta scappare nel regno delle mie regine ma così non fu e non ebbi mai la certezza di quel che accadde a mia madre.
E questa, agli atti, è la versione di Eva.
Contesto storico
Il racconto di fantasia prende spunto da una tragica pagina della storia della Seconda Guerra Mondiale.
Nel settembre del 1943 i tedeschi occuparono Cassino e i territori che dalla foce del Garigliano, passando tra la Campania e il Basso Lazio, si estendevano fino a Ortona, sull'Adriatico.
Era la cosiddetta Linea Gustav.
Dopo lo sbarco dell'esercito angloamericano ad Anzio nel 1944, la linea difensiva tedesca si indebolì e i pesanti bombardamenti, a Cassino, a Pontecorvo, ad Anagni costrinsero i tedeschi ad arretrare.
Ma la sconfitta divenne inevitabile con l'avanzata, dagli Appennini, del Corpo di spedizione francese.
Mentre gli anglo-americani si preparavano a liberare Roma, i cosiddetti goumiers, arruolati nell'esercito francese, si affacciarono sui Monti Aurunci nel maggio 1944.
Erano dodicimila uomini, per lo più marocchini e tunisini, reclutati sulle montagne del Maghreb, capeggiati dal generale francese Alphonse Juin.
Il 14 maggio i goumiers aggirarono le linee difensive tedesche dislocate nella valle del Liri, consentendo in tal modo la contemporanea azione britannica finalizzata a sfondare la linea Gustav.
In seguito al successo di questa operazione, si ritiene che il generale Juin avesse promesso alla sua truppa 50 ore di libertà.
E sembra altresì che fosse circolato un volantino, scritto in francese e arabo, prima della battaglia del 14 maggio, per incitare i soldati a impegnarsi al massimo.
L'autenticità del documento storico non sembra essere verificata e lo leggiamo nella traduzione italiana, a cura dell'Associazione nazionale vittime civili di guerra:
"Soldati! Questa volta non è solo la libertà delle vostre terre che vi offro se vincerete questa battaglia.
Alle spalle del nemico vi sono donne, case, c'è un vino tra i migliori del mondo, c'è dell'oro.
Tutto ciò sarà vostro se vincerete.
Dovrete uccidere i tedeschi fino all'ultimo uomo e passare a ogni costo.
Quello che vi ho detto e promesso mantengo.
Per cinquanta ore sarete i padroni assoluti di ciò che troverete al di là del nemico. Nessuno vi punirà per ciò che farete, nessuno vi chiederà conto di ciò che prenderete."
[in: B. Tortolici, Violenza e dintorni, Roma, Armando, 2005, p. 83]
Il bilancio di queste 50 ore di libertà fu tragico.
Secondo i dati ufficiali del Ministero degli interni le donne e le bambine violentate furono 3100 di cui 700 a Esperia mentre 800 furono gli uomini sodomizzati e in alcuni casi uccisi per impalamento.
Molte case furono incendiate e il 90 % del bestiame sottratto.
Le malattie veneree dilagarono e furono causa di morte per molte persone.
Diverse donne marocchinate diedero alla luce i figli del bobbe che a fatica vennero integrati nella società...
La vicenda, dimenticata per decenni, riaffiora lentamente dalle zone d'ombra della Liberazione.
Si ritiene oggi che la responsabilità delle violenze sia ricaduta interamente sul generale Juin per scagionare le alte sfere militari francesi: ma il generale De Gaulle e il ministro della difesa francese Diethelm non potevano non sapere cosa stesse accadendo poiché in quegli stessi giorni si trovano sul posto!
E' documentato infatti che il 16 maggio 1944 i due uomini di Stato fossero a soli 3,5 chilometri da Esperia, nelle retrovie francesi, per constatare la ritirata dei tedeschi.
Per questo motivo si sospetta che il volantino, firmato da Juin, possa essere stato redatto a posteriori, per scagionare De Gaulle e il ministro.
Dopo la guerra venne riconosciuto dalla Francia un indennizzo alle vittime, una somma per donna stuprata che andava dalle 30 alle 150 mila lire.
Ma questa somma venne detratta dai danni di guerra dovuti dall'Italia alla Francia, lasciando al governo italiano la responsabilità di riconoscere un indennizzo ridicolo, dovuto in forma di pensione minima e a tempo determinato.
La memoria collettiva inghiottì la vergogna e la gente del luogo preferì tacere e dimenticare.
La Liberazione italiana uscì indenne da queste vicende, come un cristallo purissimo.
Nessun tribunale internazionale si è mai interessato alla vicenda e nessun soldato è mai stato punito per questi crimini di guerra.
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