L'uva acerba




[Racconto di Paola Manoni]


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durata 25 minuti



Via della Signora è una storica strada nel centro di Monza.
Ma più popolare della via è la mia storia, la vita di suor Maria Virginia, raccontata in tutte le epoche, nella letteratura, nel teatro e nella pittura.
Però, com'è più facile commemorare i morti anziché riconciliare i vivi!
Perché, se è pur vero che il ricordo di me arriva sino a voi, la crudeltà di una vita reclusa ancora in me non si placa.
Avevo tredici anni quando venni portata in convento.
E come avrei potuto, a soli tredici anni, compiere una scelta libera, ribellarmi a mio padre, conte Martino de Leyva!?!
Mia madre morì un anno dopo la mia nascita, nel 1576, a causa del flagello della peste nera che si propagò a Milano.
Il mio signor padre voleva trovare una soluzione conveniente per liberarsi della sua primogenita orfana e sposare a Valencia una facoltosa nobildonna spagnola.
"Sorella mia", disse un giorno mio padre a una delle mie zie, "questa bambina cresce sana e rigogliosa... Non ha l'umore caldo-umido che porta a putrefazione, come fu per la madre."
"Diletto fratello, saresti assai deluso se riponessi le tue speranze nella morte della fanciulla!
Ella è sanguigna, rubiconda e gioviale: l'alito della vita spira forte in lei!", commentò la donna aggiungendo un lungo sospiro.
"Se non potrò avere la complicità di un'indole biliosa... allora... un giorno farò ammenda, mi rincresce dirlo: Marianna deve sparire comunque.
Le questioni di successione con la famiglia della madre bloccano i miei affari, io devo tosto raggiungere la terra di Fiandra e poi rientrare in patria!
Ritardar non devo la proficua alleanza matrimoniale che mi attende!"
La sorella fu pervasa da un brivido.
Cosa stava balenando nella mente del conte?


 

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Immagine ovale del busto di una bambina (Per leggerne la descrizione proseguire nel link) Vestita da suora, la bambina tiene in  una mano un orsacchiotto.Particolare della testa.Particolare dell'orsacchiotto.
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Istintivamente controllò la bambina che serena dormiva nel suo lettino e si fece il segno della croce.
Poi disse al fratello:
"ESTÁ MUY CLARO", ovvero... chiarissimo.
Il ramo cadetto dei de Leyva, originari della Navarra, si era insediato in Italia al seguito dell'imperatore Carlo V, che gli conferì il feudo di Monza.
La componente iberica era ovviamente molto forte e l'intercalare dello spagnolo con l'italiano era tipico delle conversazioni familiari.
"EL HONOR ANTES QUE LA CONCIENCIA!", l'onore prima della coscienza, rispose mio padre.
Il suo volto era cupo e un minaccioso timbro di voce accompagnava queste parole.
"E allora, lascia a me la cura di questa nipote reietta e tu rientra EN VALENCIA!
Aggiusteremo le cose qui in provincia... vedremo come assicurare l'esistenza di questa creatura senza macchiare nessuna anima."
Qualche mese dopo mio padre partì.
Dapprima seguì don Giovanni d'Austria nella guerra nelle Fiandre, rimanendo nei Paesi Bassi fino al 1580.
La zia, una donna dal carattere tenace, aveva stabilito un piano che attuò a mano a mano che io crescevo.
"Marianna, Mariannina!", mi chiamò un giorno la zia, porgendomi un pacchetto.
"C'è un regalo per te!"
Alla mia epoca era assai raro ricevere un giocattolo.
Il dono invero era già la sorpresa di ricevere qualcosa...
"Per me????", domandai con grande meraviglia.
"Aprilo, è un regalo!", rispose la zia.
Ma io avevo mostravo reticenza.
"Suvvia", disse la zia in modo invogliante, "non sei curiosa di sapere cosa contiene?"
Tastai il pacchetto prima di aprirlo.
Era piccolo e morbido.



