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Note degli sceneggiatori
"Sotto il cielo di Roma" affronta in modo piuttosto diretto un argomento, ed un personaggio, che hanno trovato larga eco nella pubblicistica degli ultimi tempi. Pio XII, la sua figura pastorale di Papa e di vescovo di Roma, sono esaminati nel periodo dell'occupazione nazista della Capitale, in quella contingenza tragica contrassegnata soprattutto dalla drammatica ed esiziale deportazione di più di mille ebrei romani.
Non si poteva scrivere di Pio XII sfuggendo a questo snodo capitale della sua biografia, o eludendolo. Era sensato, invece, affrontarlo di petto, facendone occasione di racconto e di riflessione. Ma questo è stato come scrivere nella tempesta. A ondate successive, cicliche, durante la stesura la polemica è montata, le opinioni si sono fronteggiate nel dibattito quotidiano, spesso sono diventate atti politici o diplomatici dei governi, avendo quasi sempre al centro Pio XII, il suo operato, le sue omissioni, vere o presunte.
Il nostro scopo era scrivere un racconto, e non formulare un giudizio storico. Non ne avevamo né la competenza né la missione. D'altra parte, affrontare i dati storici era inevitabile e necessario. Abbiamo lavorato come sempre si lavora in questi casi, documentandoci e lasciando maturare in noi stessi non una convinzione, quanto un'impressione. La consuetudine coi personaggi e con le vicende ha prodotto una sensibilità, generica quanto può esserlo il semplice buon senso, ma affatto casuale, e decisamente coinvolta. È attraverso di essa che lentamente abbiamo cercato di mettere in forma il racconto. Un processo tutt'altro che scientifico, come si vede. Ma alla luce di quella sorta di buon senso, ad esempio, subito ci è parsa destituita di fondamento la cosiddetta leggenda nera di Pio XII, una delle vulgate più diffuse sul suo operato, che lo vede complice dei nazisti, e indifferente allo svolgersi del dramma degli ebrei. Lentamente, si dispiegava sotto i nostri occhi l'enorme complessità degli avvenimenti, e del contesto: un'Europa giardino di casa dei nazisti. Un Papa fra i pochissimi capi di stato ancora in possesso delle sue prerogative, ma insediato al centro di un territorio militarmente occupato. Una potenza, quella tedesca, al tracollo, e perciò più scomposta nella sua ferocia, e capace di colpi di coda micidiali. E poi Pacelli: un Pontefice di formazione ottocentesca e di estrazione diplomatica, alle prese con il più grande dramma del Novecento, e con scelte che nulla di diplomatico avevano, ma decidevano, all’istante, della vita o della morte di migliaia di persone.
Possiamo dire che se un'accortezza storica, da parte nostra, c'è stata, essa è consistita nel cercare di restituire almeno in parte l'enorme complessità di quel contesto. Il Papa, la Chiesa, i tedeschi occupanti, e gli ebrei. È stato chiaro da subito, infatti, che la condizione per poter mettere in scena Pio XII, era di mettere in scena il loro martirio. E non certo per una questione di equidistanza. Ma perché è quel sequestro di vite umane, quel terribile sbiadirsi di voci, volti e storie, che deve sempre costituire lo sfondo incessante di quel momento storico. Solo avendo chiaro, in modo non rituale, il significato umano di quella razzia, si può iniziare a discutere, o anche solo a rappresentare, gli episodi legati ai mesi dell'occupazione nazista di Roma. E allo stesso tempo, con la stessa forza, dalla stessa radice di orrore, si impone un altro elemento, quello dei salvati.
Nello specifico, dei salvati col consenso e l'iniziativa della Chiesa di Roma: nei conventi, nei seminari, nelle parrocchie. I libri di storia specificano, in una narrazione nella quale i numeri hanno la loro parte, che più di mille ebrei di Roma furono deportati sotto gli occhi del Papa, ma che migliaia se ne salvarono per suo volere. E oggi ha il sapore di una distinzione capziosa dire che Pio XII ebbe parte passiva in quell'intervento, o non l'ebbe affatto. È questo lo scenario: ribollente, inquieto, deformato a tratti da fortissime pressioni ideologiche, e da prospettive falsamente lineari. Complesso, arduo e prematuro, forse, per un deciso giudizio storico. Ma ideale, invece, per chi con cuore sincero e passione si chini su di esso e tenti di raccontarne la storia.
