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Barbari barboni
in onda domenica 3 febbraio 2013 alle 13.25
La Galleria Palatina di Palazzo Pitti a Firenze, le mostre Costantino il Grande al Castel Sismondo di Rimini e Roma e i barbari. La nascita di un nuovo mondo a Palazzo Grassi di Venezia sono oggetto di questo appuntamento con Passepartout, il domenicale di arte e cultura di Raitre, scritto e condotto da Philippe Daverio.
L’obiettivo è quello di aggiungere qualche contenuto a quella sorta di “gap” sia estetico che storico che da sempre caratterizza la trattazione del periodo della fine dell’impero romano e delle invasioni barbariche.
Si comincia da Palazzo Pitti e si cerca di comprendere che cosa era e cosa rappresentava per Roma un barbaro. Anzitutto il modo in cui furono chiamati non c’entrava nulla con la barba, anche se tutti la portavano. Tale denominazione gli fu attribuita dai greci per via del loro modo di parlare. I barbari erano gli extracomunitari d’allora, forti e rissosi, ma al tempo stesso pronti all’integrazione. Si trattava in prevalenza di manovalanza nell’unico settore produttivo che non prevedeva lo schiavo, la guerra, e tra loro c’era di tutto: i goti che stavano ad est, i germani che studiavano Tacito. Col tempo diventarono anche imperatori, tornando utili finché giravano i sesterzi. La mostra di Venezia presenta un campionario di questo arcipelago culturale ed estetico legato ai popoli barbari e alla loro interazione con il mondo greco-romano. Un’integrazione in verità non completamente riuscita, in quanto la vera trasformazione di quegli anni fu la cristianizzazione dell’impero. I barbari seguivano la fede di Ario, mentre l’impero vedeva velocemente sgretolare il suo impianto statale che, allora, non essendoci la previdenza sociale e la sanità si organizzava essenzialmente in tre funzioni principali: magistratura, fisco ed esercito. Costantino pensò alla ricostruzione del tessuto amministrativo, basandosi sulle sedi episcopali e provvedendo quindi a sedare le varie diatribe come quella che vedeva Alessandro vescovo d’Alessandria contro Ario rifugiatosi in Palestina. Intorno agli anni 325-328 Costantino convocò così il concilio di Nicea con la partecipazione di trecento vescovi, riuniti nel primo soviet supremo della storia, al fine di tracciare una linea per rifondare dalle basi l’impero. La capitale fu subito spostata a Costantinopoli e anche se Roma restò ancora a lungo il centro più chic dal punto di vista estetico e culturale, il passaggio di consegne a favore della città che stava rifondando l’impero fu inevitabile. Lo si può leggere anche nelle scelte in fatto di calzature, con Roma che privilegiava la comoda e un po’ sedentaria pantofola mentre Costantinopoli sceglieva l’allegro dinamismo del sandalo con l’infradito. Mentre a Milano si intagliava già il più elegante degli avori del mondo, a dimostrazione che questi barbari non erano poi così tanto barbari come ce li immaginiamo ancora oggi.
Lo saranno invece quelli delle ondate successive con un primo vero attacco frontale su Roma nel 410 e il conseguente innalzamento di nuove mura. Poi arrivano i Goti e Teodorico chiama a Ravenna come consigliere Boezio, l’ultimo pensatore in latino, al quale successivamente fece tagliare la testa. L’ultimo vero tentativo di riordino fu quello di Giustiniano che emanò nel 534 un codice in latino, anche se per agevolarne la diffusione si preferiva spiegarlo in greco perché il mondo colto di allora preferiva esprimersi così. Una quarantina di anni dopo arrivano i Longobardi, i più incarogniti di tutti sulle prime ma che poi alla fine si convertono, recuperano l’uso del latino e danno luogo ad una prima idea d’unità d’Italia.