 

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Immagine ovale del busto di una suora (Per leggerne la descrizione proseguire nel link). Si vede il busto di una suora con le mani l'una sull'altra.Particolare del volto della suora.Particolare delle mani della suora.
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La zia mi aiutò infine ad aprirlo, cercando di non sgualcire la carta velina di colore lilla che lo avvolgeva.
La carta era un bene.
Mia zia piegò il foglio e lo annusò.
Disse che aveva il caratteristico odore della buona carta, di quella che veniva prodotta a Fabriano e mi spiegò che era importante non sgualcirla perché era divenuta una rarità con l'avvento della peste.
I cenci, infatti, di cui era fatta tutta la carta, scarseggiavano da quando un'ordinanza aveva disposto di bruciare gli stracci perché veicolo di contagio del morbo.
"Una bambolina di pezza!", dissi tradendo stupore.
"E' bella ma com'è scuro il suo vestito!"
"E' una bambola speciale, una sorella religiosa", disse risoluta la zia, "non vedi che indossa i sacri abiti?"
La bambola era velata e abbigliata di nero e un piccolo rosario di legno le cingeva la vita.
Quanti di voi hanno giocato con una bambola suora?
Ma io la cullai, era l'unico giocattolo in mio possesso.
La chiamai Suor Crispina e io le facevo da mammina.
Le cantavo l'Alleluia e le prime strofe del Te Deum che padre Mariano, il cugino della zia, mi stava insegnando, strofa dopo strofa.
Si può dire che tutte le mie attività avevano un contenuto religioso, in accordo col progetto della zia.
Le lezioni di cucito, ad esempio.
Le bambine delle famiglie nobili dedicavano le ore di ricamo al corredo nuziale.
Io ricamavo la pianeta per il vescovo: un onore concesso a ben poche bambine, come mi ripeteva la zia.
Poi ricevetti un regalo davvero speciale: un libro, un bene prezioso visti i tempi e la mancanza di materia prima!
Non avevo ancora imparato a leggere, ma avevo un libro tutto mio: una Bibbia, composta da sole figure xilografate, che illustrava i passi salienti della Sacra Scrittura.
Con questo libro ebbe inizio la mia istruzione religiosa.
Di fatto, tutta l'educazione fu finalizzata alla mia futura consacrazione.
Ricevetti altri libri e padre Mariano mi insegnò il latino, a soli dieci anni.
La zia voleva garantirmi un'istruzione di alto livello, ma non lo fece per migliorare le mie capacità.
Fu solo per sgravarsi la coscienza di quanto sarebbe stato compiuto: il ratto di sua nipote dalla vita mondana per voler del padre.
Una mattina del mese di marzo dell'anno 1589, una gelida mattina, la zia mi disse:
"Diletta nipote, indossa la mantella che usciamo."
Di rado uscivo se non per andare alla Messa o per qualche circostanza eccezionale come una visita di condoglianze, un battesimo e poco altro.
Invece con mio stupore andammo dal leguleio di famiglia, in realtà molto stimato da mio padre, tal Giuseppe Limiato, a cui egli aveva affidato l'amministrazione del patrimonio dei de Leyva.
"Signore carissime, il vostro Messer Limiato per servirvi!", disse con un inchino quando arrivammo presso il suo studio.
Ci accomodammo e, continuando le smancerie, venne servita una cioccolata bollente.
Soffiavo sulla tazza mentre Limiato parlava lungamente dei lasciti della famiglia.
Finalmente fui in grado di sorseggiare la cioccolata, che era il mio unico interesse, quando fui destata dalla voce dell'amministratore.
"Contessina!", disse Limiato, rivolgendosi a me.
"Il vostro signor padre mi ha chiesto di rendervi edotta della vostra dote."
Io ero un'adolescente con una timidezza infantile e a queste parole arrossii e abbassai lo sguardo.