Non si poteva scrivere di Pio XII sfuggendo a questo snodo capitale della sua biografia, o eludendolo. Era sensato, invece, affrontarlo di petto, facendone occasione di racconto e di riflessione. Ma questo è stato come scrivere nella tempesta. A ondate successive, cicliche, durante la stesura la polemica è montata, le opinioni si sono fronteggiate nel dibattito quotidiano, spesso sono diventate atti politici o diplomatici dei governi, avendo quasi sempre al centro Pio XII, il suo operato, le sue omissioni, vere o presunte.
Il nostro scopo era scrivere un racconto, e non formulare un giudizio storico. Non ne avevamo né la competenza né la missione. D'altra parte, affrontare i dati storici era inevitabile e necessario. Abbiamo lavorato come sempre si lavora in questi casi, documentandoci e lasciando maturare in noi stessi non una convinzione, quanto un'impressione. La consuetudine coi personaggi e con le vicende ha prodotto una sensibilità, generica quanto può esserlo il semplice buon senso, ma affatto casuale, e decisamente coinvolta. È attraverso di essa che lentamente abbiamo cercato di mettere in forma il racconto. Un processo tutt'altro che scientifico, come si vede. Ma alla luce di quella sorta di buon senso, ad esempio, subito ci è parsa destituita di fondamento la cosiddetta leggenda nera di Pio XII, una delle vulgate più diffuse sul suo operato, che lo vede complice dei nazisti, e indifferente allo svolgersi del dramma degli ebrei. Lentamente, si dispiegava sotto i nostri occhi l'enorme complessità degli avvenimenti, e del contesto: un'Europa giardino di casa dei nazisti. Un Papa fra i pochissimi capi di stato ancora in possesso delle sue prerogative, ma insediato al centro di un territorio militarmente occupato. Una potenza, quella tedesca, al tracollo, e perciò più scomposta nella sua ferocia, e capace di colpi di coda micidiali. E poi Pacelli: un Pontefice di formazione ottocentesca e di estrazione diplomatica, alle prese con il più grande dramma del Novecento, e con scelte che nulla di diplomatico avevano, ma decidevano, all’istante, della vita o della morte di migliaia di persone.
Possiamo dire che se un'accortezza storica, da parte nostra, c'è stata, essa è consistita nel cercare di restituire almeno in parte l'enorme complessità di quel contesto. Il Papa, la Chiesa, i tedeschi occupanti, e gli ebrei. È stato chiaro da subito, infatti, che la condizione per poter mettere in scena Pio XII, era di mettere in scena il loro martirio. E non certo per una questione di equidistanza. Ma perché è quel sequestro di vite umane, quel terribile sbiadirsi di voci, volti e storie, che deve sempre costituire lo sfondo incessante di quel momento storico. Solo avendo chiaro, in modo non rituale, il significato umano di quella razzia, si può iniziare a discutere, o anche solo a rappresentare, gli episodi legati ai mesi dell'occupazione nazista di Roma. E allo stesso tempo, con la stessa forza, dalla stessa radice di orrore, si impone un altro elemento, quello dei salvati.
Nello specifico, dei salvati col consenso e l'iniziativa della Chiesa di Roma: nei conventi, nei seminari, nelle parrocchie. I libri di storia specificano, in una narrazione nella quale i numeri hanno la loro parte, che più di mille ebrei di Roma furono deportati sotto gli occhi del Papa, ma che migliaia se ne salvarono per suo volere. E oggi ha il sapore di una distinzione capziosa dire che Pio XII ebbe parte passiva in quell'intervento, o non l'ebbe affatto. È questo lo scenario: ribollente, inquieto, deformato a tratti da fortissime pressioni ideologiche, e da prospettive falsamente lineari. Complesso, arduo e prematuro, forse, per un deciso giudizio storico. Ma ideale, invece, per chi con cuore sincero e passione si chini su di esso e tenti di raccontarne la storia.
Fabrizio Bettelli
Francesco Arlanch
Francesco Arlanch