 

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Immagine di una sagoma scura (Per leggerne la descrizione proseguire nel link). Si vede il busto scuro di una suora, di profilo.Particolare della sagoma del volto di profilo.Particolare della sagoma del busto.
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"Orbene", disse Limiato continuando il discorso, "per diritto testamentario vi è stata riconosciuta l'eredità di vostra madre, la quale oggi, il dì 15 marzo 1589, per volere del vostro signor padre e con procura notarile, si costituisce quale dote spirituale di 6000 lire imperiali per l'occasione del vostro prossimo ingresso nel monastero benedettino di clausura di Santa Margherita di Monza."
A queste parole mi scottai la lingua con un sorso troppo bollente che per poco non mandai di traverso.
Mia zia fu subito pronta a darmi qualche colpetto sulla schiena per aiutarmi a respirare.
"Sei commossa, cara?
Non ti aspettavi siffatta generosità?
E' una somma importante che ti garantirà un futuro nel monastero!", disse la zia con voce suadente.
"La somma", riprese a dire il leguleio senza badare a me, "è depositata presso il mio studio e l'impegno preso con il conte è di versarla nelle casse del monastero al momento della vostra professione monacale..."
A queste parole ebbi un capogiro e non seguii più la spiegazione.
Accanto a tale somma mio padre si impegnava a pagare 212,5 lire l'anno fino alla pronuncia dei miei voti e poi, oltre alla dote, un vitalizio di 300 lire annue.
La mia adolescenza si spense in questo giorno.
La missione di suor Crispina si stava per compiere.
Qualche tempo dopo entrai in convento come novizia.
La carrozza si avvicinò al piazzale del monastero.
"Ti senti turbata?", chiese la zia che mi accompagnava.
Feci cenno di no con la testa e uscii.
Il cocchiere mi aiutò a scendere dal predellino.
Non avevo bagagli, il baule era stato già consegnato.
Suonai la campana e il pesante portone si aprì senza far mostra di alcuno.
La zia, rimasta in carrozza, fece solo un cenno con la mano e il portone si richiuse.
La madre superiora mi aspettava al parlatorio.
Mi fece sedere e dopo avermi dato lettura del regolamento del convento mi disse con le labbra stirate da un sorrisetto:
"E ora, toglietevi la cuffia!"
Lo disse con una punta di malizia come a dire:
"E ora, denudatevi..."
Mi sentii violata nell'intimità e sconcertata quando una conversa portò delle forbici di ferro.
"Scioglietevi la treccia!", ordinò la badessa.
Io non ebbi la forza di ubbidire, sicché la badessa prese le forbici e con un gesto secco recise i capelli intrecciati.
Poi, tenendo la treccia tra due dita, la gettò in terra.
La conversa completò il taglio fino a un centimetro dalla cute.
Guardai i capelli in terra: avevo freddo, pensai solo questo, come stordita da una narcosi emotiva.
La pronuncia dei miei voti ebbe luogo il 12 settembre 1591: giorno della morte di Marianna e della nascita di suor Maria Virginia.
La mia vita consacrata cominciò con altre tre compagne: Benedetta, Ottavia e Teodora, anch'esse destinate al convento per forze di causa maggiore.
Per quanto riguarda l'impegno di mio padre a versare la dote, tramite l'amministratore chiese una dilazione di due anni e poi non onorò il suo impegno, limitandosi a elargire il più economico vitalizio pattuito.
Ma la zia pensò di acquietare la situazione mediando con mio padre per l'ottenimento di una delega di alcuni poteri signorili sul feudo di Monza.
Con questa procura, come prima cosa esercitai il diritto di pesca sul fiume Lambro che bagnava il territorio di famiglia.


 

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Immagine di una suora (Per leggerne la descrizione proseguire nel link). Si vede il busto di una suora dietro alla grata.Particolare del viso della suora.Particolare della grata.
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Ovvero in un primo momento proibii la pesca al fine di riservarla al convento francescano di S. Maria in Cariobolo, prospiciente il fiume, con cui il nostro convento aveva molti scambi.
"Avete acume politico", commentò la superiora.
"Così facendo avete stipulato un'alleanza con l'ordine francescano... la qual cosa torna a noi assai utile, lo devo riconoscere."
"Amore con amor si paga", commentai.
"Non è un insegnamento benedettino, ne sono consapevole ma, reverendissima madre, terrete conto di questo nel volermi concedere qualche privilegio nella vita di clausura... nevvero??"
Ero cresciuta in fretta, non avevo più scrupoli di sorta.
Nonostante il mancato versamento della dote nelle casse del convento, il potere territoriale cominciava a dare i suoi primi frutti.
Ben presto diventai sacristana et soprastante alle putte secolari - in altre parole, gestivo le converse.
Benedetta, la mia consorella, bravissima organista, divenne la mia migliore amica.
Fu lei a rivelarmi un fatto incredibile.
Stavamo potando le rose in giardino, nel silenzio richiesto per regolamento nel lavoro, quando a un tratto mi fece un cenno.
Io discretamente poggiai le cesoie e il cestino e mi diressi in un punto appartato del giardino.
Benedetta fece lo stesso.
"Che succede?", le chiesi a bassa voce.
"Siamo osservate", disse lei in un sussurro.
"Da chi?", domandai piuttosto allarmata.
"Da un giovanotto!", disse lei candidamente.
"Nei tuoi sogni, sorella mia?!", feci io con tono scanzonato.
"No, seriamente!"
"E donde?"
"Oltre il muro, dalla feritoia del muro di cinta."
In effetti, un lato del muro perimetrale del convento di S. Margherita affacciava sulla casa degli Osio, di lignaggio monzese, non nobiliare ma agiato.
La famiglia aveva intrecciato rapporti di amicizia con le casate lombarde più influenti e si dimostrava prodiga di attenzioni nei confronti del convento.
"Dimostramelo!", dissi senza mezzi termini.
Ci incamminammo verso il roseto e vidi io stessa, dalla feritoia, il profilo di un ragazzo, bello e virile.
Arrossii fino al collo, come non mi capitava oramai da anni.
L'impudente si accorse di me e poco dopo spinse da dietro la feritoia un narciso, colto nel suo giardino.
Rimasi immobile mentre il fiore ricadeva ai miei piedi.
Senza esser vista lo raccolsi.
Il fiore era portatore di una missiva, arrotolata sul gambo.
Con le dita tremanti srotolai il foglietto e lessi.
"Come rugiada all'aurora i miei baci sui tuoi capezzoli", deglutii e girai il foglio che recava la sigla: "A.C. a te sola."
Lo mostrai subito a Benedetta.
"Scrive per certo a una delle novizie", commentò risoluta, "possibile ti abbia scambiato per un'altra?!"
Non fu difficile sciogliere l'acronimo perché corrispondeva alle iniziali del nome e del cognome della novizia appena arrivata.
Denunciai il caso alla superiora che decise per l'allontanamento immediato della ragazza.
L'episodio risuonò in me per lungo tempo.
Il volto di quel giovane divenne la mia ossessione notturna che confessai a Benedetta.
Anche Ottavia, l'altra mia consorella, comprese la mia crescente inquietudine.
"Chi osa parlarne sia in eterno dannata!", minacciai alle amiche senza mezzi termini.
Fra noi tre rimase molta tensione perché le nostre uscite erano tutte condizionate dallo sbirciare attraverso quella feritoia.
Una sera di maggio, dietro il refettorio accadde un fatto.
Ero uscita, dopo cena, per completare il giro di controllo e chiudere il cancello del pollaio quando un'ombra dietro a un albero si mosse.
Fui colta di sorpresa e dal sobbalzo mi cadde il cestino con le uova che avevo appena raccolto.
Era il giovane Osio, il quale evidentemente aveva colto il nostro interesse proibito!
Io scappai dietro un altro albero, coprendomi il viso con il lembo del velo.
L'Osio mi rincorse e mi afferrò per un braccio, con energia.
La sua stretta mi turbò, ma rimasi immobile, ero una preda braccata.
Riconoscevo nel suo sguardo illuminato dalla luna qualcosa di selvatico.
"Rugiada sui tuoi capezzoli...", mi sussurrò volgarmente all'orecchio.
Mi spaventai.
Ero sul punto di urlare, sicché lui mi strinse a sé e posò l'indice sulle mie labbra per farmi tacere.
Ma il gesto della mano non era aggressivo e l'espressione del viso sembrava ora avere una piega più delicata.
Io provai ugualmente a parlare e allora la pressione della mano si fece più forte.
E il suo respiro divenne affannato.
Mi spinse e mi sopraffece.
Non opposi resistenza.
Le luci del convento si stavano spegnendo quando ormai adagiati sull'erba lui strappò la mia tonaca, spingendomi con le gambe per tenermi ferma.
Fu un atto violento; poi lui con un ghigno, prima di andare via, mi giurò che sarebbe tornato.
Non è facile il ricordo del mio stato d'animo.
Ero offesa, profanata, ma al contempo sentivo quell'atto che faceva male come una ferita, il cui dolore serviva tuttavia a coprire altre e più sorde sofferenze della mia anima.
L'uomo che avevo mio malgrado conosciuto, Giovanni Paolo, divenne la mia ossessione.
Le sorelle Benedetta e Ottavia furono le mie confidenti.
Io le dominavo totalmente e non ebbero il coraggio di opporre altre ragioni all'intenzione mia di accondiscendere all'Osio, che tornò a farmi visita.
Insomma, non denunciai la violenza subita e favorii nuovi incontri notturni.
La prima gravidanza non tardò ad arrivare e con le mie amiche consorelle riuscimmo a nascondere il fatto.
"Maria Virginia ha un umor malinconico che l'angustia!", dicevano per giustificare la mia indisposizione ai lavori più gravosi.
"La lasciamo riposare, prendiamo noi i suoi doveri!"
Ma nonostante tutto la gravidanza fu davvero cagione di malessere, tant'è che partorii prematuramente un bambino morto.
Il bambino morto era segno nefasto, la mia coscienza ne fu scossa.
Per un certo tempo tentai la contrizione della carne, ma l'Osio era un violento e rimasi incinta una seconda volta.
Nell'agosto del 1604 diedi alla luce una bambina.
Partorii in convento, con l'aiuto di Benedetta e Ottavia, nuovamente ostetriche sul campo.
Le altre suore fingevano di non sapere, fingevano di non sentire i vagiti della neonata.
La superiora aveva tutto l'interesse a coprirmi per via dell'influenza politica del mio diritto feudale, da cui anch'essa traeva vantaggio.
Alma Francesca Margherita mi fu portata via pochi giorni dopo la nascita e fu affidata dal padre alle cure di due servitori degli Osio.
Due anni dopo, nel 1606, Giovanni Paolo la riconobbe come sua figlia e io ne fui felice.
La relazione tra noi andava avanti e nel convento si vociferava molto sul mio conto, ma nessuna consorella osava affrontarmi.
Comprai il silenzio della madre superiora elargendole delle terre e questo sembrava sufficiente a tenere la situazione sotto controllo.
Benedetta e Ottavia mi aiutavano a mantenere un minimo equilibrio nella comunità conventuale, che però si infranse con l'arrivo di una nuova conversa: Caterina della Cassina da Meda.
Era una suorina saccente e impudente, di mediocri origini familiari ma di indole molto superba.
Io non la sopportavo!
Ero ancora la responsabile delle converse e con lei, lo confesso, ero molto dura.
Più la punivo e più Caterina si caricava di odio nei miei confronti.
Era un continuo fronteggiarmi.
Quando Benedetta mi disse:
"Ho udito Caterina dire alle altre: 'Ha partorito la figlia del demonio'...", io mi vendicai con un pesante castigo.
Ma ancora una volta lei osò sfidarmi e sfrontatamente affermò:
"Virginia lo siete solo di nome e non di fatto!
Rivelerò tutto al Vicario del convento, Mons. Barca!
Dirò di voi, del vostro amante e dell'organista vostra complice!!!"
A questo punto la rinchiusi nella cella-prigione del Monastero.
La ragazza aveva in odio pure la povera Benedetta che non aveva alcuna colpa!
Riferii questo discorso a Benedetta e purtroppo anche al mio amante, il quale era un passionario in ogni senso.
Tutti eravamo consapevoli del rischio che avremmo corso e io stavo cercando di capire come avrei potuto comprare il silenzio di Caterina, ma nessuna di noi avrebbe mai potuto immaginare quel che fece Giovanni Paolo.
La stessa notte si intrufolò nel monastero con una spranga di ferro e, aperta la cella dove era imprigionata la ragazza, le diede tre colpi letali sulla nuca.
Poi prese il corpo senza vita e lo nascose nella catasta di legno del pollaio.
Con la spranga allargò la feritoia del muro di cinta fino a farla diventare un passaggio, affinché l'indomani si potesse pensare all'evasione della ragazza.
Successivamente trasferì il cadavere nella cantina di casa sua: lo decapitò, gettando la testa in un pozzo poco distante e seppellì il resto del corpo.
Una cosa ripugnante.
Nessuno di noi poté credere alla fuga di Caterina, neppure suo padre accorso al convento.
Come avrebbe potuto una ragazza aprirsi un passaggio nel muro, in una notte?
Il dubbio dell'assassinio per mano di Giovanni Paolo fu in me dal momento in cui sparì.
Non lo rividi mai più.
Nel convento si aprì un'inchiesta e il cardinal Borromeo venne a prelevarmi di persona, il 25 novembre 1607.
Fu il cardinale a darmi la notizia dell'arresto dell'Osio presso il Castello di Pavia, per aver commesso altri due omicidi.
La furia assassina era in lui!
Prima dell'arresto, l'Osio ebbe modo di incontrare Benedetta e Ottavia, alle quali raccontò i dettagli cruenti della morte di Caterina...
Circostanze che vennero successivamente riferite dalla consorelle, chiamate a testimonio nel processo.
Le mie colpe ebbero invece un procedimento canonico.
"Confesso a Dio onnipotente che ho molto peccato... ma la precoce clausura impostami fu la prima cagione di ottundimento dell'anima mia!
Un'attenuante alla colpa, signori!"
Implorai solo questo come discolpa, durante il mio interrogatorio.
Ai giudici canonici che mi rintuzzavano con l'argomento della debolezza della mia carne io dissi:
"Iddio conosce quel che di violento ci fu, di carnale, nel fiore dei miei anni negati...", e non dichiarai più altro.
Si concluse il processo contro Giovanni Paolo, imprigionato dopo aver tentato di uccidere anche Benedetta e Ottavia al fine di tacitarle per sempre.
Osio venne condannato a morte dal tribunale penale mentre io fui rinchiusa, secondo la legge canonica, nella casa benedettina di S. Valeria.
Il cardinal Borromeo volle il mio ravvedimento completo e io glielo concessi.
Il "lume divino", come Borromeo definiva il pentimento, era sceso su di me.
Il cardinale mi chiese di scrivere delle lettere che comprovassero il ravvedimento dalla mia cella angusta:
"Paratissima son a ricevere il rimedio opportuno delle piaghe mie, sia con penitenza, sia con asprezze.
Prontissima schiava sono alla santa e retta voluntà di Vostra Signoria Illustrissima."
Fui praticamente murata viva per quattordici anni e fui infine liberata nel 1622.
Ma cosa restava di vivo in me?!
Rimasi nella casa di S. Valeria, dove nello scuro 17 gennaio 1650 trovai la morte.
"I padri han mangiato uva acerba e i denti dei figli si sono allegati.
Ma ognuno morirà per la sua propria iniquità", dice Geremia nell'Antico Testamento... e con ciò cui si conclude quanto avevo da raccontarvi... perché questa, agli atti, è la versione di Eva.





 

 

 

 

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